Cooperazione allo sviluppo e flussi migratori




G. F.



Recepire oggidì i segnali d'uno sviluppo socio-economico differenziato tra Psa (Paesi a sviluppo avanzato) e Pvs (Paesi in via di sviluppo) all'insegna del divario di crescita demografica fortemente radicato fra le due realtà sarebbe poco meno d'un luogo comune, in grado di aiutarci ben poco nella comprensione dei reali problemi - anche di ordine interpretativo - ivi connessi.
In tal luce, occuparsi di fenomeni migratori significa, molto spesso, ritrovarsi ad affrontare i consueti scenari demografici che a mo' di aspetti tipicamente differenziali contraddistinguono i modelli di sviluppo del Nord e dei Sud del mondo. Qualora ci si ponesse, infatti, dei quesiti, non potremmo trovare risposte se non in una diversità -verrebbe da pensare: naturale! - fra due mondi così antitetici, come parrebbero i Paesi di immigrazione e quelli, invece, di emigrazione. Detta terminologia sostanzialmente richiama, potendola difatti surrogare, quella poc'anzi citata tra Psa e Pvs: quasi sempre, infatti, i Paesi a sviluppo avanzato sono i maggiori, oltreché meglio "attrezzati", richiedenti di manodopera straniera; di converso, i Pvs rappresentano, foss'anche potenzialmente, i maggiori offerenti di forze lavoro sui mercati internazionali.
Non a caso la tipologia problematica si ripete in termini di variabili sussunte con una profonda analogia: livello di reddito procapite, struttura dei consumi familiari, tasso di attività (e inattività), tasso di occupazione (e disoccupazione), indice sintetico di fecondità generale, quozienti di mortalità, natalità e mortalità infantile, vita media alla nascita, indici di struttura della popolazione, indici di carico sociale, etc. Orbene, dall'interazione tra queste variabili dipenderebbe il grado di sviluppo di un Paese ovvero la sua potenziale "emigratorietà" o "immigratorietà".
L'uso dei termini, lungi da equivoche elucubrazioni, si atteglierebbe viepiù a una possibile chiave di lettura del fenomeno "cooperazione allo sviluppo", troppo spesso enfatizzato in nome di fatali pregiudizi. La cooperazione ha assunto, infatti, una molteplicità di forme, autori e modalità di svolgimento, da cinquant'anni a questa parte, che ben poco si richiamano al senso puro della stessa, vale a dire di fattiva collaborazione tra Paesi-soggetti di bisogni e Paesi-latori di istanze atti a soddisfarli. Le remore contro cui sovente si urtano i principali programmi di assistenza al Pvs dipendono sostanzialmente -e la prassi sembra confortare quest'avviso - da un duplice ordine di motivazioni:
a) eccessiva centralizzazione dei processi decisionali nell'ambito dei Psa, a scapito di un effettivo quanto indefettibile coinvolgimento delle realtà interessate;
b) frequente sottovalutazione delle complessità eziologiche che sono alla base dei flussi migratori tanto dai Pvs in direzione dei Psa, quanto all'interno degli uni e, in certi casi, degli altri.
In relazione al punto a), i processi di cooperazione sembrano risultare dalle decisioni unilaterali dei Psa, sia individualmente che in qualità di membri degli organismi internazionali in cui le loro partecipazioni (in termini di quote versate e relativi incarichi assunti) potrebbero essere assimilate a quelle di azionisti di maggioranza, con poteri di valutazione e di operatività non difficilmente congetturabili. Di converso, dalla parte dei Pvs si trovano realtà istituzionali e politiche non sempre all'altezza delle delicate funzioni loro affidate nella gestione delle risorse, avvinte come sono da una cronica deresponsabilizzazione; ciò, anche e soprattutto, in ragione di un rapporto di delega instauratosi col Psa (molto spesso, di matrice neo-colonialista) quasi sempre loro donatori piuttosto che cooperatori.
In relazione al punto b), si è alquanto propensi a concepire le distanze separanteci dai Paesi donatari in termini di povertà o tare economiche da abbattere o ridimensionare, non considerando o tutt'al più fortemente trascurando il profilo socio-culturale, sotto cui si cela un'ancor più forte e vera linea di demarcazione, talvolta di cesura, rispetto alle nostre realtà. E' necessario, dunque, estendere e profondere il nostro impegno nella
comprensione dei moventi di ordine prettamente psicologico che informano gli attuali flussi migratori, tanto nelle classiche direttive Sud-Nord quanto in quelle più recenti EstOvest; derivando alla nostra ragione, di conseguenza, anche quei moventi che spiegano come la quasi totalità dei Paesi di immigrazione abbia provveduto a erigere barriere di forma normativa (e contenuto socio-economico) a nuovi ingressi, favorendo nel contempo politiche di rientri in patria.
Il bisogno è vissuto, in genere, come un'illusione più forte della stessa necessità economica, proprio perché fomentato e corroborato da altri fattori: le politiche d'induzione alla mobilità da parte delle autorità di provenienza, le conflittualità d'ordine ideologico e religioso al proprio interno, i processi di alienazione rispetto ai valori generazionali, il miraggio del "nuovo", sempre e comunque preferibile alla prospettiva di una crescita autonoma (anche in questo l'opera dei Psa non è scevra di responsabilità).
Solo contemperando ogni esigenza legata indissolubilmente alla condizione di disagio e, quindi, di bisogno e, conseguentemente, di propensione a migrare, si possono formulare seri progetti di cooperazione che tendano, in primo luogo, a responsabilizzare i Paesi destinatari degli aiuti, rendendoli più consci e, soprattutto, autori delle scelte che li riguardano; in secondo luogo, a intervenire con forte piglio critico sulla nostra filosofia di sviluppo, troppo intrisa di valori economici, che trovan tempo per essere sconfessati.


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