"Si
può ben desiderare e volere che una più larga parte della
nostra vita si avvicini alla poesia, com'è per alcuni popoli
nordici. che la poesia ci accompagni, con la sua leggerezza, nella fatica
di ogni giorno, e salga con noi le scale dell'officina, con noi percorra
i solchi del campo, cammini col passo dell'uomo che cammina"
Franco Fortini
Sulla eccezionalità
della figura di Franco Fortini (Firenze 1917 - Milano 1994), nel panorama
più ricco della cultura italiana della seconda metà
di questo secolo, non esistono dubbi, nonostante le malevole reiterate
riserve sulla sua natura, costitutivamente contraddittoria. L'impressionante
corpus della sua produzione poetica e saggistica riflette la "coscienza
infelice" dell'intellettuale del dopoguerra, dovuta - come è
stato scritto - "a un'acuta percezione delle contraddizioni esistenti
tra scelte morali e religiose (poi politiche) da un lato e scelte
letterarie e artistiche dall'altro, il rifiuto del presente in una
continua tensione verso il passato o l'avvenire, il senso della concretezza
e della esemplarità dell'esistenza del singolo" (1).
Se è lecito a riguardo evocare qualche modello, il pensiero
va a Paul Éluard, che ètra i suoi autori più
cari sin dalla prima giovinezza: "Io difendo il diritto dei poeti
a contraddirsi - dichiara Éluard in una intervista rilasciata
a Fortini nel 1946, per Il Politecnico -. Non si parli qui di diritto
all'errore. Il solo errore valido è quello che avviene in presenza
e in coscienza della verità. Per questo il diritto della contraddizione
è necessario all'esercizio della dialettica" (2) . O non
è forse la stessa realtà storica e sociale, da sempre
campo ossessivo di osservazione di Fortini, a presentarglisi nella
sua facies hippocratica, tale, dunque, da aggredire e scarnificare?
Perciò, da Fortini, sin dalle primissime prove, la poesia,
la si vuole "anche giudizio" (3). E non importa più
che tanto che la sua resti vox clamantis in deserto.
In limine
"Sono vecchio abbastanza per ricordare come tanti padri scendevano
a patti allora (tra il 1922 e il 1925), in attesa che fossero tutti
i padri a ingannare tutti i figli. (Oggi) cerchiamo almeno di diminuire
la quota degli ingannati. Ripuliamo la sintassi e le meningi".
E' l'estremo messaggio di Franco Fortini (4).
Tra il 1922 e il 1925, infatti, Fortini, o meglio Franco Lattes (dal
cognome del padre ebreo, poi sostituito da quello della madre, cattolica),
era poco più che un fanciullo e già subiva i primi morsi
della vita: la odiosa petulanza del fascismo fiorentino all'indirizzo
del padre, repubblicano e avvocato di professione. Emblematicamente
presaga la "Lettera" in distici elegiaci, del 1944, raccolta
in Foglio di via: "Padre, il mondo ti ha vinto giorno per giorno
/ come vincerà me che ti somiglio / ... Il tuo figliolo ancora
trema del tuo tremore / come quel giorno d'infanzia di pioggia e paura
/ pallido tra le urla buie del rabbino contorto / perdevi di mano
le zolle sulla cassa di tuo padre. / Ma quello che tu non dici devo
dirlo io per te / al trono della luce che consuma i miei giorni. /
Per questo è partito tuo figlio; e ora insieme ai compagni
/ cerca le strade bianche della Galilea" (5). Evidenti gli stilemi
biblici ed esistenzialisti. E' la prima radice che alligna nella memoria
e si alimenta di speranza.
In un passo de I cani del Sinai (1967), echeggia l'accento del "profeta
rivolto al passato" (è una metafora dell'ebreo Walter
Benjamin): "Ora capisco che quel guardare indietro, in un'attitudine
di amore e lacrime verso il passato e i trapassati, e di tensione
e riso tremante per l'avvenire... era forse segno di reale appartenenza
ad una tradizione dell'ebraismo... Di quanto in quel tempo - dall'autunno
del 1939 al luglio del 1941 - si consumava nell'Europa Centrale, non
sapevo nulla. Ma era come se da quella consumazione una luce di cenere:
fosse scesa su me, sulle muraglie di Firenze e le colline, con i loro
sorrisi irrigiditi" (6). E le sue prime letture, a dieci anni,
sono i testi biblici e i Fratelli Karamazov, e già vi scopriva,
embrionalmente, "le maledette questioni", cioè "del
bene e del male, dell'esistenza di Dio e del diavolo, dei temi capitali
della società e della politica. Mai la distanza fra le idee
e la vita era stata detta con tanta violenza"(7).
Ha così inizio, troppo per tempo, il cammino del "disperato
camminatore", nella affannosa lessinghiana "ricerca della
verità". E' il "disperato camminatore" sulle
tracce dei "Logoi Christou", della lirica (1950), compresa
nella silloge Poesia ed errore (8). Sono gli assoluti, gli universali
ad attrarre l'inquieta intelligenza di Fortini, così come essi
appaiono e dispaiono nell'involontario soggiorno dell'uomo sulla terra;
sicché il radicalismo etico-religioso s'intreccia col radicalismo
politico, in misura progressivamente più accentuata, ma le
cui prime avvisaglie affiorano di già nella giovanile raccolta
Foglio di via (9).
E' detto intreccio il nodo contro cui si è arenata gran parte
della critica, o si è lasciata incapsulare da pregiudizi estetico-ideologici,
che hanno ancor più rafforzato il convincimento fortiniano
che la poesia, la sua poesia è "testimonianza precisa
e inascoltata" (10), ma per ciò stesso densa di funzionalità
utopica, d'insospettata potenzialità liberatrice, ontologicamente
"antagonista" (11); con il postulato che "la poesia
è libertà" e il poeta "maestro di libertà".
Essa è "un'arma potente nelle lotte degli uomini, per
conquistare una vita umana", non volendo più vivere "né
da pecora né da leone, né da padrone né da schiavo";
ed il poeta, "un uomo come tutti gli altri, con le passioni e
i bisogni di tutti", batte strade inusitate e con le sue "parole
nuove [ ... ] tocca una regione di valori puri che han forza eternamente
rivoluzionaria, se è vero che la verità è sempre
rivoluzionaria, cioè attiva e dinamica" (12).
La "scoperta
del significato tragico della storia"
L'indefesso viator, forse presentando il nunc dimittis, ha voluto
abbozzare, con molta approssimazione, un autoritratto: un Fortini
che si aggira, avanza, indugia e arretra, tra i dedalei sentieri della
cultura del nostro tempo; è l'autoritratto che sbalza dalla
"conversazione protratta" con un suo devoto allievo, in
Leggere e scrivere; un "repertorio che con gli anni è
divenuto una soma, un fascio antico" (13). Nella "premessa"
confida di aver "sempre letto come Baudelaire, in una giovanile
poesia a Sainte-Beuve, diceva di aver fatto nei pomeriggi di scuola;
ossia, spiando l'écho lointain d'un livre, ou le cri d'une
émeute".
Si tramanda che Sant'Agostino, il martello degli eretici, da bambino,
in riva al mare, si accanisse a svuotare il bacino del Mediterraneo
con una conchiglia. Mi è accaduto di pensare all'autore delle
Confessioni, ripercorrendo i lineamenti di questo singolare autoritratto,
che pure si suggella di una altrettanto singolare clausula: "Mi
fa ripugnanza, sessant'anni fa come oggi, la sporca religione dei
poeti, dei quali sono uno, l'ascesi che consola delle sconfitte. Vorrei
invece saper protetto quel che ho avuto caro e venerato: non libri
altrui o miei, ma un modo fondamentale di attenzione, di volontà
buona, amore di amore" (14). E' la biblica vanitas vanitatum,
ovvero il sobbalzo dell'Angelus novus delle benjaminiane "Tesi
di filosofia della storia"?
Intanto ci tornano a mente due testi di Fortini, contrastivamente
esemplari: ,Parabola, del 1953, e La gronda, del 1959; nel primo,
l'autore "assomiglia" il suo destino di poeta alla "sorte"
toccata all"'uva che ai ricchi giorni di vendemmia / fu trovata
immatura / ed i vendemmiatori non la colsero / e che poi nella vigna
/ smagrita dalle pene dell'inverno / non giunta alla dolcezza/non
compiuta la macerano i venti" (15).
Il secondo testo, ben più intensamente e messianicamente allegorico,
con quella sua rondine, non troppo dissimulata emula gentile della
"talpa" marxiana, prefigura, o segna, il crollo inarrestabile
di "una casa invecchiata", che altro non è se non,
simbolicamente, il fatiscente organismo sociale a struttura capitalistica:
sullo spigolo di una sua gronda, le rondini sostano qualche volta,
e Fortini, che scopre il tutto "dalla finestra", si abbandona
al pensiero, "con qualche gioia / che un giorno, e non importa
/ se non ci sarò io, basterà che una rondine / si posi
un attimo lì perché tutto nel vuoto precipiti / irreparabilmente,
quella volando via" (16). Una rondine, che può, al tempo
stesso, adombrare, pur nella sua leggerezza, il peso rivoluzionario
della poesia (17).
A Firenze,
"la città nemica"
I dati anagrafici ricacciano anche Fortini nel "lungo viaggio
attraverso il fascismo", che nella Firenze degli anni Trenta
è particolarmente insidioso, irto di trabocchetti, velleitario
e insieme becero. Anche per l'assenza di veri maestri: "Non ebbi,
purtroppo, maestri, né al liceo né all'università
- ricorda Fortini. Non avevo un bagaglio di idee, ma un sentimento,
forse superficiale della serietà della vita e della storia,
una volontà di comunione e di oltranza, una tendenza a rifiutare
ogni sopraffazione e ogni ottimismo" (18). Naturalmente vivo,
l'odio per la rettorica patriottarda del fascismo, ma, al tempo stesso,
"quasi assoluta l'ignoranza per il mondo liberale prefascista",
largamente compensata, tuttavia, da una "grande, ingenua ammirazione
per il ribellismo delle avanguardie artistiche e ideologiche europee,
specie francesi, e lo sprezzo per le tendenze letterarie italiane
di allora, che interpretavo come estetismo pseudo-aristocratico"
(19). Di un suo "antifascismo dell'anima", parla Fortini,
cresciuto a ridosso del "generico attivismo" dei suoi coetanei:
"Datemi idee, idee, idee - replica ai rimbrotti di Ruggero Zangrandi
-; è il mio mestiere cercare di capirle [ ... ]. E soprattutto
non dimenticate che sono anche, per non dire soprattutto - oppure
diciamolo - un poeta. E come tale amo il sole e la chiarezza, anche
se ebreo" (20). Legge "poeti e teologi", una serie
sterminata, e ne discute con amici (pochi), tra i quali Giorgio Spini,
Valentino Bucchi, Giampiero Carocci; mentre intanto, animoso e non
sprovveduto sbarbatello, si avventura nella critica letteraria, con
"certi articoletti, considerati sovversivi, nei quali, con giovanile
pessimismo, riflettevo sulla sorte della nostra generazione, che si
affacciava nel mondo in mezzo alla guerra d'Etiopia e di Spagna"
(21).
Ma nei Littoriali di Palermo del maggio 1938, gli riconoscono "doti
di combattività", anche quando sostiene "argomenti
inaccettabili", e qui si rende conto di "come ogni nostro
atteggiamento anticonformista fosse spiato da agenti fascisti e insieme
da emissari dell'antifascismo".
Nasce così il disgusto per "la politica dei politici",
oltre che per "la letteratura dei letterati" (22). La sovversività
degli articoletti di critica letteraria non la si scopre nei contenuti,
ideologicamente ancora neutri, ma nei presupposti di un metodo d'indagine
ermeneutica, non allineato sul dominante tardorondismo ed ermetismo.
Per affinità elettiva, Fortini si muove nell'orbita dell'"eretico"
Giacomo Noventa, assertore di una letteratura di idee e di opposizione
polemica al presente. Gli articoletti appaiono per lo più sulla
Riforma letteraria, nata, nel 1934, dalla matrice rinnegata di Solaria.
Mentre viene scatenandosi sul vecchio continente "la mattanza
mondiale", quale altro effetto può suscitare sull'ebreo-valdese
Fortini il cenacolo chiassoso ed ascetico delle Giubbe Rosse, i cui
adepti avrebbe preso volentieri "a pugni", dirà dopo
ripensandoci, se non un rifiuto senza appello? E come non infastidirsi
della capitolarda turris eburnea dei frontespiziai, e insomma di tutto
l'ambiente artistico, "risibilmente elitario" della letteratura
come vita"? Gli ermetizzanti sono fuori del "tempo cronologico",
storicamente determinato, e navigano nel "tempo metafisico"
(23). Fortini re spinge, con Noventa, la presunzione dei letterati
di "costituirsi in casta", chiaro sintomo di una loro degenerazione,
che li condanna non solo ad una sterile "solitudine" ma
altresì ad una oggettiva "complicità col fascismo".
Piuttosto, il letterato "scriva o parli una lingua e non un gergo,
scriva o parli per un popolo e non soltanto per altri letterati",
ammoniva Noventa" (24).
E' un recupero della lezione gobettiana, l'abbandonata" o "tradita"
da "falsi" epigoni, e, con essa, in senso lato, della tradizione
migliore contro la irrazionalità e la sregolatezza del novecentismo,
dei vociani, degli ermetici e paraermetici, più interessati
alla "parola innamorata" che alla realtà concreta,
ai fantasmi di una immaginazione sontuosamente volteggiante che alla
rude rivendicazione dei "valori" (25). Da allora, ed ancor
più in seguito, Fortini sgombra il concetto di tradizione dai
pregiudizi che ne compromettono la validità: tradizione significa
"coscienza del passaggio dal passato al futuro, atto di quel
transito, fondazione del futuro attraverso una selezione della eredità"
(26). Su questa base teorica lo ritroveremo nel laboratorio della
bolognese Officina, tra il 1955 e il 1959, con una sua ben precisa
fisionomia (27).
L'ideale fortiniano, sin dalla stagione fiorentina, è di una
poesia "all'altezza della situazione", e a tal fine gli
sembrano più funzionali le allegorie che le analogie, gli "straniamenti
razionali" che le pulsioni emotive, la struttura discorsivo-comunicativa
che la disincantata evocatività lirica (28). La radice letteraria
dell'imminente congeniale incontro con Brecht risiede in questo ideale
di poesia. Rimprovera agli ermetici il crociano disdegno della "contaminazione"
di un'astratta essenza poetica, "filtrata da una malintesa filosofia,
con quanto d'impoetico, di moralistico, di pratico, di religioso è
nell'uomo"; disdegno che ha condotto ad l'una purezza che è
vuoto pneumatico". Ed invece, "tanto più avrà
vita una poesia quanto più, dialetticamente, sorga dalle sue
antitesi, ed esca fuori da un attrito che sia la confessione della
inscindibilità dell'uomo" (29). Sono idee che Fortini,
dopo la bufera, approfondirà sulle colonne del Politecnico,
per il rinnovamento della cultura italiana, come vedremo più
avanti (30).
La rivista di Noventa chiude i battenti nel 1939, che è anche
l'anno della poesia, La città nemica, con la quale Fortini
prende congedo, diremmo dantescamente, dal suo "bel San Giovanni",
con l'animo dell'esule, sul quale incombono altre responsabilità
ed altre traversie: "Quando ripeto le strade / che mi videro
confidente, / strade e mura della città nemica; ... Quando
nei volti vili della città nemica leggo la morte seconda, /
e tutto, anche ricordare, è invano; / e 'Tu chi sei?', mi dicono,
'Tutto è inutile sempre',/ ... Fossi allora così dentro
l'arca di sasso d'una tua chiesa, in silenzio, / e non soffrire questa
luce dura / dove cammino con un pugnale nel cuore" (31). Qualche
mese prima dell'entrata in guerra dell'Italia al fianco della Germania
nazista, Fortini annota per sé e per quelli della sua generazione,
degli anni difficili: "Vincere se stessi, morire a se stessi.
E' ancora la sola cosa che l'uomo possa fare" (32).
La poetica
della "presenza"
Su un'altra pagina autobiografica dobbiamo soffermarci per capire
lo scatto fortiniano del superamento dell'ermetismo, e del suo approdo
alla poetica della "presenza". L'evento decisivo, sul piano
della coscienza, fu "la scoperta, nelle caserme (a metà
del 1941: aveva ventiquattro anni), del soldato, cioè del contadino
e del proletario, e dell'ufficiale, cioè del borghese come
me, posti l'uno contro l'altro. Quasi da solo, senza più rapporti
con l'ambiente in cui ero cresciuto, giunsi, fra il 1941 e il 1943,
ad integrare, più che a mutare, il mondo dei miei sentimenti
e delle mie idee; e a decidermi di votarmi ad una trasformazione della
nostra società, sia con l'azione pratica sia con la parola
poetica e letteraria [ ... ]. La società che ci circonda dev'essere
rovesciata e trasformata, con ogni mezzo; la salvezza individuale
è il più abietto dei privilegi" (33).
Era, appunto, la salvezza individuale l'obiettivo primario della poetica
dell'assenza", o attraverso l'agnosticismo politico o attraverso
l'integrazione nelle maglie del sistema. D'ora in avanti, Fortini
non rifugge dall'eresia così ideologica come letteraria: "è
poeta sempre politico, nel senso migliore - ribadisce il suo critico
più acuto, Mengaldo - anche quando parla di alberi e di nidi"
(34). Di una politicità trascendentale, naturalmente, per fare
qui uso di una categoria critica di Luigi Russo. Tant'è che
il fiore della rosa viene da Fortini sottratto al frusto repertorio
romantico sentimentale, per assurgere a simbolo antitetico della rivoluzione
e, in definitiva, dell'ansia segreta di una palingenesi: "Dove
ricercheremo noi le corone di fiori / le musiche dei violini e le
fiaccole delle sere /... Ma il più distrutto destino è
libertà. / Odora eterna la rosa sepolta. / Dove splendeva la
nostra fedele letizia / altri ritroverà le corone di fiori"
(35).
Nel terribile scorcio dei primi anni Quaranta, poi, la "presenza"
di Fortini è anche materiale e si accampa discreta, in qualche
modo anche sfidante, nel turbinio della "mattanza mondiale":
dallo sconfinamento rischiosamente clandestino in terra elvetica,
per sfuggire alle rappresaglie razziali, al fortunoso rientro a Milano,
qualche mese prima dell'8 settembre; dalla partecipazione, se pure
marginale, al movimento della Resistenza, alla esperienza in vitro
della repubblica partigiana dell'Ossola. Di queste vicende Fortini
ha lasciato tracce importanti in due spezzoni memoriali: La guerra
a Milano e Sere in Valdossola (36), ma innanzitutto in Foglio di via.
Senza quella esperienza - scrive in Sere in Valdossola -"avrei
mancato di conoscere qualcosa di decisivo, avrei perduto uno strumento
di paragone che non mi lascerà, lo so bene, per succedersi
di anni... C'è qualcosa in noi che va oltre l'odio e la passione,
qualcosa che sembra semplice ed è invece difficile a portare.
E' l'ultima parola della nostra giovinezza ad un'ancora oscura maturità:
abbiamo imparato che la nostra vita e la nostra verità sono
la vita e la verità dei nostri fratelli". Per essere scrittore
di prose e di versi "all'altezza delle situazioni" - è
la conclusione di Fortini - bisognava tutt'un altro "modo di
pensare e di sentire", ossia "certificare di persona la
sincerità di parole spesso in quel tempo da me pronunciate"
(37).
Il testo poetico Valdossola: 16 ottobre 1944 traduce in un ritmo corale,
sospeso tra il singhiozzo e l'esultanza, quell'avventura che resta
unica nella storia della Resistenza, brutalmente cancellata dalla
incipiente politica di potenza: "Ces partisant me gênent
beaucoup" (38). La scansione anaforica ("E il tuo fucile
sopra l'erba del pascolo" ... ), che si alterna a tre sequenze
di versetti con appendice monodica, batte nella memoria storica e
insieme collettiva (39). Agli stessi memorandi giorni vissuti da Fortini
si ispira il Canto degli ultimi partigiani (1945), affine a certi
moduli del neorealismo, che però, nella macabra trascendenza
dei dati della cronaca, restano fissati in uno "scheletro emblematico"
(Mengaldo): "Sulla spalletta del ponte / le teste degli impiccati
/ nell'acqua della fonte / la bava degli impiccati / ... Mordere l'aria
mordere i sassi / la nostra carne non è più d'uomini
/ mordere l'aria mordere i sassi / il nostro cuore non è più
d'uomini" (40). E' l'epos perverso dell'homo homini lupus dell'età
della pietra e della fionda, ma comunque poesia a specchio forzoso
dei "grandi eventi collettivi".
Come Fortini scrive nella nota introduttiva del 1967, nella sua poesia
il salto di qualità e d'intensità conoscitiva si sprigionava
dalle cose: "Sarei contento che quei versi potessero ancora commuovere
o interessare. Ma altro merita attenzione: che vi si rifletta un'esperienza
di molti. Scrivere versi poteva allora essere per un giovane il normale
derivativo autobiografico. Prendere invece a deliberato soggetto la
relazione fra la propria individualità (o immaturità)
e grandi eventi collettivi voleva dire che qualcosa intendeva mutarsi
e già mutava nei modi tenuti dalle ultime generazioni letterarie
per esprimere quella relazione" (41). Si trattava prevalentemente
di una responsabilità etica, a fronte dell'ampiezza della "catastrofe
europea (che) non si sarebbe chiusa con gli armistizi"; responsabilità
fondata sulle radicali "verità di allora: quella di uomo
e di vita, opposta all'antiumano e alla morte", nello stesso
alveo vittoriano dell' "uomo" offeso, del mondo offeso (42).
Alla stessa area tematica della "notte" fosca, abbattutasi
sugli uomini, e dell'attesa dell'alba, universalmente sospirata, si
riconducono altri componimenti del quinquennio cruciale: ora librati
su toni popolareggianti ed ora arditamente tesi su slanci surrealistici,
tra Jahier e García Lorca, tra Noventa ed Éluard: A
un'operaia milanese ("Tu liberata porti la giustizia sicura /
che i vivi conosce e i morti"), Varsavia 1939 ("Noi non
crediamo più alle vostre parole / né a quelle che ci
furono care una volta / il nostro cuore l'ha roso la fame / il sangue
l'han bevuto le baionette"), Varsavia 1944 ("E dopo verranno
da te ancora una volta / a contarti a insegnarti a mentirti / e dopo
verranno uomini senza cuore / a urlare forte libertà e giustizia
/ Ma tu ricorda popolo ucciso mio / libertà è quella
che i santi scolpiscono sempre / per i deserti delle caverne in se
stessi / statua d'Adamo, faticosamente") Coro di deportati ("Quando
il ghiaccio striderà / dentro le rive verdi e romperanno /
... Noi saremo lontani / Vorremmo tornare e guardare / carezzare il
trifoglio dei prati / gli stipiti della casa nuova / piangere di pietà
/ dove passò nostra madre / invece saremo lontani") (43).
Violenza e perdono, abbrutimento e riscatto si alternano costantemente
in Foglio di via, mediante la reiterativa gamma semantica, che ora
allude ed ora denuncia, a volte esplode e altre volte si ripiega in
una meditazione religiosa. Una discesa nel regno delle ombre, è
parsa a Berardinelli la lirica che dà il titolo alla raccolta:
"constatazione definitivamente chiara di ciò che è
già avvenuto", nello accumularsi delle negazioni ("Dunque
nulla di nuovo... Dunque nessun cammino... Dunque fra poco senza parole
la bocca"); cui, poi, si contrappone l'impetuosa riemersione
della luce, in Vice veris ("Mai una primavera come questa / è
venuta nel mondo") e più gioiosamente in La gioia avvenire
("Potrebbe essere un fiume grandissimo / una cavalcata di scalpiti
un tumulto un furore / ... La scuola della gioia è piena di
pianto e sangue / ma anche di eternità / e dalle bocche sparite
dei santi / come le siepi del marzo brillano le verità")
(44).
L'esperienza
del '"Politecnico"
Al primo incontro con Elio Vittorini, avvenuto a Milano nell'agosto
del 1943, il latente "malor civile" di Fortini entra, a
dir così, in fibrillazione, pur nella diversità temperamentale
e culturale tra i due, dovuta non tanto allo scarto anagrafico quanto
alla differenza di percorsi esistenziali e formativi. All'interno
del Politecnico, più tollerante e incline al confronto, anche
aspro, è Vittorini, più intransigente e arroccato su
saldi principi dottrinari è Fortini. E' già rivelatore
in tal senso quel primo incontro: "Odo con qualche stupore Vittorini
difendere l'esperienza dei nostri letterati più alla moda.
Secondo me - risponde Vittorini - gli ermetici hanno espressa una
loro verità. Questa non è la nostra, d'accordo. Ma han
saputo fare poesia, qualche volta, e dobbiamo essere grati di quel
loro lavoro. D'altronde non potevano fare altrimenti".
E Fortini ribatte che le complicità degli intellettuali italiani
col fascismo sono state troppo gravi, "per poterle giustificare
con qualche poesia ben riuscita. Penso ai liberti che andavano cianciando
di sublimi vertigini surrealiste su per le riviste e per i quotidiani
della menzogna fascista" (45).
Ma l'argomento più a cuore ad entrambi era la creazione di
"una nuova rivista, appena finita la guerra, che pubblicasse
studi sui problemi sociali e una larga informazione su quella parte
della cultura europea, per tanti anni rimasta ignota in Italia".
Vittorini, uscito di prigione da pochi giorni, militava a tempo pieno
nel partito comunista, e Fortini, aprioristicamente, se ne garantisce
un'autonomia di atteggiamenti: "Non potrò mai credere
alla verità una volta per tutte; non so rinunciare alla mia
verità ed ai miei errori" (46); e, coerentemente, nei
suoi interventi di carattere teorico il rigore dell'analisi si coniuga
al taglio critico-problematico.
Ad apertura della rivista, com'è noto, Vittorini si decide
a dar fuoco alle polveri, col clamoroso editoriale: "Non più
una cultura che consoli nelle sofferenze, ma una cultura che protegga
dalle sofferenze, che le combatta e le elimini" (47). La "violenza"
passionale, con la quale venivano rilanciati i termini concettuali
di fondo, suscitò una sventagliata di reazioni da vari fronti:
idealista, cattolico, esistenzialista, pragmatista.
Fu Fortini ad assumersi l'onere di chiudere la polemica, e lo fece
senza nulla concedere ai troppi avversari, con l'articolo Cultura
come scelta necessaria. Vi si anticipano criteri di approccio e parametri
di giudizio che gli resteranno propri, e aperti a ulteriori verifiche.
Condivide con Vittorini che "occuparsi del pane e del lavoro
è ancora occuparsi dell'anima", ma si affretta a dirottare
la relativa responsabilità della "vecchia cultura"
consolatrice, sui corpi sociali e le classi in decadenza che l'avevano
ispirata e sostenuta.
L'approfondimento di Fortini del concetto di cultura si avvale di
categorie marxiane, per tagliar corto: "Nel parlare di cultura
si è visto quasi soltanto il suo aspetto di riflessione critica
e di vita intellettuale, secondo vuole l'idealismo; impallidito è
il significato più antico di educazione, di qualità
morale sottintesa alle qualità intellettuali; scompare la diffamata
parola civiltà. Eppure la questione è proprio questa:
è inutile ed impossibile parlar di cultura nuova, finché
con ciò intendiamo il corpo tradizionale delle scienze morali
e storiche. Per noi cultura è sinonimo di civiltà, la
disputa guadagna ad allargarsi, e civiltà è, per noi,
l'insieme dei modi nei quali, in un tempo e in un luogo, gli uomini
producono".
Va però precisato subito che il marxismo di Fortini, sin dal
tempo del Politecnico, è antidogmatico e interiormente screziato
di venature allotrie: "Noi - scrive - possiamo, certo, sbagliare;
ma la nausea di un mondo nel quale è impossibile esser puri
e la pena per l'improntitudine o l'imbecillità dei tanti che
la pensano come te, e di quella parte di te che la pensa come il volgo,
non è mai tanto forte da farci dimenticare quanto grande sia
la differenza fra le squisite solitudini bugiarde in cui fummo allevati,
e i deserti dove crebbero, per gli uomini, Gesù e Zaratustra"
(48). In altre parole, ed è il lineamento di spicco della personalità
intellettuale di Fortini saggista, moralista, polemista, il suo mentis
habitus è di una scepsi metodica, di una sfida costante ad
ogni minaccia di verticismo in politica e di autoritarismo in dottrina;
e proprio in funzione dell'abbattimento delle più subdole preclusioni
od esclusioni, perpetrate nella millenaria storia degli uomini. Scrive
ancora, nell'articolo citato: "Potenza della cultura [ ... ]
vuol dire che i mezzi di fare dell'uomo una persona invece che uno
schiavo e un tiranno siano nelle mani e nel cervello di coloro che
non sono né schiavi né tiranni ma persone; vuol dire
dare a questi gli strumenti per riconoscersi e, a tutti, gli strumenti
per riconoscerli" (49).
Se ne desume, coerentemente, una teoria della letteratura e dell'esercizio
della critica, complementare della "nuova cultura", quale
sinonimo di "nuova civiltà", a misura integrale d'uomo.
Ed ecco che Fortini non indulge alla mitologia mistificatoria della
"letteratura proletaria", che finisce per ripetere, con
le ovvie varianti, certa narrativa "borghese, condita di equivoci
sentimentalismi e di rettoriche"; essa confonde "documento"
ed "espressione artistica", operanti in differenti sfere
d'interesse conoscitivo e con differenti proiezioni di "verità"
(50). Altrettanto netto il rifiuto del "cosiddetto realismo socialista",
in auge, in quegli anni, non soltanto nell'Unione Sovietica: esso
- incalza Fortini - è in contrasto stridente con quei "medesimi
principi" di cui fanno professione di fede politica gli stessi
artisti che vi si adeguano (51).
La pittura (disegno, colore, ecc.) può essere usata - ed è
una incisiva chiarificazione di poetica, valida anche per l'attività
scrittoria -"sia come espressione di un modo di concepire il
mondo; sia invece come semplice comunicazione e suggerimento convenzionale
di certe forme" (52).
In linea con Vittorini e con Sartre sulla nozione dell'engagement
in generale, Fortini se ne discosta sul terreno della realizzazione.
L'autonomia specifica del discorso poetico non va subordinata ad una
"politica di classe"; ma piuttosto deve nutrire l'ambizione
di allargare, in virtù di un "nuovo linguaggio",
la cerchia di "più degni lettori", infrangendo l'antico
privilegio della fruizione della letteratura da parte di "minoranze
nobiliari ed ecclesiastiche, tanto più raffinata quanto più
si separava dalla lingua popolare; e di quella letteratura, la poesia
lirica ebbe forse la parte più conservatrice, tramandandola
come un linguaggio segreto, una lingua nobile e poetica, di secolo
in secolo, da Petrarca fino a D'Annunzio" (53).
L'inversione di tendenza comporta la realtà sociale di un pubblico
nuovo, cioè di "tutti coloro i quali vedono già
nella struttura del mondo attuale lo schema di quello futuro; di quelli
che già sono, fin da questa città, i cittadini della
città futura: il pubblico della speranza, insomma". A
questo punto, Fortini cede al nativo bisogno dell'utopia, sulle orme
di Éluard: "Si può ben desiderare e volere che
una più larga parte della nostra vita si avvicini alla poesia,
com'è per alcuni popoli nordici: che la poesia ci accompagni,
con la sua leggerezza, nella fatica di ogni giorno, e salga con noi
le scale dell'officina, con noi percorra i solchi del campo, cammini
col passo dell'uomo che cammina" (54). E' la "universalità"
bene intesa della poesia, come bonum publicum, che Fortini rintraccia
nei "classici"; in un Dante e in un Leopardi, ai quali dedica
due sue originali ricognizioni critiche (55).
Universalità che equivale a "vitalità" dell'opera
d'arte, la quale esige che "si rinnovi continuamente il rapporto
fra testo e lettore" e, con esso, la comprensione anche etica,
religiosa (quando occorra), ideale. Né basta la mediazione
filologica. Non si può leggere la Commedia - aggiunge - come
il turista visita la chiesa di Santa Croce, cioè limitandosi
a "contemplare gli affreschi senza voler credere né alla
religione delle tombe né alla religione degli altari".
Resterebbe allora "un geroglifico" (56). Lo stesso effetto,
anodino o, quanto meno, dimidiato produce la lettura del Poema sacro
in chiave riduttivamente "laica", di un Hegel, di un De
Sanctis, di un Auerbach, e di quant'altri ad essa si richiamano, perché
arbitrariamente rescindono il "non terrestre" dal "terrestre",
mentre tra essi esiste l'una compenetrazione, che però non
è mai fusione o identità"; ed anzi - l'affermazione
è forse meno paradossale di quanto possa parere - il cattolicesimo
di cui Dante è stato il poeta era quello di un realismo cristiano
prefigurante quello marxiano" (57).
La temperie ideologica della "lettura" fortiniana di Leopardi,
con particolare riferimento al Canto notturno di un pastore, è
la medesima in cui si è resa possibile la svolta anti-idealistica
della critica del poeta dei Canti, con i saggi di Cesare Luporini
e Walter Binni, del 1947. Fortini si serve della sua sensibilità
di poeta, non meno che dello specifico Zeitgeist: "Diciamo Petrarca
e intendiamo anche il petrarchismo; una psicologia e una melodia;
qualcosa delle riserve di De Sanctis e Croce; un difficile segreto.
Diciamo Foscolo, e vi sentiamo qualcosa di meno, un gesto e un pugnale;
Dante, e molto di più: il profeta, il teologo, il mostro vichiano.
Diciamo Leopardi e intendiamo il poeta. Non soltanto, o non appena,
la poesia [ ... ]. L'immagine che ne sorge [ ... ] non è legata
ad un testo piuttosto che ad un altro, ma ad un mito. Come sono i
miti di Baudelaire e di Hölderlin, di Rimbaud e di Rilke"
(58).
Fortini si sbarazza della recente formula della critica ermetica,
secondo cui "letteratura e vita convertuntur", per aprirsi
ad una esegesi più estensiva, che rimuova la "leggenda
di Recanati", e restituisca Leopardi a quell'umanità "profonda
che lo rende poeta grandissimo, al pari di Dante". Grandezza,
dunque, verificata dalla sua dimensione storica: "Questo fiore
della Restaurazione è la più pungente coscienza alla
quale sia giunta l'Italia post-tridentina" (59). Così,
nel Canto notturno, il dilemma della coscienza moderna, cioè
"la tragedia della derelizione è, almeno per ora, ma concretamente
e politicamente, superata"; perché, accanto al motivo
della disperazione, c'è "la dolcezza", la classicità
greca, il "miele attico" (60). Con una chiosa conclusiva,
infine, indiziariamente autobiografica: ossia che "prendere sul
serio i poeti" significa anzitutto "ricordare che la poesia,
essendo una espressione, è sempre il frutto di una scelta [
... ], di una disperazione d'amare [ ... ]; significa non tradire
quello che è stato, nelle loro biografie, il più ardente
loro desiderio: che, quanto essi non avevano saputo o potuto fare,
amare, sapere nella loro vita terrestre, si realizzasse (nella poesia)"
(61).
L'approccio ad uno dei massimi scrittori della "cosiddetta crisi
borghese", negli otto Capoversi su Kafka, nasce in sintonia con
le "origini rabbiniche, mistiche o esistenzialistiche" dell'ispirazione
dell'autore del Castello: "un artista, cioè un uomo che
sprime altro da quello che sembra dire" (62).
E Fortini, al tempo stesso, riscontra la "originalità"
tematica nella "peculiarità" della "scrittura"
kafkiana, che diventa "operazione poetica nel senso antico della
parola, cioè cerimoniale e magia": modi, i più
adatti, per non ripetere "altro che le antiche verità
dei santi, o, almeno, di tutte le religioni pessimistiche: -Passi
questa terra e venga il tuo regno" (63). Non senza tracce, infine,
nella kafkiana condanna dell'uomo moderno, di una "quasi illustrazione
di qualche passo della Ideologia tedesca", al punto che "ogni
dialettica che trascenda verso l'ottimismo è stroncata in anticipo,
o proiettata nel millennio, dopo la catastrofe finale". Allora,
reazionario lo scrittore boemo? Semmai, "Kafka e Leopardi, Dante
e Dostojewskj non sono né con noi, né contro di noi:
sono, evidentemente, con i migliori" (64).
Trascrizione
letteraria di una "coscienza inquieta" in Agonia di Natale
L'ultimo fascicolo del Politecnico contiene due scritti di Fortini
di forte spessore introspettivo, cui può essere ricondotta
- come a noi sembra - l'essenza della fiction di Agonia di Natale,
un romanzo (l'unico di Fortini) strutturalmente piuttosto singolare
e che di fatto chiude, definitivamente, la pur esaltante esperienza
fortiniana delPolitecnico (65). Gli scritti sono Rivoluzione e conversione
e Diario di un giovane borghese intellettuale: nell'uno, muovendo
dalla lettura di Teoria e prassi della psicologia individuale di Alfred
Adler, e non senza risentire del pensiero di Gramsci appena dissepolto,
Fortini chiarisce il rapporto fra "rivoluzione" e "conversione"
con spregiudicatezza "protestante". Intendendo la parola
conversione - argomenta - "nel tradizionale senso cristiano di
mutamento della mente, di metànoia", c'è da chiedersi
se "alla formula non dialettica di una conversione tutta mentale
e definitiva possiamo sostituire quella di una conversione attiva,
continuamente riproposta e continuamente verificata nell'azione".
Oltre Freud, Fortini non solo non cede al "giuoco degli specchi"
della coscienza, di cui si compiace certa letteratura psicoanalitica,
ma in primo luogo tende a sciogliere la contraddizione di fondo del
marxismo scolastico, con la "formulazione di un pensiero etico
nel quale trovi posto, con la morte della volontà di potenza,
anche la vecchia, dimenticata virtù dell'umiltà, la
porta stretta di tutte le conversioni" (66). Il Diario, come
del resto altre pagine memoriali di Fortini, rispecchia l'inquietudine
di una Il coscienza infelice", dell'intellettuale che non riesce
a liberarsi della tara di classe, di una condizione storica di privilegio.
E in un passo annota che, nel leggere la Storia del regno di Napoli
del Croce, ha avvertito d'istinto "un moto di sufficienza"
per l'assenza, in essa, di riferimenti alla "condizione contadina",
sacrificata alle sue (di Croce) "difese della storia etico-politica".
Non si nasconde però, e se ne cruccia, che per il riscatto
umano e sociale di moltitudini immense, ben poco giova la sua (di
Fortini) cultura borghese, la stessa lingua adoperata per esibirla
e magari comunicarla, la sua poesia, infine, figlia di quella cultura.
E' il cruccio medesimo di Benjamin: "Il patrimonio culturale
deve la propria esistenza non solo alla fatica dei grandi geni che
lo hanno creato, ma anche alla schiavitù senza nome dei loro
contemporanei. Non è mai documento di cultura senza essere,
nello stesso tempo, documento di barbarie" (Tesi di filosofia
della storia, 7).
E' un'alterità, si direbbe irredimibile, che colpisce ed umilia
la coscienza cristiana di Fortini. Entrando in una fabbrica, osserva:
"Quando passi attraverso certi reparti dove i vapori chimici
e la polvere delle mole ammazzano lentamente diecine di uomini, costoro
non ti guardano con odio e neppure con curiosità: accettano.
E' inutile che tu dica a te stesso quale enorme progresso hanno compiuto
questi operai e queste donne rispetto ai loro nonni e bisnonni di
cento anni fa: resta che tu esisti e tutta la tua classe esiste sulla
inumanità loro. Resta che per tutta la vita, i tuoi ozi, i
tuoi pensieri, le tue letture, le poesie che scrivi e quelle che non
scrivi [ ... ] e i vagabondaggi nelle biblioteche si reggono sulla
sottoumanità di una maggioranza, sia essa composta di questi
operai o dei braccianti pugliesi".
L'aculeo del rimorso è attenuato non disacerbato da "una
fede nel riscatto sociale che è della medesima natura di quella
individuale, della quale (è scritto) l'uomo giusto vivrà".
Fortini chiude poi il suo Diario con una affermazione teoricamente
ineccepibile quanto emotivamente suggestiva per l'insolita audacia
della sutura: "Il paradosso cristiano (agisci come se tu dovessi
morire domani) si ripete nel profondo paradosso marxista (agisci come
se tu morissi ad ogni istante, come se tu dovessi dimenticare immediatamente
il tuo passato" (67).
La singolare struttura narrativa di Agonia di Natale costituisce di
per sé un'eresia letteraria, in quegli anni di indiscusso e
subito predominio degli schemi neorealistici. Il racconto si snoda
e si riavviluppa, rapsodicamente, su due piani, persino graficamente
differenziati, che fra loro interferiscono, meno per integrarsi che
per contrapporsi: il piano della soggettività, nevrotizzata
dalle traversie della guerra e della prigionia del protagonista, Giovanni
Penna, che si scopre addosso una malattia "repellente";
e l'altro della materiale realtà circostante, che conserva
i segni della "bufera" appena trascorsa, cumuli di macerie,
sensazione diffusa di disfacimento fisico, squassante desolazione
morale. A mediare tra i due piani è la coscienza smarrita e
lacerata del protagonista, impotente a ricucire lo strappo immane,
provocato dagli eventi nel blocco della sua esistenza.
Il medico lo scongiura di fare il passo del matrimonio, con la giovane
infermiera, che gli era stata vicina con premurosa tenerezza nel periodo
della prigionia. La malattia è dunque il marchio di una "colpa",
individuale o collettiva, familiare o ancestrale? Non c'è alternativa
al destino che implacabilmente lo attende, di una inacidita e inutile
solitudine. La risarcirebbe, forse, la voce del perdono, la tenacia
dell'oblio, la solidarietà spontanea di tutti i diseredati,
la simpatia umana di altri infelici; ma Giovanni è troppo corroso
nei suoi stessi organi di senso, perché possa nutrire fiducia
negli altri e per gli altri.
La "malattia" di Giovanni aleggia sul racconto come la ubris
greca, la Angst di Kierkegaard, il "sottosuolo" di Dostojewskj,
l'"incubo" di Kafka. E' insomma l'ipostasi del "marcio"
che si annida nella natura dell'individuo e del quale si fa carico,
allegoricamente, la sorte di Giovanni Penna: "Non è la
morte che mi spaventa - delira lucido fra sé e sé -
ma la corruzione. E se in me c'è colpa, io voglio poterla espiare,
voglio poter pagare per essa; e poi risvegliarmi. E se la colpa è
stata dei miei genitori o degli altri, della gente che cammina per
le vie, io voglio saperlo, perché non sia più. Perché,
se mi sta afferrando per le braccia, come si fa ora; e si cerca di
farmi sprofondare, e una di quelle mani è già sulla
bocca e un'altra sugli occhi; mentre discendo, mentre mi fanno sprofondare
impotente, voglio almeno morderle a sangue, le mani che mi soffocano.
E mi dibatterò sulle ginocchia finché siano costretti
ad abbattermi con un colpo di bastone sulla nuca" (68).
Con questo testo fortiniano, siamo in presenza della decifrazione
di una resa generazionale, o del presentimento di una sconfitta della
volontà, generale, irreparabile? Con la donna, che comunque
si azzarda di raggiungere nel suo paese nativo, in ricorrenza delle
festività natalizie, l'uomo consuma l'estremo autoinganno,
ma le due vite restano divaricate per sempre (69).
Ma forse il segreto per una non improbabile "novella istoria"
risiede nella "salute", sia pure una "bizzarra salute",
del mondo dei reietti, di quanti vivono stipati nei quartieri più
poveri delle città, e la cui "testarda allegria"
compensa il "peccato d'orgoglio" dei vari Giovanni Penna:
'Torse un giorno - pronostica il dottor Milone, che vive tra i miserabili
e per i miserabili - senza che nemmeno lo presentiamo, i più
malati, e più decrepiti fra noi, sentiranno un sangue nuovo
come il latte correre nelle vene e la malattia lasciarli per sempre,
il velo cadere dagli occhi e il mondo tornare limpido e fresco"
(70).
Ha ragione Raboni a definire questo romanzo di Fortini "un libro
politico", "una sorta di allegoria mistica della fine della
borghesia e della rivoluzione intesa alla lettera, come resurrezione
della carne" (71).
NOTE
1) V. Carini, Franco Fortini, "Belfagor", a. XXXII, n. 3,
31 maggio 1977, p. 281.
2) P. Éluard, La poesia non è sacra, "Il Politecnico",
n. 29, 1 maggio 1946, p. 38. Il poeta francese è, con Flaubert
e Ramuz, tra i primi autori tradotti da Fortini: Poesia ininterrotta,
Torino 1947; sì leggano anche le pagine dedicate a lui nella
pionieristica antologia fortiniana, Il Movimento Surrealista, Milano
1959.
3) P. V. Mengaldo, La tradizione del Novecento. Da D'Annunzio a Montale,
Milano 1975, p. 393.
4) F. Fortini, Ai suoi cari nemici, "Il Quotidiano", 3 dicembre
1994. D'ora innanzi i testi fortiniani verranno indicati senza il
nome dell'autore. A chiarimento del sarcastico ossimoro, l'ultimo
della sua vita, giova questo passo di un articolo di Giovanni Raboni:
"Ci vuole molto coraggio per ammettere che in tutti questi decenni
Fortini abbia avuto, per lo più, ragione; ma dovremo pur trovarlo,
questo coraggio, se non vogliamo rassegnarci alla catastrofe etica
nella quale siamo precipitati con la complicità del nostro
buon carattere e del nostro buon umore" (Coccodrilli al veleno
"Corriere della Sera", 4 dicembre 1994). Al Raboni si deve
il bel profilo su Fortini, per i marzoratiani Contemporanei, V, Milano
1974, pp. 959-80.
5) Il testo è confluito in Foglio di via, Torino 1946, nuova
ed. riveduta con una nota dell'autore, ivi, 1967, cui, qui, ci richiameremo
(p. 50).
6) I cani del Sinai, Torino 1979, II ed., p. 43 sg.
7) Insistenze, Milano 1985, pp. 153-55.
8) Poesia ed errore, Milano 1969.
9) La raccolta comprende versi composti fra il 1938 e il 1945, che
Einaudi pubblica su proposta di Vittorini, in omaggio al padre, Dino
Lattes, "con riconoscenza ed affetto". Alcuni dei testi
di Foglio di via ricompaiono in altre raccolte posteriori, sino all'ultima,
controllata da Fortini, Versi scelti 1939-1989, Torino 1990.
10) Neve e faine, 1949, in Versi scelti cit. p. 52.
11) Poesia e antagonismo, in Questioni di frontiera, Torino 1977,
pp. 142-150. E' nota l'aspra polemica Fortini-Asor Rosa, nel merito
di questa concezione della poesia: cfr. A. Asor Rosa, L'uomo, il poeta,
in "Angelus novus" n. 5-6, 1965, ora nel volume Intellettuali
e classe operaia, Firenze 1973, pp. 231-271.
12) La poesia è libertà, "Il Politecnico",
nn. 8 e 9, 17 e 24 novembre 1945; il passo cit. è a p. 2 della
prima puntata.
13) F. Fortini-P. Jachia, Leggere e scrivere, Firenze 1993.
14) ivi, p. 96.
15) Parabola, in Una facile allegoria, Milano 1954, p. 25, poi in
Versi scelti cit. p. 73.
16) La gronda, in Una volta per sempre, Milano 1963, poi in Versi
scelti cit. p. 139.
17) R. Luperini, Il Novecento, Torino 1981, p. 706 e A. Berardinelli,
Fortini, Firenze 1973, che, pur diversamente interpretando il testo,
ne rilevano la compenetrazione di "realismo e allegoria"
(pp. 100-102).
18) La generazione degli anni difficili, a c. di E. A. Albertoni,
E. Antonini, R. Palmieri, Bari 1962, p. 146.
19) ibidem.
20) La lettera, del 13 marzo 1938, è riportata in R. Zangrandi,
Il lungo viaggio attraverso il fascismo, Milano 1971, p. 146 sgg.
21) Un viaggio non finito, "Avanti!", 13 gennaio 1948, ritrascritto
da Zangrandi nel cit. Lungo viaggio, p. 468.
22) ivi, p. 471. Cfr. anche G. Lazzari, I Littoriali della cultura
e dell'arte, Napoli 1979, p. 40 e specialmente il cap. "I Littoriali
occasione di antifascismo", pp. 81 -111.
23) Secondo la felice distinzione adottata da Fortini nella sua analisi
dei poeti degli anni Trenta, in Poesie italiane di questi anni, "Il
Menabò" n. 2, 1959, ora in Saggi italiani, Bari 1974,
pp. 96-97. Sul giudizio fortiniano interverrà poi la categoria
critica dell'"esistenzialismo storico": cfr. La poesia del
Novecento, in Aa. Vv., Letteratura italiana. Storia e testi, vol.
IX, tomo secondo, Bari 1976.
24) G. Noventa, Dal programma della "Riforma letteraria",
in Nulla di nuovo e altri scritti 1934-1939, a e. di F. Manfriani,
Venezia 1987, p. 281.
25) Idem, I calzoni di Beethoven, "La Riforma letteraria",
settembre-dicembre 1937, ora nel cit. Nulla di nuovo. Sul complesso
rapporto Fortini-Noventa ha insistito R. Luperini, op. cit. pp. 701
sgg.
26) Non solo oggi, a c. di P. Jachia, Roma 1991, p. 279: una tradizione
o, se si vuole, un classicismo da "nuova frontiera", attraversato
da Marx e Sartre, da Gramsci e Lukàcs, da Goldmann e Benjamin,
da Brecht e Adorno: le "1etture capitali del decennio 1946-1956"
(Leggere e scrivere cit. p. 62). Sull'amico della sua giovinezza fiorentina,
Fortini è tornato in Noventa e la poesia (1956), Noventa politico
(1970), ora in Saggi italiani cit. e infine Note su Giacomo Noventa,
Venezia 1986.
27) Cfr. G. C. Ferretti, "Officina", Torino 1975 e il vol.
Franco Fortini attraverso Pasolini, Torino 1993.
28) Monologo della pazienza, "La Riforma letteraria", novembre-dicembre
1938.
29) Solitudine di Ungaretti, Solitudine di Quasimodo, ivi, aprile
1939. Più sfumate le riserve mosse al poeta degli Ossi di seppia,
in Nota su Montale, ivi, giugno 1939. Conclude in proposito L. Mangoni:
"I suoi articoli su Michelstaedter, Ungaretti, Quasimodo, Montale,
che non casualmente spesso intitolava Solitudini di .... si ponevano
all'inizio di un'analisi delle ragioni dell'isolamento degli intellettuali
italiani, che sarebbe proseguita con ben altro respiro e diversi presupposti
ideologici negli anni seguenti (L'interventismo della cultura, Bari,
1974, p. 329).
30) Sul rapporto Fortini-Montale assai acute le osservazioni di R.
Luperini (a c. di), Le lettere antagoniste: 1951-52, "Belfagor",
a. XXXVII, n. 6, 30 novembre 1982, pp. 685-699.
31) La città nemica (1939), in Foglio di via, p. 17.
32) Catena e corona, "Incontro", 25 luglio 1940, in S. Ramat,
L'ermetismo, Firenze 1969, p. 299 sg. Al componimento Di Palestrina,
posteriore di due anni, Fortini affida il suo petit testament: "Finché
duri il mio giorno/anima mia contesa/ti resterò fedele"
(in Foglio di via, p. 41).
33) La generazione degli anni difficili, cít., p. 146 sgg.
34) P. V. Mengaldo (a c. di), Poeti italiani del Novecento, Milano
1978, p. 831.
35) La rosa sepolta (1944), in Foglio di via, p. 49. Ancora nel 1962,
Fortini ritornerà sul simbolo della rosa, col bellissimo poemetto
"La poesia delle rose", in Versi scelti cit. pp. 159-165:
"le rose, si sa, sono fatte per nascondere gli abissi e nel medesimo
tempo per indicarli" (Leggere e scrivere, cit. p. 62). Cfr. A.
Asor Rosa, nel vol. coll. Poesia oggi, Milano, 1986, pp. 120-121.
36) Pubblicati più tardi in un unico volume, col titolo del
secondo spezzone, Sere in Valdossola, Milano 1963.
37) ivi, pp. 16-24. Sui giorni della repubblica autonoma dell'Ossola,
si rimanda a R. Battaglia, Storia della Resistenza italiana, Torino
1964, pp. 408-410 e al recentissimo fondamentale C. Pavone, Una guerra
civile. Saggio storico sulla moralità della Resistenza, Torino
1994, n. ed. pp. 466-467 e passim.
38) R. Battaglia, op. cit., p. 410: è la frase del generale
Alexander.
39) Valdossola (1944), in Foglio di via, p. 28.
40) Canto degli ultimi partigiani, ivi, p. 32.
41) Nota introduttiva alla nuova ed. del 1967 di Foglio di via, p.
5.
42) ivi, p. 9 sgg.
43) I testi citati, composti in piena "mattanza mondiale",
tra il 1942 e il 1944, sono entrati nella raccolta Foglio di via;
ne ha operato un'attenta ricognizione linguistica P. Sabbatino, La
poesia dell'attesa. Fortini esibisce il "Foglio di via",
"Otto/Novecento", a. VI, n. 2, 1982 pp. 69-93.
44) ivi, pp. 47 e 65. Cfr. A. Berardinelli, op. cit. p. 22. L'ultimo
intervento di Fortini su quegli anni e sulla relativa personale esperienza
è la lezione-saggio, Letteratura e Resistenza, nel vol. coll.
Conoscere la Resistenza, Milano 1994, pp. 129-141 (con bibliografia).
45) La guerra a Milano, in Sere in Valdossola, cit. pp. 136-140. Ma
già nel 1942 era intercorso un rapporto epistolare tra i due,
con la richiesta di Fortini di collaborare alla collezione vittoriniana
"Corona", edita da Bompiani, con la traduzione della Vie
de Charles XII di Voltaire.
46) ivi, pp . 137-38. Sulla non infrequente "posizione dell'aut
aut" di Fortini, nei dibattiti della rivista, v. Lettera del
27 ottobre 1947 di Elio Vittorini, in Gli anni del "Politecnico",
a c. di C. Minoia, Torino 1977, p. 139.
47) "Il Politecnico", n. 1, 29 settembre 1945, p. 1. Utile,
ma per la nostra analisi insufficiente, è l'antologia "Il
Politecnico", a c. di M. Forti e S. Pautasso, Milano 1975. La
più documentata monografia sulla rivista, a tutt'oggi, si deve
a M. Zancan, Il progetto "Politecnico". Cronaca e struttura
di una rivista, Venezia 1984.
48) Chiusura di una polemica, ivi, n. 17, 19 gennaio 1946, p. 1. La
concordia discors tra il fondatore della rivista e il suo più
agguerrito collaboratore è stata troppo enfatizzata da M. Tancredi,
Il "Politecnico" di Fortini, in "Ideologie", n.
7, 1969, pp. 17-30. E' da leggere a riguardo Per un mancato editoriale
del "Politecnico" (1945), in "Studi novecenteschi",
a. II, n. 5, luglio 1973, poi in Questioni di frontiera, cit. pp.
237-244.
49) Le sottolineature sono nel testo fortiniano. Sulla polemica, sollevata
dall'editoriale vittoriniano del primo n., Fortini è ritornato,
riepilogando e ridiscutendo le varie opinioni, nel lungo saggio Che
cosa è stato il "Politecnico" (1953), in Dieci inverni,
Bari 1973, pp. 59-79; il merito della rivista - scrive - "che
nessuna critica può contestare" consiste nel fatto che
"i principali problemi di oggi sono quelli che il "Politecnico"
ha posto e, per primo, descritto in forma generale" (p. 78).
50) Documenti e racconti, "Il Politecnico", n. 28, 6 aprile
1946, p. 3.
51) Che cosa è un quadro, ivi, n. 22, 23 febbraio 1946, p.
4 e n. 28, 6 aprile 1946, p. 3; qui, come in altri articoli, Fortini
si cela dietro lo pseudonimo del biblico Giona. Riprenderà
questo argomento, assai spigoloso, con un taglio più articolato
e dottamente più sostenuto, nelle risposte ad una inchiesta
promossa da "Nuovi Argomenti" (1952), poi, col titolo Quale
Arte? Quale comunismo?, in Dieci inverni, cit., pp. 135-149.
52) Che cosa è un quadro, "Il Politecnico", n. 22,
23 febbraio 1946, p. 4.
53) La poesia è libertà (La poesia anche fatto di classe),
ivi, n. 8, 17 novembre 1945, p. 2.
54) La poesia è libertà (Per più degni lettori),
ivi, n. 9, 24 novembre 1945, p. 2.
55) Come leggere i classici (A proposito delle Rime di Dante), ivi,
n. 31-32, luglio-agosto 1946, pp. 54-58 e La Leggenda dì Recanati,
ivi, n. 33-34, settembre-dicembre 1946, pp. 34-38, con l'appendice
polemica Prendere sul serio i poeti? (Risposta a Geno Pampaloni),
ivi, n. 38, novembre 1947, pp. 2 sgg. e 32; per il primo articolo,
l'occasione è data dalla edizione einaudiana di S. Contini.
56) Come leggere i classici, ivi, n. 31-32, cit. p. 58.
57) Leggere e scrivere, cit. p. 93.
58) La Leggenda di Recanati, n. cit. p. 34.
59) ivi, p. 36.
60) ivi, p. 38.
61) Prendere sul serio i poeti?, n. cit.
62) Capoversi su Kafka, ivi, n. 37, ottobre 1947, p. 16.
63) ivi, p. 17.
64)ivi, p. 18. Assai più varia nei temi è la collaborazione
di Fortini al "Politecnico" di quanto non emerga, per ovvii
motivi, dal nostro lavoro; con suoi testi poetici, traduzioni (da
Chretien de Troyes, Louis Aragon, Soyfer Yura, Rimbaud, Frenaud ),
recensioni di ampio respiro, interviste (a Éluard, a Sartre,
a De Beauvoir), note introduttive, un magistrale profilo di storia
del cristianesimo (Cristo in mezzo agli uomini, ivi, n. 13-14, 22-29
dicembre 1945, p. 7).
65) Previa approvazione di Vittorini, il romanzo fu pubblicato da
Einaudi nel 1948, e successivamente, nel 1972, col titolo originariamente
voluto dall'autore, Giovanni e le mani; ma la stesura risale agli
anni del "Politecnico", inverno 1946.
66) Rivoluzione e conversione, "Il Politecnico", n. 39,
dicembre 1947, pp. 23-24.
67) Diario di un giovane borghese intellettuale, ibidem, pp. 9-10.
Sul problema della lingua "poetica", ricordiamo, almeno,
la tenace polemica con Pasolini, per il quale, cogliendo la "contraddizione"
del suo interlocutore, il taglio con la "lingua borghese"
doveva essere irreversibile. Fortini, a sua volta, replica che di
quella lingua "mortua" non si poteva più fare a meno,
pur soffrendone la micidiale ambiguità: "Più morta
di un inno sacro / la sublime lingua borghese è la mia lingua"
(Diario linguistico, 1965, in Versi scelti, cit. p. 327; ma vd. anche
Franco Fortini attraverso Pasolini, cit. pp. 37-38.
68) Agonia di Natale, Torino, 1948, p. 105.
69) Nella lirica Di Natale (1943), in Foglio di via, p. 381, Fortini
sembra quasi voglia fermare il goethiano "attimo fuggente":
"Dai tuoi vetri la neve riposa sui monti, / tintinnano al cuore
quieto campanelli di slitte / Caldo al sole nella lana il tuo seno
bambino / senza amore riposa. Dunque fu facile, dimmi, / tornare là,
dove al mondo eravamo soli, dove / posano bianchi i campi di giovinezza?".
70) Agonia, cit. p. 133.
71) G. Raboni, Contemporanei cit. p. 963.