§ Stupor Mundi

L'Imperatore e il suo suddito (II)




Bruno Di Paola



L'imperatore e il suo suddito è un insieme di episodi della vita di Federico II di Svevia e di Giovanni da Procida, scritti da loro medesimi. Questa seconda parte è costituita dal racconto delle prime imprese compiute da Federico per la conquista dell'Impero.


2 - Da Puer Apuliae a Imperatore
Riuscirai tu, mia mente, a ricordare con serena calma quei tumultuosi avvenimenti? Riuscirai tu, mia mano, ad essere ferma nell'annotare su questa vuota pergamena i gloriosi giorni che visse Federico quando conquistò l'Impero? Sarai capace tu, mio stanco cuore, di animare questo scritto con le emozioni che provo ancora nel rammentare le sue gesta?
Sul finire ormai della mia vita terrena, quando anche il secolo volge al termine, ho seguito qui a Roma Costanza, figlia di Manfredi e regina di Aragona e di Sicilia, che servo ancora con la fierezza di un paggio. Non più il Giovanni da Procida suddito e medico dell'Imperatore; non più ombra di Manfredi nella sua caduca splendida potenza; non più aiuto e sprone a Corradino, biondo e bello, nell'irraggiungibile sogno di emulare il suo antenato; non più, infine, cancelliere del Regno di Aragona e vendicatore di Federico e della sua stirpe.
Vita avventurosa la mia: non caddi con Manfredi a Benevento, e lo vidi stramazzare dopo aver combattuto fianco a fianco contro l'usurpatore angioino; non salii sul patibolo con Corradino, così fragile dopo la sconfitta sulle rive del Salto a Tagliacozzo, da cui entrambi riuscimmo a sfuggire per miracolo davanti alle orde scatenate dei francesi.
Vinto ormai dalla pena e dal dolore sperai che mi fosse riservata dal destino la fine dell'uno o dell'altro, ma se questo fosse avvenuto, e Federico sapeva che non sarebbe avvenuto, non avrei potuto attuare il suo disegno ed ora la discendenza degli Svevi non regnerebbe nuovamente sulla Sicilia, su quella terra da cui Federico partì, ottantacinque anni or sono, per raggiungere la Germania, lì dove sono coronati gli imperatori.
Re di un trono traballante, a diciassette anni non era ancora il potente sovrano conosciuto nelle terre più lontane. Era il Puer Apuliae, come lo chiamavano con ironia i suoi nemici, il ragazzo di quel regno del meridione che un tempo era stato così potente sotto i Normanni.
Ora tornava utile al papa Innocenzo, il quale, non tollerando che Ottone lo contrastasse nelle sue mire terrene, appoggiò Federico, supponendolo debole e dominabile, nella conquista dell'Impero.
Federico amava ricordare quelle sue imprese, che chiamava "i giorni di Costanza", perché a Costanza accadde uno straordinario episodio, perché a Costanza nacque la leggenda dell'Imperatore fanciullo che presto si diffuse per tutta la Germania.
Così prodigiosa fu la resa della Città del lago, conquistata senza combattimenti, che tutti ritennero Federico un predestinato e i borghi e le armate si mettevano al suo servizio spontaneamente. Per cui, in breve tempo, unanimemente, quel giovane signore, generoso, forte e leale, fu incoronato Imperatore.
Nel manoscritto che mi consegnò a Castel Fiorentino quelle vicende sono rievocate con parole accese e toni espressivi. Le ho lette tante volte che mi sembra di essere stato anche io insieme a lui, quando con pochi armati lasciò la Sicilia. Era il quindici marzo del 1212.
Partii da Messina con meno di 400 armati. Con me Andrea da Bari, Parisio da Palermo, Gentile da Manopello, e Berardo da Castacca, arcivescovo di Bari, legato del papa, ma soprattutto amico e confidente. Le navi lasciavano lentamente gli ormeggi, mentre in lontananza le rive calabre rilucevano nel caldo sole primaverile. Voli di gabbiani salutavano con alte grida le nostre vele. Dalla prua guardavo verso nord, il nord che mi attirava e mi spaventava insieme, il nord tanto favoleggiato nelle notti insonni della mia giovinezza. Là mi attendevano gli spiriti dei miei avi, la gloria e la fama. Avrei trovato invece la sconfitta?
Mi rendevo conto ora che mi ero buttato in quella avventura forte solo dei miei sogni e delle mie ambizioni, fidandomi troppo delle promesse del papa Innocenzo.
Egli aveva coronato imperatore, tre anni prima, Ottone di Brunswick, ma adesso che la discordia regnava tra i due faceva affidamento su di me per deporlo. Anche Innocenzo era infatti interessato alle cose terrene, ad estendere il proprio dominio su uomini, città e castelli, contrariamente a quanto asseriva nelle sue prediche. "I mortali corrono e vagano attraversando recinti e percorrendo sentieri, salgono monti, valicano colli, scavalcano dirupi, superano montagne, penetrano nelle caverne, frugano le viscere della terra, i mari abissali, i fiumi pericolosi, le foreste oscure, i deserti inaccessibili, si mettono in balia dei venti e delle piogge, dei tuoni e dei fulmini, dei marosi e delle tempeste. Riflettono e pensano, deliberano e comandano, si lamentano e litigano, saccheggiano e rubano, ingannano e mercanteggiano, bisticciano e guerreggiano, e fanno innumerevoli altre cose per ammassare ricchezze, per moltiplicare i profitti, per conseguire guadagni, per acquisire onori, per ostentare titoli onorifici, per estendere il loro dominio. Tutto ciò non è che pena e affanno della mente" - diceva Innocenzo - invitando a disprezzare le cose del mondo.
La sua ambigua condotta aveva pertanto accresciuto in me la diffidenza verso le sue promesse e, mentre guardavo perdersi nella solitudine del mare la costa siciliana, mi rendevo conto di quanto incerto fosse l'esito di quel viaggio, intrapreso senza mezzi, con pochi uomini e senza una precisa strategia.
Hic sunt leones; così pensavo dei luoghi verso cui mi dirigevo e per un momento mi scoprii di essere sul punto di ordinare il rientro, ma, proprio allora, mi parve di vedere nelle trasparenze delle acque il viso tante volte immaginato di mio nonno Federico sereno e sorridente che guardava l'orizzonte lontano e mi invitava ad essere forte, ad avere fiducia. Nel frangersi dei marosi udivo la sua voce che mi diceva con vigore "Non ricordi che pochi mesi fa Ottone era sul punto di sbarcare in Sicilia, mentre tu a Palermo già pensavi di dover fuggire in Africa per metterti in salvo? Non vedi che ora Ottone torna precipitosamente verso la Germania dove non è più sicuro dell'appoggio dei suoi fidi? Ora sei tu l'inseguitore; la gloria ti attende là, nelle nostre terre del Nord, nella grande Svevia. Federico, tu sarai l'Imperatore che porterà la luce al mondo, che farà parlare di sé per millenni. Raccogli le tue forze, segui la tua stella e non indietreggiare mai!".
La schiuma sollevata dalla prua colpita da un'onda improvvisa aveva d'un tratto ricoperto quelle sembianze, e mentre svaniva anche l'eco delle parole che pareva il mugghio delle onde, sentivo rimbalzare dalle navi il canto di attesa e di fiducia degli uomini. "A nord" - urlai - e i gabbiani sembravano far coro con il loro stridio volando tra le scie e le onde.
La navigazione procedette tranquilla per due giorni, ma poi arrivarono le difficoltà. All'alba mi fu comunicato da una barca che si era spinta più avanti nella rotta che la flotta pisana arrivava per intercettare le nostre sparute forze. Le vele erano gonfie di vento, gli stendardi garrivano festosi nei turbini che ci spingevano impetuosi e, grazie alla migliore capacità di manovra, riuscivamo a tener bene il mare. Vedemmo le lontane vele pisane prima ingrandirsi minacciose, poi rimpicciolirsi sino a sparire all'orizzonte. Il nostro vantaggio sembrava incolmabile e continuammo così a veleggiare per tutta la giornata. Quando il sole scomparve nell'acqua sanguigna a sera, avevamo ancora dietro di noi le prue pisane che ora però si avvicinavano. Lamberto mi avvertì che non era più possibile sostenere l'inseguimento e fu necessario buttarsi verso la costa ove saremmo stati al sicuro.
Gaeta era vicina. A non più di qualche miglio si vedevano le fioche luci di quella città verso cui le nostre galee si diressero prontamente spinte dal gagliardo libeccio.
Sbarcai nel cuore della notte, mentre le fiaccole portate dai paggi fin sulla marina si inchinavano al mio arrivo. Certo, il viaggio non era cominciato sotto i migliori auspici, ma ora, scampato il pericolo, vidi una stella brillare in quella pacata notte sul monte di Orlando, che domina la città. Ero sulla buona strada.
Il giorno seguente mi recai al Palazzo degli Ipati ove il Console mi accolse con la formula di benvenuto in una sala ampia e magnifica. Una serie di grandi archi sostenevano il soffitto e terminavano alle pareti con graziosi capitelli che ne ingentilivano la forte struttura. Sulla parete sinistra si aprivano spaziose finestre a cuspide che si addossavano tra coppie di archi e da esse proveniva una vivida luce che batteva sui mirabili affreschi i quali abbellivano ed ornavano le volte e le pareti. I colori turchino, rosso, amaranto, oro, giallo, violetto, eremisi, e quanti altri, si spandevano a rappresentare figure di uomini, animali, frutti, fiori, demoni, mostri, nella celebrazione delle glorie e dei fasti della casata.
Superbi cavalieri sfilavano nei riquadri fioriti e svolazzanti di ornati in cui l'autore li aveva rinchiusi, mentre dame gentili a piedi e a cavallo, con i lunghi capelli inanellati, acconciati con spighe, fiori e vezzosi nastri multicolori, o raccolti intorno al viso a coroncina, si inchinavano ossequiose al passaggio del signore. Ed in alto voli di aquile a ghermire prede fuggenti, di unicorni scalpitanti verso stelle lontane, e più in basso lotte di leoni contro tori, di grifoni contro fiere maculate, di mastini dalle mascelle poderose e dai grossi collari puntuti; visioni di veltri che ululano agli uccelli sugli alberi, lupi che assalgono pecore che pascolano tranquille, orsi che abbrancano favi stillanti di miele e giù giù rantoli di cervi colpiti dai dardi, di draghi fumanti schiacciati da trionfanti guerrieri. Dappertutto elmi dalle strette feritoie o con le celate aperte, ornati da lunghi cimieri, da piume svolazzanti, da ali spiegate, da cavalli rampanti, da neri corvi, da aquile fiere, da mostri orripilanti con corna appuntite. Scudi addossati mostravano le insegne del cavaliere e dei suoi avi: croci trionfanti su mezzelune, leoni ruggenti, castelli superbi, bande rutilanti di colori, tori infuriati, cuspidi svettanti, stelle argentee, cervi scattanti. E sulle cornici, fino al soffitto e sulle volte, arcieri minacciosi, eserciti vittoriosi, cavalieri bardati, paggi dalle lunghe tuniche, armigeri su torri merlate e ancora più su e tutt'intorno frutti, foglie, tralci, pigne, uve, pomi, fiori, germogli, rose e gigli, a chiudere e serrare con volute, arabeschi, inviluppi e spirali tutta quella meravigliosa armonia.
Quelle scene mi giravano intorno vorticosamente e, mentre le guardavo, sembrarono pian piano confondersi in un unico quadro, con una sequenza di avvenimenti che non riuscii subito a spiegarmi, ma che mi furono col tempo nitidi come un paesaggio lontano in un giorno chiaro. Vidi cose che sarebbero avvenute dopo di me e distinsi le sconfitte e il sangue di due biondi e gentili guerrieri cui il valore non portò la vittoria, vinti l'uno dopo l'altro dalla stessa gente straniera. Scorsi la Disfatta inerme e disperata, mentre la Morte sul suo ossuto destriero falciava con ghigno satanico le schiere di armigeri con la mezzaluna, compagni dei biondi cavalieri. Vidi un suddito, scampato ai massacri, rabbrividire alla vista dell'esecuzione sul patibolo, e fuggire su una nave dalle grandi vele bianche verso Occidente, lì dove il cielo è chiaro e luminoso anche quando si annunciano le tenebre. Fuggiva verso una terra lontana ove una bionda regina si appressava al suo sposo sovrano dicendogli fra le lacrime frasi che non capivo "Mi vida es llanto y pena ya que han matado a mi padre. Mi vida es llanto y pena ya que destrozan a mi familia. Mi senor, vengadme; deme usté caballo y armas y a la guerra irè con vos".(*) E vidi il suddito addolorarsi con la regina e insieme a lei non darsi più pace fino a quando non convinse il sovrano a riconquistare il Regno togliendolo agli usurpatori, adoperandosi egli stesso per terra e per mare alla riuscita dell'impresa.
Il vorticoso turbine che avevo visto in quella sala a Gaeta mi accompagnò nei mesi che seguirono. A Roma, ove il papa Innocenzo mi benedì con interessata benevolenza, auspicando la riuscita della mia impresa; a Genova, che si inchinava ossequiosa al mio passaggio, puntando su di me i suoi denari come ad un torneo si scommette sulla bravura del cavaliere sconosciuto. Mi rivedo sfuggire ai ripetuti agguati dei Milanesi e arrivare sino a San Gallo, già nella Svevia, il territorio della mia famiglia, finalmente al nord, con quel soprannome che non capivo, che non avevo scelto, che allora non mi piaceva: Puer Apuliae, il ragazzo della Puglia, della terra che ancora non conoscevo. Un nome ironico, disperato come me, arrivato di fronte ad Ottone, che con il suo esercito possente nemmeno si affrettava ad affrontarmi, e mi beffeggiava chiamandomi il reuccio dei preti.
I campi e i boschi si preparavano ad un precoce autunno, quando, partendo da San Gallo con l'aiuto ed i voti del vescovo Arnoldo mi dirigevo a nord mentre Ottone era a Uberlingen da cui si accingeva a partire per fermarmi.
Il mio drappello era composto ora da non più di 300 cavalieri, dei quali molti, in realtà, prelati. Non sapevo esattamente cosa fare, quale partito prendere, ma la stella che avevo già visto a Gaeta in quel pomeriggio tornò a brillare in direzione di Costanza, e lì, ove convergeva anche Ottone, capii che si sarebbe decisa la mia sorte.
Il giorno seguente giunsi sotto le mura di Costanza, città fedele ad Ottone, la quale si preparava a festeggiare il suo arrivo e la sua vittoria. Mi fermai a breve distanza dalle mura, e rimasi a guardare gli armati che, dall'alto delle mura, appoggiati sugli spalti, osservavano divertiti la ardita presuntuosità di quell'assalto compiuto dal mio sparuto manipolo.
La curiosità di vedere colui che ambiva deporre il potente Ottone attirava sulle mura i notabili, i prelati e le dame. Infine apparve anche il vescovo Gualtiero che prese posto, quasi per assistere ad uno spettacolo, sulla torre a destra della porta che era di fronte a me.
Avevo comandato ai miei di non parlare, di non fare nessuna mossa, e di seguire con attenzione gli eventi.
Se gli uomini tacevano gli elementi avevano preso il sopravvento, facendo da superba cornice a quella drammatica attesa. Il vento freddo e teso trascinava basse nubi cariche di pioggia e fischiava fra i merli e gli stendardi, mentre la polvere turbinava in mulinelli negli spazi tra le torri e le porte armate da larghe piastre di ferro. Le grigie acque del lago che lambivano le alte e possenti mura della città si increspavano e frotte di aironi e folaghe, spaventati da quei turbinii si alzavano in volo schiamazzando. L'innaturale silenzio di tanti armati durò a lungo, e mentre già qualcuno dalle mura alzava la voce per chieder licenza di scendere giù a dare una lezione a quei temerari, mi rivolsi a Berardo, facendogli un cenno col capo. Si avanzò il vescovo, austero sul suo cavallo, e percorse la breve distanza che lo separava da me. Mi si pose accanto, mentre un pallido raggio di sole subitaneo fece capolino dalle nuvole, illuminandoci di un chiarore innaturale che contrastava con l'oscurità di quel nuvoloso pomeriggio.
Gli brillava l'anello di legato del papa, mentre la sua tunica purpurea riluceva di potenti bagliori. "Popolo di Costanza", egli gridò, "pace a te. E pace anche a te, Gualtiero, vescovo di questa città per volere del papa Innocenzo".
Il vento era come per incanto scemato e tutti udirono la voce squillante che echeggiava tra le mura come amplificata dai molti echi. "Avete di fronte a voi Federico, discendente dalla stirpe degli Hohenstaufen, figlio di Arrigo e nipote di quel Federico Barbarossa ancora oggi vanto della vostra terra. Egli sarà l'Imperatore per volere di Dio Nostro Signore, per perpetuare la Sua volontà. Ottone invece per la sua malvagità si è reso reo di molti crimini ed è scomunicato da Dio e dalla comunità dei credenti. Quanto più egli testardamente si ostina a non sottomettersi alla volontà divina tanto più attira su di sé le ire del Signore trascinando verso la dannazione quanti si ostinano a seguirlo. Popolo di Costanza", tuonò Berardo, alzando ancor più la voce, "ravvediti e accogli Federico Imperatore".
E mentre tutti rimanevano colpiti da questa folgorante invettiva, echeggiò l'ultima frase di Berardo: "In nome di Dio e del papa, aprite le porte!"
Per un lungo tratto non accadde nulla; sugli spalti la gente guardava ammutolita ora verso di noi, ora verso il suo vescovo; poi vidi Gualtiero sollevare il pastorale, chinando contemporaneamente il capo. Cigolarono dopo un breve intervallo i grossi cardini e rapidamente le pesanti porte, tirate dagli argani azionati da decine di braccia, si aprirono. Per me fu come se si fossero spalancate le porte del Paradiso.
All'unisono tutte le genti cominciarono ad acclamare dagli spalti e le trombe che erano pronte a comandare l'assalto si unirono in squilli esultanti mentre gli stendardi ora garrivano festanti al sole basso sull'orizzonte. Abbracciai commosso Berardo, pallido per la tensione e per lo sforzo e con i cavalli appaiati entrammo fra le due ali del mio drappello nella città, mentre dietro di noi le porte si chiudevano ad arrestare la arrogante avanzata di Ottone.

(2 - continua)


NOTE
(*) In castigliano nel testo. "La mia vita è pianto e pena poiché hanno ucciso mio padre. La mia vita è pianto e pena poiché distruggono la mia famiglia. Mio signore, vendicatemi; datemi cavallo e armi e alla guerra andrò con voi".


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