§ SALENTINI D'EUROPA

IPOTESI PER VITTORIO PAGANO




Mario Marti



Fortunatamente, e anche finalmente direi, il terzo lato del triangolo poetico novecentesco nazional-salentino in lingua va prendendo corpo e spessore: agli studi, numerosi ed eccellenti, su Comi e su Bodini, già collocati dagli eventi culturali in certe loro ormai storiche nicchie, si vanno affiancando indagini, analisi, testimonianze su Vittorio Pagano. E' stato ed è tuttora difficile (anche prevedibile che lo sarà in futuro; ma solo per un pezzo, si spera) ottenere che l'attenzione della cultura letteraria nazionale, di quella cioè che in pratica più conta, converga sulla produzione poetica originale di lui, oltre che sulla traduttoria, e ne segni l'acquisizione alla nostra comune storia della letteratura; il che - tutto sommato - gli spetterebbe di diritto, se fosse davvero operante, come si dice e come dovrebbe, quella dialettica tra regione e nazione, che viene mortificata invece, le più volte, in eventualità fortunosa, oppure degradata ad occasione personale, in una provincia "lontana" come la salentina. Il tempo può rendere giustizia solo a chi sopravvive, ammesso che cancelli fatalmente, come si dice, la memoria dei facili prevaricatori.
E Pagano visse sempre e solo in provincia, sistematicamente, s'intende; anche se, e specialmente durante l'operazione relativa all'inserto letterario del Critone, ebbe la possibilità di intrecciare solide relazioni personali e di tessere fitte tele d'interessi comuni con poeti, letterati, scrittori e studiosi d'altissimo rango, per gran parte appartenenti alla sua stessa ideologia della letteratura, o allo stesso cerchio d'interessi culturali. Nonostante tutto questo, l'emarginazione della provincia, e di una provincia - giova ripetere - così periferica e così isolata (ancor di più fino a qualche decennio fa), ha pesato molto su di lui, e certamente sta pesando ancora.
Manca ancora, infatti, un Vittorio Pagano a tutto tondo, mi pare; e non tanto come isolato e parziale documento di proprie virtù, quanto come personaggio colto nel vivo dell'avventura letteraria collettiva in un continuo giuoco di dare e di avere. Così il poeta, così il traduttore; anzi, sarebbe certamente meglio dire: così il poeta-traduttore, come il traduttore-poeta; tanto Pagano a me suona - ed è "impressione" mia, lo confesso, tutta privata e personale -traduttore anche quando crea, e magari poeta autentico quando invece traduce. Sarebbero forse da verificare e da studiare, queste unitarie vibrazioni esterne-interne, di poesia e traduzione, che si assommano negli effetti di una tecnica, espressiva e metrica, sempre riaccesa e rinfocolata da un continuo e, per certa misura, istintivo revival di un metempirico dizionario automaticamente custodito, per fenomeno di straordinaria compartecipazione storica, nei meandri più remoti e segreti della memoria.
Non che raro e difficile sia imbattersi in pagine acute e lucide sull'operare poietico di Vittorio Pagano, a cominciare da quelle, assai considerevoli, che per lui ha scritto Donato Valli nei suoi Cento anni di vita letteraria nel Salento (1860-1960) (Lecce, 1985, pp. 208-215), calandone la vocazione letteraria nel vivo della analoga cultura coeva di un Salento per nulla geografico, con le oggettive rilevazioni di una specifica "musicalità" (tutt'altro che edonistica e superficiale); e di una singolare capacità ipostatica di tipo ermetico; e ancora con la definizione della sua posizione storica come "un fenomeno di reincarnazione ludica", che mi par intuizione straordinariamente acuta e vera, al centro del bersaglio.
E poi benvenuto fu il numero speciale a Vittorio Pagano dedicato dal "Pensionante dei Saraceni" (II, 1, nov. '85-giugno '86), àuspice il sempre caro e rimpianto Antonio Verri: ad un gruppo di testimonianze ispirate piuttosto alla rievocazione d'affettuose memorie personali, o comunque alla occasione celebrativa o a un sia pur apprezzabile tentativo di agiografia anche se criticamente ragionata (che Verri tentò, per altro e per quanto si sa, di contrastare vigorosamente), fanno riscontro in esso interventi utili invece a una più rigorosa interpretazione. Quello, per esempio, di Ennio Bonea sul Pagano traduttore; o l'altro di Franco Latino, volto a una valutazione implicante insieme proposte di carattere formale, o psicologico, o storico-culturale; o di Luciano De Rosa, solido di certe complesse, ma indispensabili aperture problematiche; unitamente a qualche squarcio di scaltrita critica (Prete), o stimolante e commosso (Bigongiari); e via dicendo. E dopo il numero speciale del "Pensionante", le belle pagine di Michele Tondo (Proposta di lettura dei "Privilegi del povero" di Vittorio Pagano, in "Misure critiche", 1990, pp. 55-77), nate da quella sua metodica capacità di toccare il cuore del problema anche attraverso l'analisi delle vicende interiori (una fondamentale condizione ossimorica e senza storia); e ad esse hanno fatto seguito le preziose e interessanti integrazioni di Gino Pisanò, soprattutto sui rapporti di Pagano con l'ambiente fiorentino ermetico e paraermetico, e con Giorgio Caproni, nel suo libro Il sodalizio Betocchi-Comi e altro Novecento (Galatina, 1996). Sono vantaggiose notazioni, le une e le altre, che illuminano taluni aspetti della personalità e dell'attività di Vittorio Pagano finora solo rapidamente intravisti o ipotizzati (la sua condizione e la sua volontà dell'esistere letterario), e hanno contribuito in modo determinante alla più rotonda conoscenza del personaggio.
Ed ecco ancora aggiungersi, nei tempi più recenti, il vivace e fresco narrativo di Rina Durante, nel suo libro Gli amorosi sensi, nelle cartelle seccamente e nudamente intitolate, con sapore ben significativo, Vittorio, semplicemente (Lecce, 1996, pp. 5-54; è il primo dei pezzi inseriti). Direi che nel narrativo della Durante il protagonista Vittorio risulta - e almeno questa è la mia impressione - in qualche modo ridimensionato, attraverso la realistica e schietta cronaca di una sincera amicizia, e dunque attraverso tante notazioni minime e minute, che ci riconducono alla più abituale e disarmata quotidianità personale di lui, fatta anche di ubbie un po' singolari, di innocenti piccole manie, di bizzarrie tenaci, di esplosioni irrefrenabili, e soprattutto di gusto e volontà del contrario (il richiamo forte dell'anticonformismo e dell'anticonvenzionalismo come cosciente e pretesa affermazione di personalità).
Un "maledettismo", dunque, in qualche modo socializzato e casalingo.
Forse per Pagano occorrerebbe battere soprattutto la strada, faticosa ma sicura e proficua particolarmente nel suo caso, dell'esame linguistico, stilistico e specialmente metricologico; una strada che mi sarebbe piaciuto battere palmo palmo fino in fondo, se non risultasse impraticabile ormai alla mia età; ma appare, o dovrebbe apparire, assai invitante e stuzzichevole a un giovane studioso appassionato di questi problemi e magari esperto di computer e di tecnologia applicata alla letteratura. Un rapido sondaggio da me effettuato su I privilegi del povero ha rivelato tanto indispensabile quanto fruttuoso, un esame siffatto; tanto più se venisse integrato con l'analisi critica della tecnica versificatoria. Per esempio: la persistenza di forme metriche chiuse, tradizionali. Ci sono - lo credo bene - anche in Corni, sia pure in più limitata quantità e varietà. Ma in Corni sono proprio esse la geometrica esattezza di una visione del mondo sciolta in armonia e in solarità (per la loro parte, naturalmente); e anzi certe improvvise dissonanze, quando si verificano, sono davvero allarmanti, e probabilmente denunciano uno scarto tutto interiore, magari un'urgenza di problemi solo apparentemente risolti.
In Pagano, invece, esse costituiscono un idoneo e congruo rifugio proprio nei confronti di un mondo che si vede crollare; una impavida resistenza al suo irreversibile e dissennato franare; una ragione di esistenza e di vita insomma soggettiva di fronte a un presunto, macabro, sofferto "rantolo" delle cose. Il revival metrico della tradizione classica italiana ed europea (sonetti, canzoni regolari e regolate, ballate, madrigali, sestine, ottave, terzine dantesche, strofe pentastiche abilmente e liberamente manovrate, ecc.; e le rime, le rime; quante e di che tipo) assume valore liberatorio e funzione soteriologica, poggiandosi anche sul più discreto e accorto livello linguisticamente culto, con il dissimulato compiacimento di una lieve patina d'arcaico; la letteratura diventa veramente e radicalmente, e dunque sostanzialmente, ragione di vita nella realtà del suo farsi quotidiano; e la ricerca della tecnica difficile si risolve in una sorta di rigorosa autofustigazione, in un impegno irrefutabile per acquisire coscienza intera, concreta consapevolezza dell'esistenza propria, e le forme finiscono per identificarsi col più solido sostegno interiore, anzi con l'unico vero, in un mondo e tragicamente ridicolo, quando non fiorisca l'amore o non distrugga la morte.
Di qui l'impasto di sapore asprigno tra arcaicità o tradizione recuperata ed archetipica, e modernità fluida, inarrestabile, ambigua, allusiva. Non può essere senza significato, ad esempio, che due liriche siano composte entrambe nientedimeno con strofe pentastiche d'endecasillabi: quattro di questi (i primi due e gli ultimi due) sono legati da rime alternate, ma divisi a due a due dal verso centrale (il terzo), irrelato nella strofa, ma ripreso poi e legato in rima dal primo verso della strofa successiva; e così via di seguito.
E che queste due liriche poi siano dedicate rispettivamente l'una a Fra' Jacopone e l'altra a Frate Francesco (p. 41 e p. 73 di Trobar concluso), con un chiaro segnale dunque per intenderne bene il contenuto e valutarne appieno l'allusività stilistica e metrica. Di siffatta fenomenologia singolare e "difficile" sono percorsi I privilegi: e basterebbe solo aprirli, esaminarli, lasciarsene incatenare d'attenzione.
Ecco, allora, che viene e profilarsi un disegno di struttura generale, esterno, programmato in anticipo, che lega come in un solo poema i quattro "libri" e quindi le quattro cantiche: un'ipotesi tutta da verificare, naturalmente, sull'oggetto stesso, di là da ogni simpatia segretamente prevaricatrice. Ma io sono convinto che I privilegi del povero (cioè i sogni, i desideri remoti, le aspirazioni impossibili, piuttosto che, come par che si creda, le affabulazioni poetiche) siano stati fin dall'origine concepiti come un sol poema unitario, e non siano, invece, emersi via via, in prosieguo di tempo, dall'esigenza divenuta sempre più logica e pressante di raccogliere e di ordinare, in qualche modo, tanto materiale progressivamente in crescita. Lo stesso titolo definitivo, quello dei Privilegi del povero, compare già a p. 132 del primo dei quattro volumetti. Ma dall'esame delle forme metriche emerge anche, senza dubbio, una sorta di rapporto interno sistematico e sistematore: il "libro" secondo, intitolato In un astro crudele, è composto esclusivamente di sonetti, ben cinquantasette in serie ininterrotta, fino all'Epilogo a Clio.
Dunque, una lunga "corona" (come nel Due e Trecento) di sonetti, che sfocia, per così dire, in un "epilogo" (otto componimenti regolari, di sapore arcaico). L'identificazione, l'impostazione e, sia pure opinabilmente, l'interpretazione di questo e di tanti altri problemi siffatti, o simili, o analoghi a me sembrano d'assoluta importanza per un approccio organico e veramente critico al Pagano poeta e al Pagano traduttore, perché ne condizionano la possibilità di una comprensione critica basata su sistematiche certezze.
Al che dovrebbe, in maniera decisiva, contribuire anche l'analisi del divampare delle accensioni linguistiche e dei toni generali (lessico, sintassi, stile) del discorso poetico: attruciolarsi, lapislazzulario, immostruosito, ippocampale, spiralico, intrinare, inorchestrato hanno colpito la mia cursoria attenzione di comune lettore. Ma anche questo aspetto è adeguatamente valutabile solo in una organica interpretazione critica d'assieme, del verseggiatore che crea e del letterato che traduce, fortemente auspicabile per Pagano, ma presumibilmente difficile, lunga e paziente.
Allo stato, e per quanto personalmente mi riguarda, l'impressione che io ho sempre ricavato e tuttora ricavo dalla lettura, diciamo così, "di gusto", ma non risultante da sicuri accertamenti, delle poesie di Vittorio Pagano (tralasciando, ovviamente, l'apprezzabile e per altro ben apprezzato operatore letterario operante nell'ambito del "Critone") è quella -come ebbi a dire in altra occasione (Storia di Lecce, vol. III, a cura di Maria Marcella Rizzo, Bari, 1992, p. 621) - di un poeta difficile e in certa misura involuto, propenso all'ossimoro baroccheggiante (nel senso, tuttavia, più profondo ed articolato) ed espertissimo della tecnica espressiva insieme e metricologica; tecnica che il lettore è indotto, tante volte, a sentire e a valutare più come scopo e fine autosufficiente, che come strumento e mezzo per esprimere una chiara e ben definita visione del mondo. Rara infatti appare, a colpire e a commuovere dal profondo, la geniale scintilla, l'illuminante lampo di magnesio, della creazione e dell'invenzione poietica, mentre ad altissimo livello, e magari sempre un po' al di sopra delle righe (insomma del pentagramma) si tiene il complesso magistero tecnico-espressivo (più che stilistico, in verità). Ecco: Pagano appare come un letterato consumatissimo, raffinato e vigile sempre nella resa espressiva, perseguita -per metodo - con fredda intelligenza, non priva di cerebrale ricercatezza. Pagano è veramente un letterato, che della letteratura s'è fatta (e il cerchio si chiude) la ragione urgente della propria vita. Ed è forse proprio per questa via e con questo stigma che egli può ambire, meritamente, alla consacrazione della storia, piuttosto che per un "maledettismo" tanto anacronistico quanto di facciata.
Certo, suvvia!, chi lo potrebbe negare?, soprattutto i francesi, moderni ed antichi, così amorosamente letti e tradotti; ma anche - non lo si dimentichi - tanto Dante, tanto Cavalcanti e coevi, e poi Petrarca fino al Foscolo, al Carducci, al Pascoli, senza escludere neanche, me lo si permetta, Gabriele D'Annunzio. Persino, qualche volta, sarebbero da sentire, secondo il mio orecchio e la mia immaginazione, delle risonanze, dei riecheggiamenti di Girolamo Comi, probabilmente voluti e consapevoli, forse come omaggio d'affettuosa e segretamente allusiva amicizia.
Sono questi gli smalti e i cammei di Vittorio Pagano, "parnassiano" in tormento - diciamola pure, la parola rischiosa ed ambigua - per bisogno di salvezza; ed è questa la sua ambizione, salentina e provinciale, di sentirsi e di aspirare ad essere europeo, poeta-traduttore e traduttore-poeta. Bodini la perseguì, com'è noto, attraverso la Spagna; e l'altro Vittorio, il Pagano, attraverso la Francia moderna ed antica. Anche Pagano potrebbe dichiarare: "Mia madre è l'Europa", salentino d'Europa ed europeo del Salento: Porto Cesareo, Gallipoli, Otranto, Lido San Giovanni, Lecce, le serre, le pianure, gli olivi, il mare lontano...
L'orfismo solare di Corni, l'espressionismo impegnato di Bodini, il parnassianesimo scetticheggiante di Pagano: così, per tre volte, il Salento diventa Europa, a siffatti livelli, che gli specialisti, almeno, dovrebbero conoscere e riconoscere, nonostante gli isolamenti e le periferie. E allora - e concludiamo - come può sembrare strano che il Salento, tuttavia, rimanga sempre Salento, in quella poetica triade, come segnacolo d'amore, come forte legame di vita e di fantasia, e infine come oggetto-simbolo privilegiato?


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