§ I MAESTRI: GAETANO MARTINEZ

LA TRISTE DOLCEZZA DEL GENIO




Marilena Nicolardi



Di Gaetano Martinez, scultore galatinese del primo Novecento, la critica, da Crespi a Petrucci, Rivalta, Serri, De Grada, si è occupata largamente, sottolineando il vigore e la semplicità del suo senso formale, lontano dai convenzionalismi e teso ad affermare il suo intimo sentire.
La notizia della sua morte, avvenuta nel 1951, quando l'artista stava lavorando all'ultima opera, "Offerta di Esculapio", fu commentata dai maggiori quotidiani dell'epoca: "Pochi scultori dell'Italia contemporanea - scriveva Alberto Neppi su La Giustizia - hanno offerto come Gaetano Martinez, all'arte venerata e diletta, una dedizione di tutta la vita, pari alle risorse dell'ingegno e alla purezza del cuore".
Insieme ad Arturo Martini, Francesco Messina, Marino Marini, Giacomo Manzù e Tino Bortolotti, Martinez è stato uno degli esponenti più significativi della nuova corrente sostenitrice dell'immagine umana, sviluppatasi in seno all'arte plastica del Novecento.
Fu un formidabile autodidatta. Possedeva un'innata facilità di comprensione assieme ad una curiosità vivace. Esordi modellando la pietra leccese, come intagliatore, insieme al padre Vito, che era costruttore edile. La sua prima creazione, "Dolore umano", riassume la storia della sua vita, fatta di lotte, ansie e privazioni. I suoi studi furono presto interrotti. Nella scheda che gli artisti partecipanti alla 19a Biennale di Venezia dovevano compilare, scrisse: "Titolo di studio: quarta elementare. Non ho mai visto lo studio di uno scultore".
Ma il giovane artista, desideroso di colmare le lacune culturali, si dette a studiare senza la guida di nessuno, attratto irresistibilmente da tutto ciò che era arte, in particolare dalla scultura. Frequentò per alcuni anni la scuola di Arti e Mestieri a Galatina, dove apprese le prime nozioni del disegno e delle proporzioni. Nel 1911, sentendosi stretto dai suoi concittadini in una morsa di incomprensione e derisione, abbandonò il paese natio per Roma, dove sperava di essere accettato in qualche studio, di frequentare l'Istituto di Belle Arti e, soprattutto, di trovare l'atmosfera e l'ambiente ideali per manifestare appieno il suo estro creativo. Ma dopo circa due anni, per mancanza di mezzi e per i rifiuti ottenuti, si vide costretto a ritornare sui propri passi, continuando però a studiare con tenacia da autodidatta. In quell'epoca iniziò ad eseguire le prime opere, ritraendo nudi da modelli viventi (il primo fu il fratello Pasquale) o teste. Modesto e poco loquace, esile nel fisico, scolpiva mosso non da schemi precostituiti, ma dall'impeto del suo animo che coglieva uno sguardo, un gesto, un'espressione e li traduceva plasticamente. Era in grado di rifare un ritratto a memoria, vedendo il soggetto anche una sola volta e di sfuggita.
Nel 1917 espose a Bari, in una mostra di artisti pugliesi, e a Napoli, in una Promotrice, venendo a contatto con Cifariello, Gemito e D'Orsi, esponenti di quella corrente naturalistica cui Martinez si ispirò agli esordi. Roma, però, restava sempre la meta agognata, sebbene anche nella capitale, inizialmente, la sua potenzialità creativa non fu del tutto compresa ed apprezzata. Nel suo diario scrisse: "Accarezzando il più alto presagio nei riguardi della mia arte, temo però che io, restando qui, in questo ambiente da me tante volte maledetto, debba fare la fine di quella pianta che appassisce a poco a poco per mancanza di quel vero e sano e indispensabile nutrimento. Ah! Roma! Come ti bramo!". Trasferitosi definitivamente a Roma, nel '22, sprovvisto di mezzi, in uno stanzone semibuio nei pressi di Campo dei Fiori, modellò in quaranta giorni il "Caino", la sua prima opera importante che lo mise a contatto con la critica nazionale e in particolar modo con Filippo De Pisis. Seguirono il "Vinto", "Saffo", e una produzione artistica in continua ascesa, il cui acme è rappresentato dalla "Ballerina", una statua in bronzo del '41 costruita saldamente sulle gambe massicce e palpitante nella sua anima contadina, che si trova nella Galleria d'Arte Moderna a Roma.
Numerosi sono i riconoscimenti ufficiali e gli encomi attribuiti a Martinez in Italia e all'estero, dal premio dell'Accademia d'Italia a quello della Terza Quadriennale d'Arte, tanto per citarne alcuni. Così pure, frequenti sono le sue partecipazioni a mostre (58 in tutto), come le Quadriennali di Roma o le Biennali di Venezia, dove ottenne anche l'invito per una personale, nel '42. La sua ultima esposizione fu quella del '49, alla Galleria del Secolo di Roma. Sue opere si possono ammirare nella Galleria Nazionale d'Arte Moderna di Roma, nel Gabinetto Nazionale delle Stampe, nella pinacoteca di Bari, nel Museo Civico di Galatina, in una gipsoteca allestita nel paese natìo dal fratello Luigi e in altre numerosissime raccolte pubbliche e private.
E' stato più volte sottolineato che la vena creativa di Gaetano Martinez trovò la sua espressione migliore nel periodo romano. A quegli anni appartengono la "Danzatrice", in bronzo, o la "Maternità", in terracotta. Opere, queste, che sottolineano la ricerca dell'interiorità, in contrasto con le tendenze avanguardiste dell'epoca. Ma è pur vero che l'artista, sebbene incompreso e sovente deriso nel suo paese d'origine, non rinnegò mai le sue radici e non spezzò i legami affettivi che lo tenevano unito a Galatina.
Nell'archivio privato di Carlo Minafra, nipote del Martinez, oltre ad un epistolario, ad alcuni disegni inediti e alle schede di tutte le opere dello scultore, si possono ammirare le suggestive fotografie d'epoca che ritraggono una testa, del '27, che rappresenta Carlo adolescente, o i volti di alcune amiche di famiglia che posarono come modelle. Numerose sono le teste e le maschere scolpite nella terra d'origine durante i mesi estivi, trascorsi in solitudine a Santa Maria al Bagno, vicino Galatina, dov'egli si recava per trarre ispirazione.
La più famosa è "Teresa", una maschera variamente citata dai critici, "soffusa da una dolce malinconia", secondo Romeo Lucchese, e che, per la linea dritta del naso, gl'incavi degli occhi e le labbra, ricorda l'arte etrusca. Proprio in queste opere gli influssi di Rodin, Gemito, Martini, Medardo Rosso e Troubetzkoy, che si ravvisano nella sua produzione iniziale, si stemperano e si attenuano sempre più per trovare, negli anni della maturità, un nuovo tramite espressivo negli altorilievi, che rappresentano lo stadio adulto della sua arte e della sua originalità e lo restituiscono al suo ambiente di origine, alla sua terra natìa. Ed ecco "Tragedia", in cui si intravedono gli influssi della scultura della Magna Grecìa, "Dorme al bagno", "Pagliacci" o "Sogno della bimba del circo", che rappresentano scene di vita quotidiana e popolare pervase da un lirismo, una purezza arcaica e un sentimento profondo di triste dolcezza, propri della gente di Puglia. Attraverso gli altorilievi Martinez riscopre la sua anima salentina. Anche nei suoi numerosissimi disegni, tra i quali "Ballerina", "Donne che pregano", "Madre con bimbo" e "Dorma che si lava le mani", tracciati con linee nette e definite, è possibile cogliere la sensibilità, il candore meridionale e la compostezza artigiana caratteristici dello scultore.
La salentinità di Martinez, dunque, rimase sempre viva e si tradusse in un naturalismo nuovo, libero da vincoli o canoni perché nasceva dalla vita stessa dello scultore; una vita piena di traversie, ostacoli e complicazioni che tuttavia non gli avevano impedito di conservare una vena di freschezza poetica ed una ingenuità per alcuni versi infantile. La sua opera è, come direbbe Elio Marcianò, "una metafora artistica della sua vita". L'arte per Martinez è infatti una esteriorizzazione della storia umana. Le sue figure, palpitanti e vive, vaganti in una dolce nostalgia, sembrano venir fuori dalla memoria remota per esprimere una spiritualità tutta meridionale. Attraverso il suo modo originale di plasmare, la l'orma diviene immagine dell'anima. La sua opera, sebbene moderna, è legata alla tradizione, alle inalterabili leggi del disegno e del l'espressione, e la sua modernità è proprio nella semplicità ed essenzialità che caratterizza le sue creazioni, prive di ogni retorica o monumentalismo.
E' già stato evidenziato l'amore che Martinez nutriva per il suo paese, "ove nacque - com'egli stesso scrisse nel suo diario - quella perla d'uomo e di semplice e chiaro e mesto e pensoso pittore, che porta il nome di Gioacchino Toma".
Il nome di Toma (morto nel 1891, un anno prima della nascita di Martinez) fu noto fin dall'infanzia allo scultore, il quale si adoperò, nel corso della sua esistenza, per onorare la memoria del concittadino. A Roma, si avvalse della collaborazione del giornale Fiamma e dell'associazione "Apulia" e promosse una raccolta di fondi tra gli artisti, al fine di realizzare una lapide commemorativa per la casa natale di Toma. Modellò inoltre un busto in bronzo dedicato al pittore, collocato poi in una piazzetta a Galatina. La scelta di Toma non è casuale: il pittore galatinese, infatti, rappresentava agli occhi del giovane Martinez uno spirito libero e ribelle, che aveva avuto il coraggio di sostenere fino in fondo le proprie scelte di vita, nonostante l'incomprensione dei concittadini. Martinez vedeva in Toma un fratello spirituale, che come lui reputava inutile la vita senza l'arte. L'affinità tra i due si riscontra esaminando alcune teste di Martinez che rivelano, attraverso la loro ispirazione popolare e l'intensa luce interiore, dei punti di contatto con i patetici personaggi di taluni dipinti di Toma, come "La Sanfelice in carcere", 'Te ruote dell'Annunziata" e "L'ultima Comunione".
Al pittore suo conterraneo Martinez cercò di tributare quei riconoscimenti che i galatinesi negarono a lui, finché fu in vita, quando ad esempio non gli affidarono la realizzazione del monumento ai Caduti. Sarebbe stato, questo, un dovuto atto di riconoscimento nei confronti dello scultore, che si era fatto ormai onore a Roma. Per Martinez l'episodio fu causa di un grande dolore, che riuscì tuttavia a superare, così come aveva superato le traversie e le delusioni che avevano caratterizzato la sua esistenza e che trovano degna espressione nella "Lampada senza luce", collocata nella piazza maggiore di Galatina. Come accade a chi ha molto sofferto, Martinez aveva ormai un cuore plasmato dalla passione quotidiana. La sua forza di volontà, l'impeto e il bisogno interiore dell'arte fecero di lui, esile uomo sofferente, un gigante capace di sormontare qualsiasi ostacolo per rimanere fedele al suo ideale.


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