§ IL CORSIVO

IL SUD CHE C'E'




Aldo Bello



C'è una lettera scritta dal signor Mariano Porzio, napoletano, a un quotidiano di Napoli. E' questa: "La miseria è una brutta cosa. Voi che vivete nell'altra faccia di Napoli vivete in un mondo che non ha idea cosa significhi avere fame nel 1996. La nostra miseria è tremenda, ti prende per la gola, t'impedisce perfino di pensare, gli estranei non la concepiscono. Dio mio che cosa brutta è la fame! Ti giri intorno, ti vergogni di chiedere ad altri di essere aiutato, torni a casa in un vicolo dove gli abitanti non sono stati mai baciati dal sole, entri in un basso senza luce elettrica perché l'Enel con la bolletta di conguaglio non pagata ti ha tolto la corrente. Guardi tua moglie negli occhi che ti guardano imploranti e tu ti senti inutile perché i tuoi figli hanno fame. I giovani non sopportano la fame, non sono scugnizzi come quelli di Raffaele Viviani. La società dei consumi li martella giorno e notte. I giovani dei vicoli di Napoli non accettano come i loro genitori la dignità della sopravvivenza. Escono dai vicoli, scippano e rubano anche per fame. Nessuno vuole accettare questa realtà, dicono che scippano per comprarsi la droga. Noi diciamo anche per fame. Nei giorni scorsi ancora una volta si è parlato male della nostra Napoli. Un regista e la moglie attrice sono stati scippati da giovani predoni della strada. Chi sono questi scippatori? Perché scippano? Noi non vogliamo difendere questa gente, però vogliamo andare alle origini, vogliamo discutere le origini di questo fenomeno. Tutti disoccupati, vivono in famiglie che ogni giorno escono allo sbaraglio per sopravvivere. Esiste una miseria paurosa nel centro antico. Una miseria nera che viene da lontano, una miseria che si perde nella notte dei tempi. Una miseria che l'altra Napoli non accetta perché non fa comodo accettarla. Fate in modo che si creino nuovi posti di lavoro, ma vero lavoro, altrimenti gli scugnizzi, non quelli di Viviani, usciranno sempre come predoni per scippare ad altri quello che non hanno mai avuto".
Ora, provate a sostituire i "vicoli di Napoli" con "Sud", l'"altra faccia di Napoli" con "Nord", e i "predatori" con "mafiosi", e avrete una perfetta proiezione paradigmatica della situazione del Paese che c'è: con un Sud stalattitizzato nella sua miseria disperata, con un Nord predicatore di disgustose profezie di secessione, con un cartello del crimine che in parte è alimentato, perché "datore di lavoro", dagli orizzonti di fame degli esclusi. C'è, in questo Sud, una sincerità dolente che soltanto le ciniche cariatidi del moralismo italiota può respingere. E c'è un'intelligenza nello stesso tempo critica e autocritica che può infastidire soltanto l'ottusità mentale di politici ed economisti, il che può anche mettersi nel conto; ma anche di gattopardi annidati nei potentati del giornalismo strapaesano, dai pervicaci millantatori di esclusive amicizie planetarie e inaffidabili citatori di grandi testimoni della cronaca e della storia, (amici e testimoni regolarmente e persino da gran tempo passati a miglior vita: dunque non convocabili per conferme o smentite); ai lobotomizzati parziali per i quali, sebbene siamo alle soglie del terzo millennio, i valori della politica e della cultura sono sempre fermi alla prospettiva visionaria dell'azionismo, citato a proposito e a sproposito. E sebbene gli uni e gli altri abbiano agevolmente - e tempestivamente - navigato tutti i mari, sotto qualunque bandiera ottenendo benefici e prebende, tuttavia continuano a pontificare, ritenendosi "coscienza del Paese". Di quale Paese? Per quale Paese? O contro quale Paese? Certamente, scrisse Spinoza, l'esistenza umana sarebbe molto più felice se negli uomini la capacità di tacere fosse pari a quella di parlare, ma l'esperienza insegna fin troppo bene che gli uomini non governano nulla con maggior difficoltà che la lingua. Sarà per questo che costoro parlano, e scrivono, di un Paese che non c'è.
C'è voluto il signor Porzio, con la sua lettera, a riportarmi dentro il Paese che c'è. C'è voluto lui, napoletano e meridionale, uomo dei vicoli e dei bassi, protagonista assoluto e solitario del mestiere di vivere, a farmi risentire le sensazioni dolorose, gli spasmi e le vertigini provocate dai morsi della fame descritti da quel geniale scrittore che fu Knut Hamsum, lo scandinavo che intitolò uno dei suoi romanziverità più celebri solo e drammaticamente Fame: una fame divorante, dispotica e caina, che si specchiava nelle sue stesse occhiaie; mentre quella di Porzio è una fame corale, di gruppo e di popolo, che può riflettersi soltanto nell'"altra faccia", opulenta e cialtrona, che ignora la "vergogna" di chiedere aiuto, insieme con la dignità e l'orgoglio di chi, oltre che disperato, è disarmato di fronte a una società proterva e discriminatrice.
Nel Paese che c'è, il Sud occupa una posizione strategica invidiabile: al centro tra l'Est e l'Ovest dello scacchiere geo-politico; al centro tra il Nord e il Sud dello scacchiere geo-sociale. Le sue coste e molti suoi "interni" sono tra i più preziosi del mondo. Il suo patrimonio di civiltà, di cultura e d'arte è un unicum, un complesso di ricchezza ineguagliabile. Una qualsiasi classe dirigente locale e nazionale, dotata di onestà intellettuale e di capacità politica anche minime, sarebbe riuscita a farne un paradiso. Se invece si eccettua qualche area privilegiata, e comunque al di sotto delle sue stesse potenzialità, tutto il resto è allo sfascio: paesi dall'edilizia squinternata; campagne abbandonate e incolte; coste scempiate; burocrazie sudaticce e tronfie come nel Terzo mondo; inaugurazioni che prevalgono sulle manutenzioni. E tutto questo chiama in causa molti, nel Sud e altrove. Ma c'è di più. C'è un fenomeno del quale i mostri sacri del moralismo a buon mercato e a gran reddito preferiscono non parlare né scrivere. Fino a qualche tempo fa, il tasso di disoccupazione rappresentava l'indicatore più attendibile del degrado meridionale: non per niente esso restava direttamente proporzionale agli indici regionali di criminalità, e insieme con questi allargava, e approfondiva, la condizione di disagio delle genti meridionali. D'altra parte, perché mai doveva esserci tranquillità proprio nel Sud, dove crescevano le masse di inoccupati, dove i giovani si parcheggiavano nelle università, dove le donne erano lasciate ai margini del mercato del lavoro, e tutti quanti - inoccupati, giovani, donne -finivano col trovarsi di fronte all'alternativa tra la fame e il lavoro nero, o tra il lavoro nero e la contiguità mafiosa?
Dunque, per tutti parlavano le cifre assolute e i dati statistici: un quarto dei meridionali non lavorava, un giovane su tre non lavorava, novanta donne su cento erano fuori mercato, e via dicendo.
Oggi, l'intero sistema di rilevazione è saltato, per il semplice fatto che tremila giovani meridionali al giorno non si iscrivono più nelle liste di collocamento, considerate l'ennesima beffa di una politica e di una burocrazia illusorie. E' una "desistenza" come prologo a un lungo addio? Niente paura. Ad illuminarci su questa imprevista condizione è un ineffabile opinionista che scrive su un quotidiano milanese pagato dallo Stato, cioè da tutti i cittadini, sudisti compresi. Costui, dopo una filippica contro le "cifrette sadomaso" e le "statistiche in costumino similpelle", considerate "fetenti come cattivi pensieri", incurante del ridicolo, spreme dalle sue meningi questa prosa: "C'è il lavoro nero, per cominciare, che probabilmente lenisce, come ovunque nel pianeta, e non solo nell'Italia infelice, il decubito da disoccupazione, che altrimenti ci avrebbe già stramazzati da un pezzo. Quanto agl'italiani che, stanchi d'invocare la Buona Fatina dei programmi politici miracolosi, hanno deciso di farsi da parte e di non cercarlo neanche più, il maledetto e latitante lavoro, mica è detto che abbiano stabilito di lasciarsi morire d'inedia o di vivere d'aria, come fachiri. Può essere persino che siano felici lo stesso. Forse sono tornati a scuola dopo averla abbandonata. Forse lavorano al proprio domicilio come casalinghe e casalinghi. E insomma, Dio lo voglia, sono diventati in qualche modo invisibili alle statistiche, come i fuorilegge dei romanzi cyberpunk. Quest'ultima possibilità è di quelle che fanno venire i sudori freddi e gli occhi storti agli alchimisti delle cifre, educati a contabilizzare il mondo, a contemplarlo solo attraverso il binocolo balordo e strabico d'un pallottoliere. Nel mondo vero, fatto di donne e d'uomini di carne e ossa, si sa come vanno le cose e ci si adegua, sia che si tratti di lavoro nero che di ritirate strategiche dal mondo del lavoro, pronti a ritentare il colpo un'altra volta, meglio attrezzati per la guerra. Ma nel mondo dei numeri, dove tutto è astrazione e avidità di controllo, ci si lascia prendere dal panico non appena qualcosa, anche solo uno zero virgola, esce dal radar e si dilegua nell'iperspazio della realtà, dove le tragedie dei numeri sono gli sbadigli dei viventi".
Questo, il pensiero sotto vuoto spinto dell'opinionista di cui sopra, disturbato dalle "cifrette" che in qualche modo devono procurargli un qualche rimorso, e comunque gli fanno perdere la pazienza, o quanto meno gli procurano una (para) noia (a lui, che si considera nientemeno che tra i "viventi") e sbadigli a tutto spiano. E infondo, che saranno mai centinaia di migliaia di signori Porzio del Sud, a confronto di qualche centinaio di signori Marcolin, o Brambilla, o Courgné, o Govi, che nell'"altra faccia" del Paese che c'è non hanno valenza statistica? Per gli studiosi rappresenterebbero il quattro per cento; per certi commentatori sono meno che uno "zero virgola". Nulla. Un'invisibilità che tranquillizza, nel pianeta dei padroni, padroncini e lavoratori occupati e garantiti che non devono riporre la fiducia né la speranza, che non devono "desistere", perché in casa non vivono l'inferno riflesso negli occhi dei figli e non conoscono la fame. Loro non sono sanguisughe, perché i conti li hanno sempre saputi fare bene. In dialetto, ma precisi. In italiano sono abituati a farli quando si danno ai rastrellamenti. E in inglese quando i "dané" sono verdoni. Ma dite un po' voi: perché mai investire nelle terre del Porzio, dove il costo della manodopera, appena fuori dalla gabbia salariale, è di 24 dollari l'ora, contro i 7 dollari di Singapore e di Hong Kong, il dollaro e mezzo della Malaysia e dell'Indonesia, e i 70-90 cents della Cina, del Laos, della Cambogia, della Birmania e della Corea del Nord? Ma c'è la fame, obietterete. Cosa loro. Come l'economia sommersa, il "sistema in nero", l'assistenzialismo, il posto pubblico, le raccomandazioni e la mafia: cose di casa loro.
Prendiamo la mafia. Quasi fosse ormai un fantasma, solo uno sfregio, un minuscolo strappo che deturpa il trionfante affresco italiano del nuovo che avanza, la mafia sembra essere uscita dalla scena delle grandi questioni nazionali. Ora che la cupola è in carcere, e i poteri malavitosi in buona parte sgominati e ridotti dentro il cerchio di una criminalità di territorio e di quartiere, c'è chi crede e sostiene che, finita l'epoca delle emergenze, sia opportuno ripiegare le pagine della cronaca e i proclami della storia, ammainare le bandiere della lotta e della resistenza, e, infine, rapportarsi e ricapitolare il cartello del crimine in una complessa "vicenda meridionale tutta da raccontare".
Non è vero. La mafia (e meglio: le mafie) continua ad essere la più pericolosa minaccia contro tutti i movimenti civili che si battono per un risorgimento del Sud e per la profonda riforma della vita morale del Paese. Per chi 'crede che la mafia (le mafie) altro non sia che il fantasma di questa democrazia, oppure una mera suggestione ideologica, racconterò una storia breve: niente di letterario, solo un nudo e crudo apologo che ritaglia scorci di quella che si potrebbe definire la tragica dittatura psicologica e materiale, il regime di terrore e di sudditanza che ha sospeso per troppo tempo la cittadinanza e la stessa libertà di tanta parte del Sud.
Calabria. Pasqua di alcuni anni fa. Come nelle tradizioni, il giovane parroco di un piccolo centro dell'Aspromonte si mette in cammino e attraversa gli usci di ricchi e poveri, di umili e potenti, per portare il conforto della benedizione rituale. Tra le altre, entra nell'abitazione spoglia di una donna che le vicende della vita sembravano avere invecchiato precocemente. Accanto alla porta c'è un ragazzo di dieci o dodici anni.
E' una vedova, rinchiusa nel lutto, prigioniera di un doloroso quanto inesplicabile silenzio. Suo marito è scomparso da poco, ucciso dalla mafia. Costei ascolta le parole del parroco, restandone distante, quasi marcando un'assenza. Poi, come rapita da un'altra memoria, da un altro tempo, conduce il prete in un angolo della casa, dove campeggia l'armadio delle nozze e della dote. Da quel mobile toglie un abito pulito, ben conservato, e dice al parroco che con quello addosso suo marito era morto. "Ecco - dice al prete - aspetto che mio figlio compia diciotto anni, quando potrà indossare questa giacca, questa camicia, questi calzoni, ed entrare nel volto, nella carne, nei pensieri di chi aspetta giustizia, per togliere agli altri quello che è stato tolto a noi".
Questa non è un'illusione, è realtà sociale e culturale vera, ancora più complessa della storia che aspettiamo sia ricostruita nelle aule dei tribunali.
Le mafie continuano ad agire dentro la vita quotidiana del Sud (solo qui?). Oltre e al di là della dimensione militare delle cosche, del monopolio illegittimo della violenza criminale, la permanenza di questo sovrapotere distorce ogni regola, incrina la legalità, annulla la trasparenza, condiziona la qualità della vita, devia persino gli adolescenti, e impedisce il decollo di un'economia libera e aperta.
Certo, si sono vinte importanti battaglie. Ma la guerra deve considerarsi in atto, perché l'esito della partita è tutt'altro che scontato. Non si può tollerare alcuna caduta di tensione, e meno che mai la strana quanto inquietante sospensione dei discorsi intorno alle mafie. I cartelli del crimine, queste incombenti minacce alla sicurezza sociale e personale dei cittadini, restano ancora strutture pericolose, nemici visibili e invisibili che. insidiano libertà e sviluppo del Sud.
Anche su questo terreno l'etica della responsabilità, come espressione di una nuova coscienza civile, e lo spirito delle mafie, come pratica e linguaggio della vecchia politica, non possono trovare alcun punto d'equilibrio. Sono e devono restare due dimensioni inconciliabili. Non fosse altro perché l'etica della responsabilità libera il cittadino, mentre lo spirito della mafia lo schiavizza e lo respinge nel circolo mortale della rassegnazione: negando, oltre al diritto e alla verità, anche il desiderio e il bisogno collettivo di un diverso e migliore futuro.


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