§ MEMORIE DEL SECOLO

LO SPAZIO POLITICO DI UN ADOLESCENTE DEL SUD




Gennaro Pistolese



Nell'imminente avvento del Duemila anche lo spazio destinato agli adolescenti si viene allargando. L'allungamento della vita media coesiste sempre più con l'accelerazione dei tempi, chiamati una volta giovanili, che oggi comportano certamente più espressive classificazioni.
Anche i paradossi stanno facendo a questo riguardo la loro parte, chiamando fra l'altro in causa il computer, più sentito e praticato, anzi richiesto, fra i giovanissimi che non negli anziani. Un computer che nel nostro agone politico viene anche promesso ad ogni scuola, perché come i sigari di una volta, che Giolitti non negava a nessuno, anch'esso non dovrà, non potrà avere sorte diversa.
Siffatto clima, che per ossigenarsi ha anche bisogno dei paradossi, che quasi sempre rispecchiano o preparano una verità in agguato, ci offre anche la presunzione di un ... l'addebito ai giovani perché non votano" ... Segno questo dei tempi, con la managerialità che brucia le tappe, con le tecnologie che ci trovano impreparati, con la contrapposizione fra attese e delusioni generazionali e così via.
Tuttavia chi come me, nato nel Sud e trasmigrato nel Centro, che ha avuto a che fare con il lume a petrolio e poi con il computer di cui ho detto prima (dovendo di questo registrare la presenza, ma come altri veterani del giornalismo rifiutandone l'uso, perché la "lettera 22" o "25" è stata sempre parte integrante della stessa propria anima), deve ricordare che anche molti bambini, poco più che decenni all'indomani della fine della prima guerra mondiale, si sono trovati, tutt'altro che consapevoli, incuriositi delle locali attività politiche.
A me, ad esempio, è capitato di essere stato eletto sindaco della quarta classe di una scuola elementare di Melfi, perché il nostro maestro - si chiamava Zappella - aveva voluto che noi a nove anni sapessimo cosa fossero le elezioni. Eppure, quelli non erano i tempi del "sindaco d'Italia" promesso o evitato oggi.

Volti emblematici
In questo contesto si inseriscono i miei tentativi di "medaglioncini", che riguardano la mia adolescenza chiamiamola aspirante politica.
E questi medaglioncini, sempre a Melfi, hanno a che fare con uno statista, con tre o quattro parlamentari; con esponenti di un ceto medio importatori dei fasci di combattimento e che ricordo con una barba per uno e con un cappello a larghe falde per un altro; con un "sottoprefetto" (figura da tempo ignota al ministero dell'Interno); con un vescovo, con un sindaco e un commissario prefettizio; con un direttore didattico e con un prete che oggi si direbbe di "marciapiede"; con un farmacista (ma allora Bergamini aveva inventato per il suo Giornale d'Italia una rubrica appunto con questo titolo); con un Gabriele D'Annunzio che si era trasferito non fisicamente a Melfi, ma solo con una figlia, quella che l'aveva assistito a Venezia e che aveva sposato un ufficiale di Marina, figlio di un tabaccaio che si chiamava anch'egli Gabriele e perciò esibitore nel negozio di una fotografia con dedica del Vate; con due o tre "testate". Anche per questi personaggi c'è uno scenario: un castello, una cattedrale con un ragguardevole palazzo vescovile, tre palazzi più o meno rappresentativi, un municipio con un sarcofago imponente e riportato alla luce agli inizi del secolo, grandi distese di campagne disabitate ma coltivate fino allo stremo dello spezzettamento, una sola auto, due camion sgangherati, pochissimi cavalli, taluni muli, moltissimi asini che coabitavano frequentemente con i contadini, che rifiutavano le case coloniche perché preferivano la sera tornare a casa.
Era la Melfi che durante il fascismo doveva divenire anche sede di confino politico - con Cesarino Rossi fra i suoi abitanti - e che da Carlo Levi veniva tagliata fuori dal suo Cristo si è fermato ad Eboli.
Così, anche per un ragazzino, la "politica" entrava, meglio poteva entrare nell'aria: un'aria nella quale ci sono stati gli ufficiali austriaci prigionieri nel Castello costruito da Federico II, i profughi padovani della prima guerra mondiale, il sospetto di una spia che innocuamente vendeva pesci rossi, due donne oriunde albanesi con vestiti doc, un ospedale di tre stanze preoccupate di centralità ma per vocazione squallidamente vuote, una caserma di carabinieri ovunque presenti pur ridotti a due o tre unità, ma abbondanti portatori di imputati ad una Corte d'Assise, che in Melfi aveva una sede. Melfi, allora capoluogo del Circondario e perciò sede di un sottoprefetto; Melfi, allora solo contadina, ma in zone limitrofe feudo del principe Doria con annesso castello di Lagopesole; Melfi, acculturata da un professionismo forense e da una magistratura che era pedina di lancio per carriere prestigiose; Melfi, che aveva scuole di insegnanti laici e religiosi che dalla loro intrinseca rigorosa formazione e preparazione (da Magna Grecia per taluni) facevano discendere una non meno rigorosa capacità didattica, con obiettivi purtroppo circoscritti di sbocco; Melfi, senza capitalismo, e perciò con la naturale mescolanza di ceti, nel rispetto però delle peculiarità; Melfi, con una Società Operaia da una parte e un Circolo Sociale dall'altra, nella stessa piazza; Melfi, con una grossa lapide di Caduti nella prima guerra mondiale, e con un numero lunghissimo di nomi che avevano a che fare con i tanti arditi di guerra e di membri della compagnia bellica della morte. Eppure, era una Melfi che aveva registrato molti disertori, taluni dei quali nascosti in una nostra masseria dal massaro, ad insaputa dei miei, con la semplice motivazione che erano "figli di mamma". Nitti, come si sa, più tardi varava l'amnistia per i disertori, della quale fu accusato da D'Annunzio, che per lui, una volta suo amico, inventò il termine "Cagoia", e poi per tutto il ventennio fascista.

F.S. Nitti. grande lucano fra due secoli
Il capostipite di questi miei tentativi di "medaglioncini" è, appunto, Francesco Saverio Nitti, mio compaesano, figlio di uno che ha avuto a che fare da subordinato con la mia famiglia, certamente uno dei pochissimi veri statisti di questo secolo.
E' stato il mito della mia fanciullezza, anche se nella prima metà del '22 - avevo poco meno di tredici anni, ma con il corso di quarta ginnasiale già concluso - ne presi più o meno consapevolmente le distanze.
L'ho visto una sola volta, ospite nella casa della mia famiglia, con la moglie Antonia, in occasione di una sua visita a Melfi, da Presidente del Consiglio, nel corso di una campagna elettorale.
Nitti era abitualmente assente da queste campagne. Si limitava a qualche eccezionale pranzo sociale, con quote versate dai partecipanti - ricordo 50 lire - all'americana, come si usa oggi. Allora per questi candidati i partiti non esistevano, le organizzazioni invece c'erano per le sinistre, che allora erano solo socialiste, con le sfumature riformiste che riguardavano un ceto che aspirava a divenire medio. E la Lucania disponeva all'uopo di un avvocato che risiedeva a Potenza.
Nitti richiamava con il suo nome, con un clientelismo motu proprio, che non assicurava contropartite, ma amicizia frequentemente solo formale e verbale.
A Nitti Melfi, come ho detto altra volta, non deve neppure una fontana. Nitti però deve a Melfi una lapide apposta, ad iniziativa di un mio zio, sulla sua modesta casa natale, vivente Nitti prima del fascismo. Alla notizia che mio zio dette a noi io aggiunsi che alla lapide doveva essere aggiunta la frase "Una prece". Era una frase che vedevo riportata sulle lapidi, e che poteva essere un'anticipazione, perché Nitti dopo è stato fermamente antifascista, ha visto la sua casa di via Farnese a Roma saccheggiata, si è rifugiato in un albergo a Roma (l'Hotel Park, a ridosso di via Veneto), è stato lungamente esiliato, ha ripreso a fare il giornalistaopinionista, ha scritto libri con i cui cespiti è sopravvissuto, ha esortato anche direttamente re Vittorio e Mussolini a non entrare in guerra.
Ed è ritornato in Italia, dove un mio zio gli ha fatto trovare pronto a sue spese il suo giornale quotidiano Il Paese. Questo giornale è costato alla mia famiglia il palazzo avito.
Nitti, accolto a Napoli con il famoso raduno e suo discorso al San Carlo, trovò un'Italia diversa da quella che aveva lasciato. Il che èpiù che noto, oltre che ovviamente logico. Non sapeva invece che l'elettorato era ben diverso da quello che conosceva. Era nato il porta a porta; erano sorti i comizi, e lui come gli altri statisti non ne aveva mai fatto uno; i comitati elettorali o erano una cosa organizzata tecnicamente e capillarmente o non esistevano. Nitti invece per circolare aveva bisogno delle pantofole e, a parte il termine pantofolaio, con queste pantofole si fa una propaganda elettorale al massimo da vagone letto. E così Nitti entrò in politica all'insegna di Garibaldi, non so con quanti suoi distinguo di coscienza.
Parlando di Nitti, mio compaesano che ho conosciuto da adolescente, a distanza di tanti anni i miei ricordi non sfumano, ma si accentuano, con la loro celerità ed ampiezza in tutta la loro verità, che non ha bisogno di appunti, di riscontri documentari e bibliografici, come è necessario per gli storici, ma non sempre è indispensabile per i giornalisti, che spesso possono offrire solo testimonianze. E' il mio caso, che secondo me deve essere aggiunto a quello degli altri, miei auspicati confutatori se per avventura pur essi sopravvissuti.
Nitti, dunque, è stato un grande statista. I suoi libri stanno a confermarlo. Le sue idee e le sue intuizioni sono crisma dell'elevatezza di un fare politica che certamente c'è stato ed oggi stenta a manifestarsi e a prendere corpo.
Egli era stato giornalista, docente, finanziere, economista. Sul finire degli anni 10, all'indomani della fine della prima guerra mondiale, scrisse un libro dal titolo premonitore, infinitamente premonitore: L'Europa senza pace: della cartolina di promozione editoriale si serviva per una molto circoscritta propaganda elettorale. Per lo meno 75 anni sono trascorsi da allora e quelle pagine continuano ad essere all'angolo della storia.
Ma dei suoi libri, dei suoi tanti scritti, dei suoi tantissimi articoli di opinionista di fama mondiale sopravvive l'edizione nazionale delle opere stampate da Laterza, di cui il VI volume -mi sembra l'ultimo del 1963 - reca il titolo Rivelazioni, Meditazioni e Ricordi. Potrebbe essere uno dei libri che una volta si dicevano del capezzale. A me capita di farne questo uso, e me ne dolgo profondamente quando non accade.
Mi siano intanto consentite qui tre sole notazioni.
La prima concerne la prefazione ai suoi Ricordi. Dice: "Per aver cercato sempre la verità, per aver agito sempre secondo coscienza e non aver mai ceduto all'opinione pubblica, per essermi sforzato anche nei periodi di grande eccitazione di mantenermi imparziale e sereno, per non aver cercato mai la popolarità, anzi per averla assai spesso disdegnata, io credo che alla fine della mia vita potrò dire come Montaigne: "J'encourus les inconvénientes que la moderation apporte entelles maladies. Je fus pelaudè à toutes mains: au Gibelin j'étais Guelphe, au Guelphe Gibelin"".
La seconda notazione si riferisce a quanto egli da vedovo scrive della sua Antonia. Si tratta di una superba trascrizione del suo pensiero; di un dialogo che non esprime ricordi, ma perpetua una convivenza che aspira all'eternità, nella certezza che anche questa ha bisogno pure della speranza. E questa notazione per me, con un vissuto a questo titolo non diverso, è tutt'altro che di circostanza.
La terza notazione è che il suo meridionalismo purtroppo è stato superato nel tempo da quello ancora più radicato, motivato, macerato dalla riflessione e dalle intuizioni di un altro mio conterraneo, Giustino Fortunato, di Rionero in Vulture. Il suo stile di via, anche nell'esteriorità del costume abitativo, mio padre che gli era amico cercava di imitare nelle tazze da caffè blu ed oro o nelle lucerne ad olio, che sono innanzi ai miei occhi, anche ora che scrivo.
Giustino Fortunato, una fotografia con dedica che più non ritrovo e che la mia infanzia vedeva innanzi allo scrittoio di mio padre. Parliamo, anzi parlano poeticamente tanto delle foglie morte. Tante fotografie purtroppo hanno la stessa sorte, e noi siamo quasi sempre disattenti.
Di Nitti, re Vittorio Emanuele III, il re soldato di una volta, il re dubbioso e sospettoso di sempre, di Nitti appunto ebbe a dire che era particolarmente intelligente, ma che aveva paura. Paura: una parola dai significati abissali, che generalmente annuncia quello che non dice.
Ma a prescindere da ogni ricerca etimologica, una paura che Nitti ha certamente avuta è stata quella di temere l'eclissi di molte sue meditazioni, che sempre precoci rincorrono la realtà.
Naturalmente, e concludo, c'è anche il volto umano da ricordare.
A lui è toccato di tenere sulle ginocchia i bambini dei suoi amici, come si usa adesso con le carezze ai piccoli delle famiglie, nelle pubbliche relazioni di rango politico.
Io sono stato prima degli anni Venti uno di questi bambini. Allora non me ne sono accorto; nei consuntivi invece si raschia anche il fondo del barile. Pur con i mie anni mi sembra di non esserci ancora giunto. Eccomi così a frugare nella mia adolescenza.
A livello notevolmente inferiore, anche nella mia memoria, vi sono altri tre o quattro parlamentari lucani di quei tempi. Vi è anzitutto un deputato socialista, divenuto ministro dell'Interno nel primo governo Badoglio alla ricerca di esponenti socialisti da inserire nel suo Gabinetto perché allora non diversamente reperibili. Questo deputato socialista, amico di mio padre e al quale devo la prima tessera di accesso alla tribuna dei familiari della Camera dei Deputati - familiare io però tutt'altro che autentico - divideva la vita fra Camera del Lavoro e Tribunale.
Si distingueva durante l'estate per il suo panama abbondante; per la capillarità della sua organizzazione, imitativa di quella pugliese più forte (la Cerignola di Di Vittorio non era e non è molto distante); per l'organizzazione della festa del primo Maggio, normalmente tranquilla ma che qualche volta ha occasionato cruenti incidenti, con l'invio sul posto di una missione parlamentare d'inchiesta, presieduta da un socialista del livello di Ciccotti Cortese, che riaffiora nella mia memoria d'oggi. E c'erano i parlamentari cosiddetti democratici, anche allora, come Perrone, Ianfolla, ecc., che avevano anche altre professioni e non erano i cosiddetti politici puri di oggi, che tali si dichiarano anche se spesso si camuffano da giornalisti o tali sono.
E' questo certamente un parlamentarismo che i tempi ovviamente hanno superato, ma che lascia pure qualche esempio da far rivivere, proprio per rendere più reale, più efficiente, più avanzata la nostra democrazia.
C'è purtroppo l'abitudine di considerare obsoleto tutto il passato d'ordine politico e parlamentare specialmente, ma ci sono anche i corsi e i ricorsi storici da ricercare anche in questo campo e perciò da attualizzare. Ma quanti realmente se ne ricordano, quando affidano la loro immagine al nuovo e alla negazione - che chiamano superamento - della loro precedente indentità?
Si dice che la coerenza significhi mancanza di fantasia, ma si dimentica che valgono anche certi paletti, che in linguaggio odierno si traducono in valori.
Attenzione però alla determinazione rigorosa di questi valori, che nella nostra pratica nazionale rischiano di atteggiarsi a coperta tirata da ciascuno dalla sua parte.
Nella ricerca di valori di quel primo dopoguerra vissuto in un piccolo paese del Sud cominciava a fare la sua parte anche un fascio di combattimento, di cui, come ho detto prima, ricordo soprattutto la barba di uno dei due promotori e il largo cappello grigio o beige dell'altro. Contavano nel paese con questi emblemi più della camicia nera, che non ricordo affatto e che forse ancora non esisteva da queste parti, perché circolava di più una fascia nera con un approssimativo ricamo di un teschio. C'erano però nel fascio le bacheche con i nominativi dei pochi iscritti, c'era anche la prima avanguardia giovanile da quindicenni in su (ma la scarsa affluenza dava spazio anche agli aspiranti tredicenni, e fra questi capitai anch'io, che da sempre mi considero alla ricerca di spiragli di presenza, possibilmente anche anticipatrice, com'è secondo me anche nella vocazione giornalistica: quella della mia vita).
E c'era pure qualche conato di spedizione punitiva nei paesi vicini, con un camion traballante che conteneva gli entusiasmi dei pochi anche sbigottiti squadristi che allora esistevano in questa cittadina. Non so se taluni di essi abbiano o meno partecipato alla marcia su Roma che certamente nella vicina Puglia ha potuto contare su qualcosa di più: fra l'altro di un Caradonna, che era riuscito ad occupare la prefettura e che poi era partito per la capitale addirittura con una cavalleria: così in quella "apoteosi" furono definiti una decina di cavalli con cavalieri che invece del fez portavano il cappello marrone dei nostri giovani esploratori del tempo, i nostrani boys scouts. Melfi si è dovuta contentare di questa marcia su Roma, anzi devo dire così l'ha vissuta e interpretata, con quel tanto di pessimismo - che è pure stimolante - che è nella natura delle genti del Sud.

Numerosi gli "emergenti" in un angolo del Sud
E questi sommari medaglioncini di ordine politico si fermano qui. Ma nell'ambiente vi sono anche altri soggetti, da ricordare come emergenti anche nell'attenzione e nella memoria di un adolescente.
Vi era il sottoprefetto: io ne ricordo due, uno divenuto poi prefetto di Perugia, e si chiamava Talarico, cui occorse di trovarsi in tale sede quando nell'hotel Brufani si era insediato con tanto di quadrunviri il quartier generale della marcia su Roma (e Montanelli ne sa più di me perché suo padre vi dirigeva, se non erro, una scuola media); ed un altro che si chiamava Viola, che denunciò mio padre per i suoi commenti con amici, lui compreso, in un circolo su Caporetto: non naturalmente disfattistici, ma di cosciente stimolo verso il Piave di poco dopo. Il sottoprefetto registrò di avere il vuoto intorno a sé; a me invece spettò di avere il figlio compagno di classe alla quarta elementare.
E c'era il vescovo: si chiamava Costa, come il Costa che tanti anni dopo ho avuto come Presidente della anche mia Confindustria. Aveva una solennità che non mi è stato dato di rilevare in altri prelati del suo rango. Una solennità che rilevavo di più quando usciva dal palazzo vescovile per la sua pomeridiana passeggiata accompagnato da un canonico. L'abito non era disimpegnato come quello odierno. Il baciamano suscitava l'emulazione dei tanti ragazzini, con una sorta di processione che ne derivava, espressione di una fede superiore forse a quella manifestabile nelle tante chiese del paese.
Era un vescovo abbonato a Civiltà Cattolica, che poi prestava a taluni cittadini da lui ritenuti colti, fra i quali rientrava anche mio padre, che a quarant'anni in quel paese era riuscito a divenire libero docente universitario in Diritto ecclesiastico. E si trattava di un paese nel quale era nato un altro mio zio che era divenuto libero docente universitario di Filosofia del diritto, con tanto di figlie che si chiamavano Sofia od Ofelia, ecc.
Questa nostra Italia meridionale agli albori del secolo è stata anche questa: senza strade, senza o con poca energia elettrica, senza biblioteche, con i conventi però nei quali si meditava ma pure si studiava e ci si preparava per insegnare, con una borghesia che anteponeva al reddito la cultura e la professionalità e così comunicava con il proletariato, in quanto non è stata in Lucania mai alta borghesia, ma solo media borghesia, senza latifondi, ma con campagne spezzettate e con decine di coltivatori per ogni decina di ettari, senza masserie, ma con proprietari che avevano studiato per divenire poi professionisti. Oggi gran parte di quelle terre sono divenute con la proprietà contadina proprietà di quanti allora le coltivavano.
Ma nel rifarmi al clero locale devo ricordare anche che a Melfi c'era allora un "prete" che oggi si definisce da marciapiede, come prima ho detto. Orbene, questo prete era figlio di un avvocato. Era bizzarro, vestiva a modo suo e spigliato ne era l'abito talare. Non esplicava per quanto se ne sapeva il suo ruolo ecclesiale. Si diceva che fosse un prete spretato o forse lo era; ma nessuno, se così era, gli aveva imposto di rinunciare all'abito. Era comunque allegro e non disdegnava le più scapigliate compagnie. Noi ragazzini non ne sapevamo di più, ma eravamo solo meravigliati del contrasto fra il suo abito talare e la sua presenza dove non doveva esserci. Egli sorrideva e rideva sempre, portando chissà quale bagaglio. Aveva a che fare con un padre avvocato valoroso, che gli anni avevano reso muto ed immobile. Padre e figlio restano nella mia memoria, senza purtroppo dirmi di più: oggi, dopo tanti anni.
Ricordo invece più vivamente un gioviale farmacista, che con la sua farmacia era divenuto complementare del vicino circolo sociale. Vi affluivano non per acquistare medicinali o per preparati confezionati dietro prescrizione (come erano belle allora le farmacie, con i loro mortai di ottone o con il loro esuberante vasellame!), ma per chiacchierare, più che sulle vicende locali, talvolta anche ghiotte, sulla politica sia nazionale che locale e addirittura su fatti di cultura, su libri che erano usciti o si sapeva sarebbero stati pubblicati. La cultura, pure quella modernissima, entrava a Melfi non già con le librerie, che non c'erano, ma con una farmacia, che era quella di Maulà. Era il tempo in cui Bergamini, come prima ho detto, aveva ideato per il suo Giornale d'Italia una rubrica dal titolo "Il Farmacista", che era redatta da un anziano giornalista che si chiamava Leopoldo Checchi. Ma il Giornale d'Italia allora era un grande quotidiano, che molti pure a Melfi anteponevano a Il Mattino, dominante dalla Campania in giù fino alla Calabria.
Accanto alla farmacia (l'altra esistente nel paese era rigidamente solo farmacia) c'era il tabaccaio, anch'egli singolare. Si chiamava Gabriele e posso aggiungere Montanarella (facendo ricorso, come al solito, solo alla mia memoria di 75 anni fa). Già da allora, da tabaccaio, aveva educato due suoi figli, uno a divenire comandante nella marina militare, non so se poi addirittura ammiraglio, e marito di una figlia di D'Annunzio (se non erro una Cruillas), e l'altro a divenire generale dell'esercito. Un bell'iter per tre persone, che si immaginava e si percorreva anche allora.
Ma oltre alla fotografia con dedica di D'Annunzio, di cui prima ho detto, nel paese contava la presenza della figlia del Vate che durante la guerra vi risiedeva. Se ne ammiravano la signorilità, il marcato tratto umano, la semplicità, tanto distanti dalla immaginifica e strabiliante, pure eroica, esistenza e pure esemplarità del padre. Di questi nel paese si conosceva più il nome che le imprese o le opere. A parte le élites, che anche a Melfi esistevano, il paese si limitava a chiedere "cosa si dice a Roma?" o a domandare a quanti a Roma risiedevano elementari favori in occasione di loro "passeggiate" verso questo o quel ministero. A quei tempi si domandavano solo gratuite ed amichevoli "passeggiate". Non si chiedevano o si offrivano tangenti. I reati erano ben altri ed avevano le loro Corti d'Assise, pure con un brigantaggio solo da pochi decenni lasciato alle spalle e con una magistratura i cui giovani virgulti molto spesso sono assurti ai vertici.
E' quanto, solo per darne personale conferma, è occorso a me, nipote di uno di questi magistrati ai vertici delle Cassazioni, che prima del fascismo erano sei. Quella di mio nonno era quella di Napoli, con mia madre nata a Lecce, vissuta a Trani, Roma, Parma, Napoli, e poi Melfi, e quindi nuovamente Roma: vita pur questa di un'emigrante, fortunatamente sempre in Italia e con il perenne suo timore di ogni sorta di disordine. La vita le aveva insegnato soprattutto questo nell'estrema comprensività del termine. La mia speranza è che buon sangue non mente.

Scenario che balza da una memoria fedele
Infine lo scenario, che in tutte le città e anche nei paesi ha sempre il suo centro storico. A Melfi però la storia arriva molto da lontano: con il suo castello normanno, con le tante leggende della sua vita millenaria che hanno avuto a che fare con un ponte levatoio, con prigioni sotterranee e micidiali, con stanze che intorno agli anni 10 di questo secolo hanno accolto prigionieri ufficiali austriaci, due dei quali sono fuggiti dalle finestre, come nei film postumi, con lenzuoli intrecciati, con il frontale rivolto al monte Vulture.
La sua storia, che le enciclopedie riassumono nelle gesta del normanno Guglielmo d'Altavilla, detto Fortebraccio (il giornalistico Fortebraccio, quello de L'Unità degli scorsi anni e comunque dei nostri tempi, ha a che fare con la mia terra), che sconfisse i bizantini in Puglia e costituì la contea di Melfi, detta anche contea di Puglia, ha lasciato poche tracce nell'ambiente, oltre appunto il castello, ed è stata anch'essa logorata dal tempo. Le sue tracce non rivivono infatti nelle vestigia, anche se dopo è sopravvenuto il grandioso Duomo, con la fastosa torre campanaria, con il soffitto in oro zecchino (almeno come si è detto a noi bambini). Qua e là si rintraccia qualche vetusto portale di case. Nella sede municipale è accolto un sarcofago romano dissepolto nel secolo scorso con le mitiche tanagre, di epoca ellenistica, provenienti da Tanagra, antica città greca della Beozia, che i nobili volevano sepolte accanto a loro nelle tombe. E poi il palazzo vescovile, solenne nella sua architettura, alla pari con le Diocesi storiche delle nostre città e pure sprofondato nel Sud appunto profondo, come si dice oggi, anche se da qualche anno Melfi è divenuta, dopo Torino, la seconda capitale della Fiat. E Fiat, senza il la, come si dice adesso, programma una Melfi bis in Argentina.
Tre o quattro palazzi più o meno d'epoca (ma per essi mi riferisco sempre al primo Ottocento) si alternano nel paese, una porta storica detta Venosina chiudeva l'antico abitato e ora invece lo apre verso nuovi quartieri con l'architettura che essendo moderna è purtroppo nella maggioranza solo più o meno monotonamente ripetitiva. Ma questo è un discorso ambizioso, e nel mio caso e in questa sede solo gratuito.
E poi la terra. Le tante terre. I tanti contadini. I sempre pochi esercizi commerciali. Gli artigiani dei mestieri nuovi e di quelli che cercano di sopravvivere avendo a che fare con apprendisti che non si trovano e comunque sono distratti da altre aspirazioni e spesso, purtroppo, da inutili attese. Ed ancora la superstite affannosa ricerca del posto fisso, oggi fortunatamente in parte dissolta da un'industrializzazione che è cominciata da queste parti e che dovrebbe vivere anche con un indotto, che invece mai nel passato le cosiddette cattedrali del deserto create o tentate nel Sud hanno saputo suscitare.
Grandi imprese e indotto, dunque, oltre che piccole e medie imprese. Quanto invece agli altri ricorrenti risvolti dell'odierna progettualità sul Mezzogiorno, oltre al potenziamento che qui molto spesso significa creazione delle infrastrutture, l'agricoltura e il turismo, per la prima bisogna dire che l'impiego delle risorse derivanti dalla nuova tecnologia trova nell'ambiente, nella natura stessa, spinte e limiti: bisogna saperli individuare e applicare.
In Italia, purtroppo, le politiche agricole devono essere tante, a fronte anche di una commercializzazione che dovrà, anch'essa, essere ridisegnata.
Quanto poi al turismo, se contano molto e sono necessarie le tante localizzazioni, è indispensabile definirne ed anche circoscriverne i possibili effetti perché il turismo sta acquistando dimensioni sempre più intercontinentali e i richiami abbisognano di contesti operativi ancora insufficienti in nostri tradizionali centri turistici. Quanto cammino perciò da percorrere in zone ancora possibilmente nascenti da queste mie parti. Mia nonna, ma tante allora come lei, faceva il pane in casa e lo mandava a cuocere una volta alla settimana ad un forno che un privato gestiva per il pubblico.
Ma il turismo d'oggi non è da immaginare come la panificazione fatta a casa. Per essere leva essenziale dello sviluppo del Sud, come anche oggi ogni parte politica assicura, può essere configurato come un complesso di tessere di un mosaico. Di un mosaico, però.
Pur con questi limiti e con questi grandi sforzi da compiere, questo scenario non è statico, si muove, deve nel recupero accelerare i tempi, evitare le pause di errate condotte di politica meridionalistica, stare ed ampliare la sua capacità di spinta dal basso, che è compito di viventi, e non tanto del susseguirsi di generazioni. Dai giovani dobbiamo infatti attenderci solo quanto abbiamo saputo dar loro in tema di formazione e di clima educativo e morale.
Se qualcuno sa della mia età da presente ingiustificato (per la mia altitudine anagrafica, come Montanelli definisce la sua, per me solo quantitativamente analoga alla sua), potrà giustificare o per lo meno comprendere il fondamento di esperienza (che non pretende naturalmente di elevarsi a saggezza) di queste mie sommarie considerazioni.

Il "giovane di studio" di una volta: anche adolescente.
Ma ritorniamo allo scenario di cui stiamo parlando. In esso entra anche l'adolescente dal quale sono discesi i tentativi di "medaglioncini" che fin qui si sono susseguiti.
Questo adolescente ha avuto la ventura di essere il "giovane di studio" di un padre avvocato, che evidentemente lo voleva accanto a sé per insegnargli l'interesse o l'abitudine ad un modo di vita e di lavoro più o meno affine e congeniale al suo. E perciò aveva fiducia in quell'adolescente e perfino l'utilizzava. Lo mandava all'ufficio postale a fare le raccomandate, con libretti che distinguevano la sua qualità di mittente quale avvocato erariale o delegato legale ferroviario. E questi erano incarichi che mio padre affiancava agli altri.
Ma l'importanza di cui mi ritenevo investito non mi attribuivo per le raccomandate che portavo, bensì per l'andare all'ufficio postale. Era una grande investitura, quella che doveva divenire ad età avanzata un'ossessione per le lunghe file davanti agli sportelli. Allora però mi chiamavano - avevo otto anni - "avvocaticchio". E del resto me lo meritavo, perché mio padre, fiducioso della mia calligrafia, mi faceva copiare su carta bollata molte sue comparse conclusionali, per le quali dovevo impegnare tutte le mie capacità calligrafiche, compresa quella di contenere il più possibile il numero delle parole nella limitata linea delle righe. Anche allora dovetti affrontare esigenze non tanto diverse da quelle successive tipografiche della mia professione di giornalista.

Non un trenino da gioco, ma un treno.
L'adolescenza della mia vita finisce qui. O meglio si avvia alla conclusione, che culmina nel mio esame di maturità classica e nell'ingresso alla Sapienza di Roma e cioè alla sua Università, ma che già nel 1922, da avanzato adolescente, ha a che fare con un treno.
Un treno che partiva da Melfi con tanto di binario unico e locomotiva a vapore ed era diretto a Roma, facendo la sua prima fermata a Foggia, occupata proprio allora dai fascisti che in parte si dirigevano a Roma per la loro marcia. Mi è capitato insieme a mio padre, ignaro, ma io curioso e perciò sveglio pure di notte, di fare così la mia marcia su Roma, con quelli che credevano di farla sul serio.
Tutta questa sembra una storia inventata. Una "fiction", come si direbbe adesso. Ma, come i testimoni dicono nelle aule giudiziarie e nelle indagini, è la pura verità. Anche se questa mia può interessare solo pochi lettori, se avrò la ventura di averli.
Del resto Missiroli diceva che nulla di più inedito vi è della carta stampata.


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