§ L'AUTORE E IL SUO LINGUAGGIO

L'IMMAGINE FOTOGRAFICA (V)




Franco Barbieri



Per continuare la riflessione intorno all'immagine fotografica - quale immagine materiale - è opportuno soffermarsi sul meccanismo della sua formazione e sulla sua origine.
E' luogo comune considerare la nascita della fotografia - rivoluzione delle immagini, espressione giovane, del nostro tempo - ufficialmente datata nell'anno 1839 quando, a Daguerre, fu riconosciuta la paternità del procedimento di riproduzione dell'immagine da parte dell'Assemblea Nazionale dei Deputati francesi.
Ma come accade per tutto ciò che viene alla luce, la gestazione fu lunga, molto lunga.
Occorre seguire due diversi itinerari: il primo riguarda la costruzione di un apparecchio capace di ricevere la luce e di riprodurla su di uno schermo; il secondo la realizzazione della permanenza dell'immagine, formata con l'apparecchio di cui sopra, su di un supporto adatto mediante processi fotochimici di riproduzione.
Vediamoli, succintamente, negli avvenimenti.
Le origini, conosciute e documentate, risalgono ad Aristotele (IV secolo a.C.) che nei Problemata descrisse, derivandola dall'esperienza e dai pensieri di Platone, la camera, chiamata poi obscura, anche se un paio di secoli prima il "solito cinese" di nome Motzu sembra avesse già le medesime nozioni.
E' bene ricordare che la camera oscura rende possibile il fenomeno della proiezione invertita, su di un piano verticale, dei raggi luminosi passanti per un piccolo foro ricavato nel setto divisorio tra un luogo buio e l'esterno ad esso.
L'arabo Ibn al Haitan (965-1038), l'inglese Ruggero Bacone (1214-1294), l'ebreo Levi ben Gershon (1288-1344), ebbero conoscenza del fenomeno che veniva utilizzato per poter seguire più comodamente le eclissi di sole, come apprendiamo dall'Almanacco di Guglielmo di Saint Cloud del 1290.
Ma è con Leonardo da Vinci che la descrizione della camera oscura diviene veramente precisa e completa, sia per la viva curiosità umana e scientifica di Leonardo, che si ritrova nella modernissima metodologia adottata, sia perché la camera venne rivolta verso le cose della terra e non solo verso il sole.
Nel 1521 Cesare Cesarione nei Commenti a Vitruvio descrisse similmente la camera attribuendone la scoperta ad un certo Pafnunzio, monaco benedettino.
Il primo studio, noto da un punto di vista matematico, del passaggio dei raggi luminosi attraverso piccole aperture, risale a Francesco Maurolico, di Messina, studio condotto nel 1521 e pubblicato a Napoli nel 1611.
Nel 1558 il napoletano G.B. Della Porta illustrò nei suoi Magiae naturalis libri la camera oscura senza lenti e l'anno successivo quella con la presenza di lenti applicate al foro di passaggio dei raggi luminosi.
Infatti nel 1550 Girolamo Cardano aveva inventato la lente ottica, stimolato dall'esigenza di aiutare coloro i quali avevano difetti della vista; il nome, data la forma biconvessa, ricordava l'umile, ma preziosa, lenticchia che era all'epoca ingrediente comune di ogni minestra.
Il veneziano Daniello Barbaro nella sua Pratica della Prospectiva del 1568, nel descrivere la camera oscura con lente piano-convessa, introdusse un altro nuovo importante elemento, il diaframma, con il quale si rendeva possibile modulare, variando il diametro del foro, l'ingresso della luce.
I miglioramenti successivi nel secolo XVII, riguardo alle lenti e alla conformazione e grandezza della camera oscura, portano nomi non più italiani ma tedeschi (Kircher, Schott, Sturm), inglesi (Boyle), austriaci (Kepler). Zahn, monaco tedesco, perfezionò un apparecchio che, con marchingegni telescopici e specchi, somigliava ad una mastodontica macchina fotografica per come la conosciamo.
Nel '700 la camera oscura svolse il proprio compito egregiamente tant'è che il Guardi ed il Canaletto la usarono per le proprie vedute e non solo di Venezia.
L'apparecchio consentiva di riprodurre l'immagine che, però, doveva essere "registrata" ancora dalla mano dell'uomo: l'immagine non era permanente.
Anche se le prime nozioni dell'azione fotochimica della luce provengono dal sempre citato Aristotele, ed altre notizie si rintracciano in alcuni scritti attribuiti all'alchimista arabo Gebel e, un millennio dopo, a metà del 1500, nelle osservazioni di Giorgio Fabricius, si deve a J.H. Schultze, nel 1727, lo studio dell'azione della luce sui sali d'argento, studio continuato, poi, nel 1763 da W. Lewis, nel 1777 da C.W. Scheele e, nel 1801, da J.W. Ritter.
Thomas Wedgewood ottenne nel 1802, anno della sua morte, delle immagini non stabili e H. Davy, ripetendo le esperienze di Schultze, riuscì a riprodurre delle immagini senza, però, fissarle permanentemente.
Le prime immagini durevoli, tra il 1816 ed il 1822, stabili e visibili di giorno, furono ottenute dai fratelli Claude e Nicéphore Niepce che nel 1826 le realizzarono, con successo tramite la camera oscura con pose che duravano da 6 ad 8 ore.
Nicéphore Niepce proveniva da una agiata famiglia della Borgogna ed era un geniale ricercatore di provincia; inventò, tra l'altro, insieme al fratello Claude, il pireoloforo, "macchina il cui principio motore è l'aria dilatata dal fuoco" da applicarsi sui battelli, estrasse la tintura di indaco dalle foglie di "guado" giacché a causa del blocco continentale ne era vietata l'importazione in Francia, costruì la "draisina" progenitrice della bicicletta... ma non sapeva disegnare, per la qual cosa cercava di "scoprire nelle emanazioni del fluido luminoso un agente capace di impressionare, in maniera esatta e durevole, le immagini trasmesse dal procedimento dell'ottica ed il modo come ottenere un'impronta che non si alteri rapidamente".
Si cimentò, ripetutamente, intorno al 1823 di riprendere, dalla camera abitata dal fratello, alcune immagini, che chiamava "points de vue", con lunghissime pose tramite la camera oscura.
In una lettera - custodita dall'Accademia delle Scienze di Mosca - che nel settembre 1824 Nicéphore manda a Claude, il primo invita il fratello a "non rifiutare gli onori ed il beneficio finanziario che possono derivare da tutto questo" e cioè dalla "prima idea di questa invenzione alla quale abbiamo collaborato a Cagliari".
R. Campanelli nel Giornale della Fotografia del dicembre 1989 - edito dal Centro Culturale dell'Immagine "Il Fotogramma" di Roma -, in occasione dei 150 anni della fotografia, identifica l'invenzione, riportata nella suddetta lettera, con quella della fotografia che, quindi, viene fatta risalire al 1797 in quel di Cagliari quando Nicéphore si trovava in Sardegna -Regno Sabaudo - con la moglie A. Romero, nizzarda, che ivi diede alla luce un figlio.
Quanto sopra consentirebbe di affermare che la fotografia ha visto i propri natali in territorio italiano!
Louis Jacques Mandè Daguerre (1787-1851) aveva sin dai primi degli anni venti cercato il modo di riprodurre le immagini prese con la camera oscura. Venne a conoscenza degli studi ed esperimenti di Niepce, che, dissipato il suo piccolo patrimonio nelle ricerche, attraversava una difficile situazione finanziaria. Messosi con lui in contatto, nel dicembre del 1829, si accordò per formare la Società "Niepce-Daguerre", nella quale Niepce portava "la sua invenzione" e Daguerre "un nuovo adattamento della camera oscura, il suo talento, la sua operosità".
Alla morte di Niepce non erano stati ancora raggiunti significativi risultati, ma due anni dopo, il 27 settembre 1835, il Journal des Artistes poteva annunziare che Daguerre aveva ottenuto la formazione di immagini permanenti.
Ma solo nel 1837 il procedimento era definito ed utilizzabile. Nel frattempo, si era modificato l'accordo con Isidore Niepce, figlio di Nicéphore, e, a causa di esso, Niepce perdeva il nome nella Società pur rimanendo interessato alla propria parte dei proventi economici. Fu questo il motivo per cui il "processo" venne chiamato "Daguerre".
Daguerre tentò, per motivi finanziari, di allargare la società ma non gli riuscì. Si rivolse, allora, a D.F. Arago, autorevole scienziato ed uomo politico, che presentò il 7 gennaio 1839 all'Accademie des Sciences una relazione sulla realizzazione di Daguerre ed il 30 luglio l'Assemblea francese, grazie al favorevole rapporto del grande scienziato Joseph Louis Gay Lussac, accordava a Daguerre una pensione annua di 6.000 franchi e a Isidore Niepce di 4.000.
Il 19 agosto 1839, Arago presentò ed illustrò all'Accademie des Sciences ed all'Accademie des Beaux Artes il procedimento tecnico in tutti i suoi particolari prevedendone la futura importanza per la civiltà ed offrendo l'uso libero a tutti.
Così avvenne la nascita ufficiale e trionfale della riproduzione permanente dell'immagine.
Ma la fotografia, come noi oggi la conosciamo, seguì una storia parallela e contemporanea, una storia che fu sommersa dalla grandiosa, e tutta francese, abilità di Arago. Si deve a William Henry Fox Talbot la tecnica del procedimento del negativo e del positivo a base della riproduzione fotografica. Il procedimento fu esposto dallo stesso Talbot e da Michael Faraday, il 31 gennaio del 1839, alla Royal Society e pubblicato il 21 febbraio con il titolo Some Account of the Art of Photogenic Drawings; or, the Process by which Natural Objects may be made to Delineate themselves without the Aid of the Artists Pencil (Qualche cosa sull'arte dei disegni fotogenici o, il processo per cui gli oggetti possono autodelinearsi senza l'aiuto della matita dell'artista), opera che colpì l'attenzione e l'interesse dell'astronomo Sir John Herschel e lo indusse a scrivergli il 28 dello stesso mese usando, per la prima volta, la parola "fotografia" (disegno con la luce oppure la luce che disegna) e i termini "negativo" (matrice ad immagine invertita) e "positivo" (immagine finale).
Il Talbot, che brevettò nel 1841 il processo trovato Calotype, era nel giusto, come si è verificato dopo nei successivi sviluppi (in particolare quelli dovuti a George Eastman che introdusse macchina e pellicole proprie), ma era e fu un isolato tant'è che la sua invenzione poco penetrò nei successivi 40 anni.
L'influenza, invece, di Daguerre e del suo processo fu subito molto diffusa, pur se di breve durata, soprattutto per aver rimesso il risultato delle proprie (e di Niepce) ricerche nelle mani di un abile politico, quale era Arago, in un paese, la Francia, che, come lo stesso Arago sostenne di fronte ai membri dell'Accademie des Sciences e di quella des Beaux Artes, "ha adottato questa scoperta e fin dall'inizio ha mostrato che era per Lei un motivo d'orgoglio il poterla donare a tutto il mondo"; Daguerre, intanto, pochi giorni prima ne aveva depositato il brevetto in Inghilterra. Così andava, e va, il mondo! Si confrontavano due storie individuali e due culture diverse.
Daguerre era un paesaggista di un certo valore ed un abile impresario che nel 1822 aveva allestito il "Diorama", un locale in cui si rappresentava una veduta panoramica con mutevoli giochi di luce e scenografie che si fondevano insieme in uno spettacolo realistico e pieno di colore, accolto con grande entusiasmo a Parigi come una magnifica attrazione.
Occorre riconoscere la migliore e definita immagine che risultava dal processo di Daguerre, soprattutto nei miglioramenti dovuti dal matematico viennese Joseph Petzval che riuscì a ridurre il tempo di esposizione da 15 minuti a 15 secondi attraverso l'uso di obiettivi - detti "del sistema tedesco" - che riuscivano a dare l'immagine non più speculare. Ciò consentì ad Alexander Walcott di poter aprire, nel marzo del 1842, il primo studio al mondo per ritratti.
Possedere la propria immagine, riprodotta e perpetuabile nel tempo, rispondeva ad una antica e profonda aspirazione di tutti gli uomini e di tutte le donne, ora soddisfatta dalla democratica invenzione che dava la possibilità, non più solo a qualcuno, di poter essere ritratti.
La ricerca iniziata nel Rinascimento aveva, alfine, trovato gli artifizi tecnici e gli strumenti che consentivano di essere ritratti in tempi brevi e con limitata spesa.
Anche gli artisti consideravano questa invenzione come un nuovo strumento per un modo più facile di lavorare e di guadagnare.
La diffusione fu enorme tanto che nel 1849 si producevano più di 100.000 dagherrotipi, dei quali buona parte consistevano in "cartoline francesi", cioè in immagini pornografiche.
Il piccolo e preciso dagherrotipo era, come lo definì Oliver W. Holmes, "uno specchio dotato di memoria", con un fascino caratteristico accresciuto dalle elaborate scatole e cornici nelle quali era contenuto.
Dai prodotti arrivati sino a noi, non appare l'emozione dell'immagine ma, generalmente, la descrizione di volti tesi ed affaticati nella posa, di corpi sostenuti e tenuti da tremendi strumenti immobilizzanti o di scene naturali e metropolitane immote e cristallizzate giacché i passanti non lasciavano la propria impronta sulla lastra.
Daguerre tornò al pennello, abbandonando la fotografia, e si ritirò nel villaggio di Bay sur Marne ove morì nel 1851, senza avere fatto molto altro in favore del suo procedimento che veniva sempre più abbandonato, ma avendo determinato un formidabile lancio della nuova espressione visiva.
Talbot, educato a Cambridge, aveva una intelligenza acuta, ma pratica, era preciso e versatile, con interessi che spaziavano dalla botanica all'archeologia, dalla matematica all'astronomia, dalla chimica alla fisica, eppure, il libro in cui narrava la storia del suo lavoro, illustrato da un gran numero di calotipie, aveva un titolo suggestivo e poetico: Pencil of Nature, la matita della natura.
Nell'estate del 1833, durante un suo viaggio in Italia, essendo uno scadente disegnatore, aveva portato con sé, in ausilio, una camera oscura - piccolo strumento ottico costituito da una scatola provvista di foro con lente e di uno specchio a 45 gradi che rimandava i raggi all'insù su di un vetro smerigliato - con la quale tentò di fissare le immagini, così prodotte, con la matita su di un foglio di carta. Questa esperienza lo indusse ad esprimere alcune considerazioni: "... inimitabile bellezza delle immagini dipinte dalla Natura ... immagini fatate, creazione di un attimo destinate a svanire altrettanto velocemente... come sarebbe affascinante poter fare in modo che queste immagini naturali si imprimessero durevolmente e rimanessero fissate sulla carta! ... l'immagine spogliata dai significati che l'accompagnano e considerata nella sua natura finale, altro non è che la successione di punti di luce e di ombre. La luce, in determinate condizioni, è sufficiente a causare dei mutamenti della materia... la variegata scena di luci ed ombre potrebbe lasciare la sua immagine, la sua impressione... In quel periodo vagabondavo nei luoghi classici dell'Italia e logicamente non mi trovavo nelle condizioni di dare avvio ad una ricerca impegnativa,...ma presi accuratamente nota (dell'idea) e descrissi anche gli esperimenti che avrebbero consentito di realizzarla".
Molto, troppo, attento a difendere il suo procedimento fotografico, di fatto ne limitò l'uso e la conoscenza, ma fu anche colui che lo applicò con molto rigore sperimentale delineandone, da vero fotografo, molti degli sviluppi successivi.
Si deve allo scozzese David Octavius Hill e a Robert Adamson, e subito dopo a Bianquart Everad, se gli sviluppi del nuovo mezzo danno rilievo al lavoro di Talbot dimostrando l'insita capacità e le possibilità future.
Merita un cenno, confermando anche oggi di essere stato il meno favorito dalla sorte, Hippolyte Bayard, funzionario del ministero delle Finanze. Egli, dopo aver realizzato dei negativi su carta da lui chiamati "disegni fotogenici", li presentò nel febbraio del 1839 al fisico Despretz ma poi, conosciuta che ebbe la notizia dell'invenzione dei dagherrotipi, alla fine del mese successivo realizzò dei positivi su carta che presentò ad Arago che, troppo preso a caldeggiare il procedimento di Daguerre, non lo incoraggiò a proseguire. Ottenne nel giugno del 1839 dal ministero dell'Interno 600 franchi per acquistare un obiettivo ed una camera oscura e, nel marzo del 1840, l'Accademia delle Belle Arti proclamò la superiorità artistica dell'immagine su carta e lo raccomandò "all'attenzione e alla generosità del governo".
Con Eastman il procedimento fotografico esce dalla fanciullezza. Egli aveva coniato lo slogan "Voi premete un bottone, il resto lo facciamo noi" in quanto ciò era reso possibile dalla macchina e dalle pellicole Kodak. Ma, a questo punto, inizia un'altra storia.


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