§ TRA REAZIONE E REPRESSIONE

LA NASCITA DELLO STATO UNITARIO (II)




Girolamo Garonna



La letteratura di viaggio, espressione artistica di grande fascino e di affermato valore, ha generato opere fondamentali per la conoscenza dei popoli. Con Irving la tradizionale struttura della fabulazione volta a descrivere e a ritrarre l'arte, il carattere, il costume del Paese visitato, si evolve, per soddisfare anche l'esigenza spirituale di captare l'intimità dei popoli di quel Paese. Il tutto permeato di romantica ironia. Racconto come rappresentazione teatrale, in uno scenario reale frammisto ad immaginarie ma probabili avventure, come la ripetizione del Gran Tour di Smollet, che libera il racconto da ogni sentimentalismo per arricchirlo di misteri che seducono e creano drammaticità. La narrazione scorre tra "finzione e realtà".
Nella riposante sosta in una locanda accogliente, quando in un'apparente serenità si dialoga tra avventori e compagni di viaggio e si scambiano informazioni sui siti attraversati o che saranno attraversati, si instilla il brivido dell'imprevisto, dell'avventura: l'incontro con il brigante, protagonista di vicende a volte ricche di solidarietà, a volte configuranti disumane nefandezze. Dalla fine arte narrativa di Irving emerge la contrapposizione di un glorioso passato ed un presente fatto di delittuosa ma epica generosità, per una giustizia sostanziale, compendiata nella figura del fuorbandito buono o crudele. Non è certamente questo brigantaggio che stimola la nostra attenzione e del quale intendiamo discorrere; l'indagine investe quelle tragiche azioni di rivolta partigiana alle quali le classi più povere del popolo meridionale furono costrette dal sopruso, dalle malversazioni di un potere che condusse le operazioni per la formazione dello Stato unitario, nobile ideale risorgimentale, con la logica della guerra di conquista coloniale. Il moto insurrezionale della mite, dignitosa ma esasperata gente del Sud fu gabellato per "brigantaggio" al fine di giustificare, soprattutto in sede internazionale, una crudele repressione. Quando Salvatore Scarpino afferma che la "sporca guerra" fu la naturale conseguenza della "Mala Unità", sintetizza efficacemente un triste evento storico che ancora oggi produce effetti negativi nello sviluppo sociale ed economico delle regioni meridionali, che nel nome della libertà e del progresso subirono, per anni, un duro regime di occupazione militare.
Le operazioni ossidionali di Gaeta da parte dell'esercito piemontese iniziarono il 4 novembre del 1860 e si conclusero il 14 febbraio 1861 con la resa della città. "Gaeta fu l'ultimo sussulto del legittimismo e di un passato che non voleva sparire senza un ultimo sprazzo di gloria", scrive il Garnier, attento cronista del tempo. De Navenna conferma che a Gaeta, sotto le granate, Francesco II fece con tutta semplicità il proprio dovere. Al suo fianco, una donna ricca di una bellezza ideale, una regina di 19 anni, Maria Sofia di Baviera, si comportò eroicamente ed ispirò l'eroismo ai soldati. Mentre tutti avevano cessato di sperare, questa Wittelbach combatté per l'onore dei Borbone e del nome napoletano.
L'assedio era implacabile, le perdite dolorose, emorragiche, la determinazione dei contendenti irremovibile: in questo quadro il re diresse ai popoli del "bel reame" un proclama, documento inestimabile per nobiltà di accenti, per amore e fede, nonché per eroica accettazione del destino, senza rinunciare alla suprema difesa del suo popolo: "Da questa piazza dove difendo più che la mia corona l'indipendenza della Patria comune si alza la voce del vostro Sovrano per consolarvi nelle nostre miserie, per promettervi tempi più felici. Traditi ugualmente, ugualmente spogliati, risorgeremo allo stesso tempo dalle nostre sventure".
Il proclama suscitò orgogliosa commozione e il popolo insorse. Il movimento si estese rapidamente nelle varie province a palese dimostrazione della ripulsione popolare verso la prepotenza dei nuovi padroni. Il disordine, le reazioni e le controreazioni, la delinquenza comune e la rivolta contadina, lo scorrere di bande armate, la poliedrica avversione al potere che si andava manifestando come dura oppressione militare e fiscale: questa la situazione del reame nel momento in cui il sovrano era obbligato all'esilio. Francesco II, vittima del tradimento europeo, confortato dal consenso che gli derivava dai moti popolari, avvertì come doverosa l'esigenza di dare ordine al tentativo di restaurazione, incanalando in un alveo unico e valido i vari rivoli insurrezionali, mancanti di un efficace coordinamento e, pertanto, destinati a contaminarsi di delinquenza comune e a fallire l'obiettivo essenziale: il ripristino della legittimità violata. Allo scopo, occorreva trovare un uomo d'azione capace di ripetere le gesta del cardinal Ruffo.
Il generale Clary, del Comitato borbonico di Marsiglia, segnalò come persona idonea e disponibile per guidare la rivolta l'ex generale delle forze carliste, José Borjes. Questi aveva valorosamente combattuto in Spagna nel 1846 e nel 1855. Espertissimo nella guerriglia, era ansioso di operare. Infatti nel 1860 era accorso a Roma mettendosi a disposizione del Pontefice per fronteggiare le minacce garibaldine e, ad iniziativa dei comitati borbonici di Marsiglia e di Roma, aveva compiuto una missione a Messina e in Calabria. Il 5 luglio 1861 al generale Borjes furono impartite precise istruzioni scritte, in base alle quali egli doveva recarsi "nelle Calabrie per proclamarvi l'autorità del legittimo Re Francesco II".
Veniva specificamente stabilito che la missione tendeva ad appoggiare "gli sforzi di questi popoli generosi che richiedono il loro legittimo Sovrano e padre per impedire l'effusione di sangue ... per impedire le vendette private che potrebbero condurre a funeste conseguenze".
Borjes da Marsiglia raggiunse Malta e il 14 settembre sbarcò in Calabria con pochi volontari. Ebbe la prima grande disillusione: non trovò gli insorti preannunciati. Dopo uno sconcertante incontro con la banda Mittica sull'Aspromonte, braccato dalla Guardia Nazionale, si diresse verso la Basilicata ove, il 22 ottobre, incontrò, nel bosco di Lagopesole, il brigante Crocco, il quale, autonominatosi generale di Re Francesco, non volle riconoscere l'autorità di Borjes. Nonostante tutto, tra i due si stabilì una collaborazione che non mancò di ottenere risultati.
Impossibilitati ad affrontare in campo aperto le truppe regolari, agirono secondo le regole della guerriglia: colpivano improvvisamente i punti più deboli e poi scomparivano, generando panico tra gli avversari e consenso tra gli indifesi. Ben presto oltre mille uomini, abituati ad ogni sacrificio, organizzati in bande, lasciarono la zona del Vulture per portarsi nella valle del Basento, in direzione di Potenza. Gli insorti si moltiplicarono; masse di contadini accorsero ad ingrossare le file dei combattenti di Borjes e di Crocco. Fulminee, terrificanti azioni furono compiute a Trivigno, a Gargano, a Salandra e in altre numerose località. Le truppe regolari e le Guardie Nazionali furono ripetutamente sconfitte. Sul Sauro un reparto di fanteria piemontese non riuscì a bloccare Borjes, che con ardita manovra si svincolò dalla morsa tesagli e raggiunse Stigliano, poi Grassano, ovunque accolto dalle popolazioni festanti. Prese sempre più corpo il progetto della conquista di Potenza, ma il dissidio e l'incompatibilità tra i due generali (quello fittizio e quello autentico) determinarono il fallimento del progetto. Crocco non condivideva il disegno operativo di Borjes, che intendeva assaltare il capoluogo lucano seguendo i canoni della guerra campale.
Crocco, padrone del territorio e perfetto conoscitore degli uomini che comandava, voleva imporre l'idea che solo mediante la guerriglia, e colpendo nei loro beni "i galantuomini" che avevano aderito al regime, sarebbe stato possibile ottenere risultati efficaci. Il contrasto fu profondo e insanabile. Dopo altre brillanti operazioni, quali il sacco di Bello e l'invasione di Balvaro, Borjes riconobbe che la sua missione era fallita e, lasciato Crocco, tentò di ritornare a Roma.
La ritirata, iniziata il 29 novembre, si concluse l'8 dicembre 1861 presso Tagliacozzo, a pochi chilometri dalla frontiera dello Stato Pontificio, ove venne catturato e fucilato insieme ai suoi compagni. Si concludeva così, dopo tre mesi, l'avventura di Borjes, la cui fine produsse indignazione in tutta Europa.
Intanto Crocco, con la banda sempre più efficiente, continuò le sue imprese, la più ardita delle quali fu la conquista di Melfi. Nell'aprile 1861 lasciò il bosco di Lagopesole alla testa della sua banda e di quelle di Caruso, di Nico Nanco, e di altre meno numerose. Questa massa di uomini si sparse per la regione e la popolazione li acclamò come liberatori. A Rapolla, a Ginestra, a Venosa furono istituiti governi borbonici. Gli esponenti liberali vennero estromessi. La marcia di Crocco proseguì per Melfi, ove già operavano alcuni legittimisti. Appena si diffuse la notizia dell'imminente arrivo dei briganti, l'intera città si rivoltò e Crocco fu accolto come un trionfatore. L'occupazione della città durò quattro giorni: il bottino raggranellato in denaro, viveri e gioielli fu tale da assicurare larga autonomia alle bande riunite. Crocco fu uno dei capi più brillanti e perciò tallonato senza tregua da molti reparti regolari. Fino a quando, nell'estate 1864, abbandonato da quasi tutti gli uomini, riuscì ad espatriare nello Stato Pontificio, ove si costituì alla gendarmeria del Papa.
Luigi Alonzi, detto "Chiavone", era un povero guardaboschi che, autonominandosi generale, combatté nella zona compresa tra il Liri e l'alto Volturno, al fianco di generali stranieri appartenenti a nobilissime famiglie, accorsi a Roma per sostenere, con la guerra di bande, la restaurazione legittimista del Regno delle Due Sicilie. Ammiratore di Garibaldi, tentò di emulare le gesta al comando dei cafoni insorti contro i piemontesi. Nelle zone ove condusse una guerriglia valorosa, spesso spietata, abbatteva tutte le insegne di casa Savoia, tutti i simboli dello Stato unitario, ma non toccava e non permetteva che si toccassero i ritratti di Garibaldi. Chiavone era già al servizio di Francesco Il nella "Brigata Leggera", costituita da Teodoro de La Grange nel tardo autunno del 1860, per sostenere la sommossa contadina da tempo in atto nelle province settentrionali della Terra di Lavoro e nel Molise. Allo scioglimento di tale brigata, Chiavone continuò la guerriglia con la sua forte banda e più volte mise in difficoltà il generale piemontese Maurizio de Sonnaz, che era stato incaricato di dargli la caccia. Ai primi del 1861, una colonna di circa tremila uomini, lanciata all'inseguimento della banda, venne battuta sul campo da circa ottocento insorti.
Singolari erano gli scritti con i quali imponeva taglie ai sindaci o ai possidenti liberali: "Signor Sindaco, alla vista della suddetta si alzi la voce del nostro Sovrano e si tolgano le bandiere dei Savoia e si alzino quelle di Francesco Burboni se non altrimenti il paese sarà dato sacco e fuoco pronte di trovare duemila razioni di pane e formaggio". Le operazioni militari condotte da Chiavone risentivano della mancanza di un coordinamento, perciò nelle centrali legittimiste si pensò di affiancargli dei militari competenti. Il primo fu Richard Zimerman, austriaco calato a Roma in difesa della regina spodestata, ma soprattutto per spirito di avventura. Assunse il nome di Luigi Riccardo e si aggregò a Chiavone come aiutante. Il secondo fu il conte di Edwin, Kalchrenth, rumeno noto con il nome di conte Edvino. Già cospiratore borbonico, collaborò con Chiavone fino a quando, catturato, venne fucilato a Mola di Gaeta nel maggio 1862.
Il capobanda mal sopportava questi aiutanti. Si riprodusse il contrasto di sempre. I legittimisti ex ufficiali aspiravano a condurre una guerra con finalità politiche, i briganti invece operavano la pura guerriglia. In un proclama, dopo aver indicato i piemontesi come nemici del re, dei contadini e della religione, precisò il tipo di guerra da combattere: "per li gioghi degli Appennini ciascun macigno è fortezza, ciascun albero è baluardo". Indubbiamente Chiavone rappresentava un grosso problema per le autorità unitarie e stava per diventarlo anche per le centrali borboniche. Infatti egli ostentava una forza non corrispondente alla realtà e chiedeva sempre denaro. Peraltro, le centrali promettevano aiuti ed organizzazioni che non esistevano. La duplice diffidenza comportò la decisione di inviare nell'area confinante con lo Stato Pontificio un generale legittimista spagnolo, Rafael Tristany. Il generale si convinse che Chiavone ormai operava soltanto per fini di lucro personale e fu lui stesso che, dopo il fallimento dell'azione volta alla conquista di Castel di Sangro, avvalendosi del potere che li derivava dal grado di Maresciallo di Campo, lo fece processare per indisciplina, per rapina e per omicidi da un consiglio di guerra che lo condannò alla fucilazione. Era il 28 giugno 1862. Il processo ebbe la rilevanza di un esempio atto a dimostrare che i comandanti della reazione pura erano i principali "punitori dei malandrini che scorrono le campagne per grassare e delinquere".
Pietro Monaco, sottufficiale borbonico, quando il reame fu invaso dai garibaldini disertò e passò nel campo avverso, dove si dimostrò combattente coraggioso, tanto da meritare la promozione a sottotenente sul campo durante l'assedio di Capua. Con lo scioglimento dell'esercito meridionale, anche Monaco fu smobilitato e si trovò disoccupato e sospettato per i suoi precedenti. Tornato a casa, pieno di rancori, si occupò di politica. Per una questione di vendetta uccise un possidente di Serrapedone, grande paese della Sila, e fu costretto alla latitanza. Dopo poco tempo divenne capo di un gruppo di ribelli. La sua fu lotta al potere dei baroni, dei galantuomini feudatari e proprietari terrieri, i veri avversari delle popolazioni rurali. Era l'espressione del costante risentimento verso quella classe che, appropriandosi delle terre demaniali, aveva peggiorato le condizioni di vita degli artigiani e dei contadini. L'azione di Monaco collateralmente finiva per caratterizzarsi come legittimista, fautrice della restaurazione borbonica. L'odio delle classi più misere, dei derelitti, degli sbandati, nerbo delle bande, era rivolto verso i governi provvisori costituiti dai liberali locali, rappresentati quasi esclusivamente dai proprietari terrieri. Invece un sentimento di gratitudine era persistente nelle classi più povere verso la monarchia tradita, che le aveva sempre tutelate. In fondo, la ragione dei ribelli stava nella ineluttabile disperata certezza che sotto ogni regime i cafoni, i poveri, sarebbero stati sempre condannati a una vita di stenti. E allora era più utile combattere per il ritorno del vecchio re, anch'egli maltrattato da chi era disposto ad ogni trasformismo pur di difendere il privilegio.
Un atto banditesco segnò la fine dell'ex sergente borbonico: il sequestro, nel settembre 1863, di due membri della potente famiglia Falcone di Acri e del vescovo di Nicotera. I Falcone impegnarono tutti i loro mezzi per vendicare l'onta subita e riuscirono a comprare il tradimento di alcuni uomini della stessa banda, i quali uccisero il loro capo mentre dormiva.
Merita di essere ricordata, altresì, la banda capeggiata da Giovanni Romano, anch'egli ex sergente borbonico, nominato dal comitato borbonico di Gioia del Colle "Comandante Generale degli Armati", circa 700 elementi quasi tutti ex militari.
Le prime azioni si svolsero nell'estate del 1861, quando fu attaccato il presidio della Guardia Nazionale di Gioia del Colle e furono trucidati alcuni liberali. La banda successivamente si ritirò in campagna e operò soprattutto nelle province di Terra di Bari e Terra d'Otranto. Romano, oltre ad agire con la sua banda, comprendente circa 300 uomini a cavallo, ordinò anche l'azione di altre bande minori, comandate da ex soldati e sottufficiali sia borbonici che garibaldini. L'organizzazione aveva caratteristiche prettamente militari e i componenti, reclutati tra gli ex militari del disciolto esercito, erano considerati "richiamati alle armi in nome di Francesco II".
La banda Romano si distinse per fedeltà agli ideali che ne ispirarono la costituzione. Moltissimi episodi in Terra d'Otranto la videro protagonista. L'ultimo combattimento avvenne in territorio di Alberobello. Il 1° dicembre 1862 le bande riunite di Romano, Caprano e Pizzichicchio, circa 170 combattenti, occuparono una masseria. Intervenne un reparto del 10° Rgt. di linea che inflisse un duro colpo ai partigiani. Nel combattimento rimasero uccisi alcuni capi, molti si sbandarono, molti furono catturati. La banda, ridotta a pochi uomini, venne distrutta il 5 gennaio 1863, quando il Romano cadde combattendo.
Nella breve e incompleta epitome dell'attività delle bande insurrezionali, protagoniste della guerra partigiana, è opportuno inserire qualche nota di colore che certamente contribuirà ad assecondare quella giusta, doverosa, onesta rivalutazione delle apprezzabili motivazioni che, almeno per i primi anni, furono alla base delle azioni del cosiddetto "brigantaggio". Dal pregevole volume del generale Tuccari, Il Brigantaggio nelle Provincie Meridionali dopo l'Unità d'Italia (1861-1870), apprendiamo che in combattimento i briganti issavano la bandiera bianca gigliata dei Borboni e cantavano gli inni reali. Nei giorni festivi non trascuravano di assistere alla S. Messa celebrata in qualche luogo appartato di campagna o di montagna e recitavano la preghiera "Oremus pro rege Francesco". Così pure appuriamo che i gradi e le qualifiche di comando attribuite ai capi consistevano in anelli o bottoni. Fra gli oggetti trovati sui briganti catturati o morti furono rinvenuti anelli di zinco con l'indicazione del grado e del corrispondente reparto borbonico, nonché piastre d'argento con l'effige di Francesco II. All'atto dell'immissione nelle bande era obbligatorio prestare giuramento, secondo una formula con la quale si annunciava l'impegno di "difendere, fino alla effusione del proprio sangue, Iddio, il sommo Pontefice Pio IX, Francesco Re delle Due Sicilie".
Come per i ristretti accenni fatti su alcune figure di briganti, le ragioni della Storia impongono di parlare brevemente anche dei metodi repressivi adottati dalle Autorità del Governo Nazionale. Fu una repressione violenta, venne instaurato un regime di terrore. Per averne cognizione imparziale, conviene rifarsi alle fonti liberali. Nel Parlamento di Torino il deputato Ferrari e il deputato Miceli denunciarono che nel Meridione era in atto "una guerra di barbarie". Il Miceli, che aveva assistito di persona ai massacri effettuati dalle truppe piemontesi in Calabria, lamentava che la soppressione fisica degli avversari avveniva senza alcun processo. Lo stesso Bixio affermò in Parlamento che "un costume di sangue è impiantato nell'Italia meridionale, ma non è con lo spargimento di sangue che ai mali esistenti sarà posto rimedio. Se l'Italia deve diventare una nazione dobbiamo raggiungere i nostri fini con la giustizia, non con lo spargimento di sangue". Ancora una volta l'on. Ferrari elevò nel Parlamento di Torino la sua voce con accenti commossi: "Voi potete chiamarli briganti, ma essi combattono sotto una Bandiera nazionale, potete chiamarli briganti, ma i loro padri rimisero due volte i Borboni sul trono di Napoli. E' vero, ma il Ministero vorrebbe farci credere che 1.500 uomini, comandati da due o tre vagabondi, tengono testa contro tutto il Regno e contro un Esercito di 120.000 regolari? Ma questi 1.500 debbono essere semidii".
Napoleone III, che aveva assecondato la politica cavouriana affermò: "Un generale il cui nome ho dimenticato aveva proibito ai contadini di portare seco provvigioni quando vanno a lavorare nei campi, ha decretato che tutti coloro sui quali si trovi un pezzo di pane saranno fucilati. I Borboni non fecero mai niente di simile". Nel 1865 il giornale Il Popolo, foglio liberale, definì l'anniversario del plebiscito "triste anniversario" perché "il popolo del Sud nessuna gloria aveva ricevuto dall'unione con l'Italia ed aveva solo dovuto sopportare le sofferenze ed i pesi aggravati da essa".
I proclami dei generali incaricati della repressione erano permeati di crudeltà, di furore. Venivano ordinate fucilazioni con estrema facilità. Praticare la pena capitale senza processi era diventata ordinaria amministrazione. Assurge a livello di prova del nostro assunto il proclama che il maggiore Fumel emanò nel 1862: "Io sottoscritto, avendo avuto la missione di distruggere il brigantaggio, prometto una ricompensa di cento lire per ogni brigante, vivo o morto, che mi sarà portato. Questa ricompensa sarà data ad ogni brigante che ucciderà un suo camerata; gli sarà inoltre risparmiata la vita. Coloro che in onta degli ordini, dessero rifugio o qualunque altro mezzo di sussistenza o di aiuto ai briganti, o vedendoli o conoscendo il luogo ove si trovano nascosti, non ne informassero le truppe e la civile e militare autorità, verranno immediatamente fucilati... Tutte le capanne di campagna che non sono abitate dovranno essere, nello spazio di tre giorni, scoperchiate e i loro ingressi murati... E' proibito di trasportare pane o altra specie di provvigione oltre le abitazioni dei Comuni, e chiunque disubbidirà a questo ordine sarà considerato come complice dei briganti". Il col. Fantoni, in terra di Lucera, nel febbraio 1862, dopo aver vietato l'accesso alla foresta del Gargano, emanò il seguente editto: "Ogni proprietario, affittuario o ogni agente sarà obbligato immediatamente dopo la pubblicazione di questo editto a ritirare le loro greggi, le dette persone saranno altresì obbligate ad abbattere tutte le stalle erette in quei luoghi... Quelli che disobbediranno a questi ordini, i quali andranno in vigore due giorni dopo la loro pubblicazione, saranno, senza avere riguardo per tempo, luogo o persona, considerati come briganti e come tali fucilati".
In un intervento alla Camera dei Comuni, nel maggio del 1863, il parlamentare inglese Bail Cochrame, condannando il proclama del maggiore Fumel, esclamò: "Un proclama più infame non aveva mai disonorato i peggiori dì del regno del terrore in Francia".
E l'attuazione di quanto ordinato veniva praticata con inflessibile determinazione. Rileviamo dall'opera di Domenico Capocelatro 1860-Crollo di Napoli capitale, oltre che le notizie dinanzi riportate, anche dati statistici impressionanti: dal maggio 1861 al febbraio 1863 i piemontesi riconobbero di aver fucilato perché trovati in possesso di armi 1.030 persone, di aver ucciso negli scontri avuti 413 legittimisti; di averne fatti prigionieri 1.768.
Il rapido tratteggio di figure e di episodi, il veloce spigolare nell'ampio campo della guerra detta "brigantaggio", ma che continuo a definire "partigiana", sfocia in alcune considerazioni conclusive. Già affermammo che consideravamo queste note provocatorie, volte a richiamare l'attenzione su un passato ancora bruciante, che torna prepotentemente d'attualità per la protervia diabolica e sprezzante di qualche imbonitore politico che, propinando fandonie, vilipende la coraggiosa, generosa, capace e civilissima gente del Sud. Questi mangiatori di sego, usi a trattare soltanto con aspiranti Mida di bassa lega, travisano la storia, la maneggiano con brutale violenza per sostenere tesi menzognere. E' tempo che qualcuno del Sud insorga come allora, per dire forte che il Nord non ha mai mantenuto il Sud, che il Meridione, dopo essere stato spogliato e depredato, fu trattato come terra di conquista coloniale. E' necessario affermare senza tema di smentite, sulla scorta di inoppugnabile documentazione, che "le industrie del Settentrione si costituirono con i soldi sottratti al Sud e col sacrificio di questo". Con estrema serenità, alla luce dei fatti così come si svolsero e che abbiamo cercato di evidenziare, si deve riconoscere che al Meridione non derivarono vantaggi dall'Unità d'Italia. Se non ci fosse stata l'invasione del 1860, oggi, dopo oltre un secolo, il Sud non si troverebbe a lottare per la sopravvivenza.
Non si troverebbe a subire la discriminazione e l'offesa di un Nord egoista. Autorevoli personalità politiche e di cultura hanno individuato, nelle vicende unitarie, fatti e comportamenti legislativi che sostengono quanto affermato. Lo studioso e saggista Massimo Petrocchi scrisse che "il Regno di Napoli non portò all'Unità d'Italia passività economico-industriali, ma strumenti di progresso tecnico, che furono in seguito soffocati dalla politica industriale del nuovo Regno d'Italia, nel trasferire la concessione di commesse e sovvenzioni alle industrie del Nord".
Le officine di Pietrarsa, dalle quali uscirono le prime sette locomotive ferroviarie d'Italia e che impiegavano soltanto qualificatissimi meccanici nazionali, per favorire il Nord furono condannate ad una deplorevole agonia. Il grande economista lucano Francesco Saverio Nitti ritenne che "l'unificazione del debito pubblico e le forme assunte dalle emissioni del debito pubblico dopo il 1862 sono state le più grandi cause, tra l'atro, del trasferimento dei capitali dal Sud al Nord". Successivamente afferma che "il Mezzogiorno ha accettato il debito del Nord, ha venduto i suoi demani, ha ceduto le sue ricchezze monetarie".
Altro che Sud parassita! Si studi, si approfondisca e si vedrà, ove sono gli usurpatori. Sul giornale di Roma Il Tempo l'editorialista Yanez ha, finalmente, smascherato quella che definisce "ridicola e confusa tesi degli apprendisti stregoni del carro leghista" che "si fonda su di un clamoroso falso". Yanez con poche, appropriate ed efficaci battute demolisce la storiella di un "Centro-Nord ricco e sviluppato non più disposto a tirare il carro per tutti ed in particolare per un Sud pigro e vocato all'assistenzialismo", sostenendo in maniera inconfutabile che "i dati della contabilità nazionale testimoniano una realtà finanziaria ben diversa da quella manipolata da chi ha dimostrato di capire poco o nulla dei conti dello Stato. La spesa pro-capite nei Comuni d'Italia (dati 1994) è di gran lunga più alta nei Comuni dell'Emilia, della Toscana e delle Marche che non in quelli del Mezzogiorno. Al secondo posto si collocano i Comuni del Nord ed il fanalino di coda spetta ai Comuni di Puglia e della Campania... Poiché la finanza degli Enti locali è ancora una finanza derivata, una finanza cioè che vive di trasferimenti dallo Stato centrale, questi dati dimostrano che la famosa "Roma ladrona" garantisce molto di più agli abitanti delle Regioni del Centro-Nord che non a quelli del Sud".
Questo lungo inciso di attualità, che sorprendentemente si collega al tema prefissato della nostra trattazione, non ci distoglie dal discorso condotto sul filo ideale di dare corretta interpretazione ad uno spicchio di storia ingiustamente travisata e tramandata in modo denigratorio e fuorviante. A noi pare che le varie scene annotate abbiano delineato chiaramente un quadro con punti di riferimento incontrovertibili.
La guerra del brigantaggio post-unitario, durata dal 1860 al 1870, deve essere divisa in due fasi nettamente distinte tra loro: la prima comprende il periodo 1860-1861; la seconda va dalla proclamazione del Regno d'Italia fino al 1870. I fatti bellici accaduti nel primo periodo sono legittime operazioni di guerra. Nel secondo periodo i guerriglieri borbonici dovevano essere considerati "partigiani e non delinquenti comuni".
Con l'esilio a Roma di Francesco II, la guerra per bande non cessò; anzi si estese e si sviluppò fino al 1862.
Bisogna riconoscere che non tutti i briganti furono "partigiani" del re, molte furono le azioni di vera delinquenza. Fra il 1863 e il 1865, tramontata la speranza di un ritorno del Borbone, il movimento partigiano delle grandi bande a cavallo fu battuto militarmente. Dopo il 1865 prevalsero le azioni legate più alla criminalità comune che non alla rivolta contadina. La resistenza non trovò più alimento in moti politici e si esaurì. Ciò che deve essere marcato è il modo in cui gli unitari del Nord si avvicinarono al contesto meridionale e il sistema adottato per il Governo.
I fuorusciti meridionali, nell'azione preparatoria per la costituzione di uno Stato unitario, diedero una immagine distorta di quella che era la realtà meridionale. Accreditarono un regno ricco e fertile, con una grandissima potenzialità economica. Remora ad un forte sviluppo industriale era costituita dal Borbone e dai suoi baroni. Dice Salvatore Scarpino nel suo piccolo ma denso volume La Mala Unità: "Calcoli politici elementari, disinformazione più o meno interessata, faciloneria senza attenuanti fecero sì che l'incontro Nord-Sud si risolvesse nell'amarezza delle delusioni incrociate. La sporca guerra, l'esplosione del brigantaggio fu il primo frutto di queste delusioni". Ed inoltre: "I Piemontesi si erano aspettati fiori, fanfare e tarallucci e furono accolti da fucilate... Il Paese era ricco, ma troppi erano poveri, ciò significava dire che questa gente non ama il lavoro. Il male stava nei contadini, i quali dovevano essere costretti a rispettare i soldati del nuovo Stato. Eccoci alla pedagogia del plotone di esecuzione".
Carlo Alianello, nel suo appassionato saggio La conquista del Sud, riporta che dal gennaio all'ottobre del 1861 nell'ex Regno delle Due Sicilie si contavano 9.810 fucilati, 10.604 feriti, 918 case arse, 6 paesi distrutti, 12 chiese predate, 40 donne e 60 ragazzi uccisi, 13.000 imprigionati, 1.420 Comuni insorti. Denis Mach Smith sostiene che i morti in questa lotta furono superiori a quelli di tutte le guerre del Risorgimento. Un vero disastro aggravato dal fatto che l'economia del Sud divenne sempre più fragile per la crescente inflazione e per le nuove tasse imposte. Dopo la relazione della Commissione Massari, che sortì la famigerata legge Pica, intervenne anche la rivista dei Gesuiti Civiltà Cattolica che definì "Resistenza" la guerra civile delle popolazioni del Regno del Sud e la condannò perché "dispari era la condizione delle due parti combattenti: da un lato un Governo potente ed armato, dall'altro un popolo oppresso, disordinato, lasciato in balia di se stesso". Da tutto quanto penosamente andiamo rilevando si fa strada una interpretazione diversa e dolorosa della spedizione iniziata dallo Scoglio di Quarto. L'avidità del capitalismo lombardo forse fu il sotterraneo, potente ispiratore dell'impresa; non l'unione di tutte le Province italiane, ma l'acquisizione di nuove grandi aree allo sfruttamento economico e industriale, nonché l'appropriazione del mare per assecondare le mire del profitto anche in altre nazioni. Ci suggerisce questi pensieri la spregiudicatezza dell'attualità leghista. Che il motore dell'azione secessionista abbia la stessa potente sotterranea matrice? E' necessario essere vigili per evitare "Bosnie" nostrane, anche perché le cronache del cosiddetto brigantaggio somigliano moltissimo alle recenti cronache della guerra in terra di Jugoslavia. Infine, ripercorrendo gli itinerari delle vicende appena sfiorate, sembra che si possa condividere l'affermazione di Scarpino, nel suo La Mala Unità: "I briganti hanno fatto i briganti, mentre i liberali del Nord si sono dimostrati poco liberali".
La guerra civile finì; non potevano vincere i briganti perché il nuovo mondo, nonostante tutto, avanzava. Rimane però l'amarezza che i contadini, i lavoratori meridionali, pagarono interamente il conto di questo "nuovo": si ritrovarono senza libertà, immiseriti, senza speranza, figliastri in uno Stato ostile nel quale non si riconoscevano. Triste sorte che li costrinse alla disperazione dell'emigrazione. Questo è il debito che il Nord deve ancora pagare e non potrà pagare, perché il prezzo èimmenso, non suscettibile di valutazione economica: è pregno di sangue.

(2 - Fine)


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