§ CAPITALISMO DIFFICILE

IL CASO ITALIANO




Mario Deaglio



Una delle caratteristiche del capitalismo forse meno celebrata di altre è la sua straordinaria capacità di cambiare, adattandosi a condizioni ambientali, sociali, politiche e culturali diverse.
L'Italia, Paese capitalista a tutti gli effetti, benché arrivata a questo stadio ultima tra le grandi nazioni, è stata governata da una classe dirigente sostanzialmente estranea alla cultura capitalista. Ora avrebbe bisogno di un settore pubblico diverso da quello rappresentato da un sistema industriale il cui impoverimento tecnologico e di ricerca scientifica è purtroppo un dato strutturale, privo di chiare regole del gioco imprenditoriale e di mercato.
" Gl'italiani hanno voluto far un'Italia nuova e loro rimanere gl'italiani vecchi di prima". Così, un secolo e mezzo fa, scriveva D'Azeglio ne I miei ricordi. A questa grande distanza di tempo, il contrasto tra vecchio e nuovo, pur con punti di riferimento mutati, non appare certo superato e neppure sopito., passa dentro alle coscienze oltre che ai meccanismi del sistema, rende spesso contraddittorie le aspettative, le priorità, le scale di valori dei cittadini. Portato duramente alla ribalta dalle vicende giudiziarie di "Mani Pulite" tale contrasto pone domande esistenziali non solo alle forze politiche, ma anche ai singoli cittadini; nell'ambito di profonde modificazioni mondiali, introduce una specificità italiana, una speciale atmosfera di precarietà vissuta in maniera particolarmente acuta.
La "cultura della piazza", tipicamente italiana, mette impietosamente a nudo tutti i dubbi e induce a interpretare la situazione del Paese in senso pessimistico. Soprattutto mostra la scarsa importanza dei problemi italiani, parossisticamente dibattuti da noi, nel quadro del capitalismo mondiale. Nella situazione italiana sono presenti - intrecciati con fattori di degrado strutturale, di tipo politico e civile, oltre che economico - numerosi elementi positivi, spesso trascurati. E il rischio, nonostante le apparenze, è forse quello di un lento declino, più che di un salto nel vuoto oltre l'orlo dell'abisso.
La scena italiana appare dominata non tanto dalle grandi tendenze alle liberalizzazioni e alla privatizzazione, presentatesi nel '95 informa piuttosto attenuata, quanto invece dalle trasformazioni del mondo bancario, in uno scenario che mostra al tempo stesso sintomi evidenti di un'attenuazione della presenza imprenditoriale italiana nel mondo e interessanti segnali di vitalità.
La transizione italiana coincide con una modificazione abbastanza profonda nella consistenza, nella direzione e nel controllo dei flussi finanziari, in particolare quelli relativi alla formazione e all'impiego del risparmio. Nel '94-'95 l'Italia per la prima volta ha sperimentato in maniera piuttosto sensibile la tendenza mondiale alla riduzione del risparmio familiare, che prima si era manifestata in misura attenuata. Le indagini Banca d'Italia e Centro Einaudi-Bnl documentano il deterioramento sia delle aspettative, col mutare degli orizzonti temporali specie a seguito della riforma pensionistica, sia della situazione effettiva dei bilanci delle famiglie, come conseguenza della perdita di potere d'acquisto dei salari. Non solo la formazione di risparmio familiare tende a ridursi abbastanza fortemente, ma il risparmio che ora si crea comincia a prendere strade diversificate (fondi d'investimento, assicurazioni, impieghi esteri) che, pur utilizzando spesso canali bancari o intermediari collegati o posseduti da gruppi bancari, non conducono in realtà al tradizionale approdo bancario o all'investimento tramite banca, in titoli del debito pubblico. Parallelamente, le imprese ricorrono in maniera crescente a fonti di finanziamento diverse da quelle tradizionali e derivanti dalla loro crescente apertura ai mercati esteri. Il controllo bancario dei flussi finanziari che giungono alle imprese subisce pertanto un allentamento.
Queste modificazioni spiegano perché, durante la ripresa dell'economia italiana del '94-'95, raccolta e impieghi bancari abbiano presentato andamenti assai poco dinamici, in forte dissonanza con quelli della produzione industriale o del prodotto lordo. Il totale degli impieghi mostra una tendenza (che dura fino a periodi recenti, quando si verifica un moderato aumento) a crescere a livelli non troppo dissimili dall'inflazione, il che è indizio dell'attitudine delle imprese esportatrici - la parte più dinamica dell'economia italiana in questa fase congiunturale - a finanziarsi in maniera crescente all'estero. L'andamento poco soddisfacente dei depositi riflette le due tendenze, ossia il deterioramento dei redditi e la crescente diversificazione delle strategie di impiego. Tutto ciò chiama in causa la funzione tradizionale delle istituzioni creditizie complessivamente considerate, le quali facevano corrispondere al proprio interno gran parte dell'offerta di risparmio (proveniente in Prevalenza dalle famiglie) con la domanda di risorse finanziarie (proveniente in larga misura dalle imprese o dall'amministrazione pubblica). Una conferma di questi ruoli mutati è data dall'andamento assai dinamico della raccolta indiretta, chiaro indizio di diversificazione.
La minore possibilità delle istituzioni creditizie di indirizzare i flussi di offerta e domanda di risparmio si accompagna al forte aumento delle sofferenze, ossia della rischiosità degli impieghi bancari: pari a oltre 62 mila miliardi nel gennaio '94 (un po' meno dell'8% del totale degli impieghi), le sofferenze di breve termine sono passate a fine '95 a poco meno di 90 mila miliardi nel breve termine, quasi l'11% della raccolta, con un incremento di oltre 16 mila miliardi (su un totale di incremento degli impieghi di circa 30 mila miliardi).
Su un campione di 91 banche con raccolta a breve termine, esaminato dall'Abi, i crediti in sofferenza rappresentavano il 29,53% del patrimonio netto nel dicembre '93, il 32,11% nel dicembre '94, il 34,94% nel giugno '95. Per le 12 banche con raccolta a medio e lungo termine la tendenza al deterioramento risultava ancora più marcata, con una crescita dal 26,96% del'93 al 36,62% del giugno '95. Non fa quindi meraviglia che i risultati economici delle banche nazionali del campione Abi segnalino un netto peggioramento: da un utile di 1.579 miliardi nel dicembre '73, pari al 3,07% del patrimonio netto, a una perdita di 866 miliardi, pari all'1,7% della medesima grandezza, nel primo semestre '95.
Al suo interno, il mondo bancario si presenta però molto differenziato. Spicca il risultato negativo del Banco di Napoli, con una perdita di circa 3. 000 miliardi nel '95, su un patrimonio di 2.118, che si è così più che azzerato; ma risultati negativi sono stati registrati nel '95 anche da altri istituti, anche di grandi dimensioni, quali la Banca Popolare di Novara (350 miliardi) e la Banca Nazionale dell'Agricoltura, il cui controllo è stato assunto dal gruppo Banca di Roma, con un'estensione considerevole della già preponderante area pubblica del settore creditizio.
I risultati negativi appaiono complessivamente più frequenti nel Centro-Sud, dove alcune Casse di Risparmio (Calabria, Puglia, provincia di Viterbo, Rieti) totalizzano 127 miliardi di perdite nello stesso primo semestre '95; hanno registrato perdite di entità più o meno rilevante anche Sicilcassa, Credito Industriale Sardo, Isveimer. Altre parti del sistema appaiono invece in buona salute: sono molto positivi i risultati di esercizio nel medesimo periodo della Comit, nonché il San Paolo di Torino, per citare solo i maggiori.
Sullo sfondo di questa debolezza strutturale, il sistema continua l'opera di riorganizzazione che vede, nel corso degli anni, la diminuzione in numero e in incidenza sugli aggregati bancari delle aziende creditizie di piccole dimensioni e insieme una ridistribuzione sul territorio con l'apertura di nuovi sportelli. Il fatto saliente del '95 sembra essere la creazione di un "polo pubblico", che si presenta dialetticamente contrapposto al polo privato emerso con Mediobanca/Credit/Comit/Credito Romagnolo. Tale operazione - impropriamente definita di "privatizzazione", mentre in realtà si tratta di una diversa articolazione della componente pubblica, pur con una maggiore apertura al capitale privato - si realizza mediante una cessione di partecipazioni bancarie direttamente possedute dal Tesoro a banche la cui maggioranza è in mano pubblica.
Ad aprile, nel capitale del San Paolo entrano, tra gli altri, l'Imi, l'Ina e le Ferrovie dello Stato. In luglio, il Tesoro cede il 19% dell'Imi a un gruppo di azionisti pubblici che comprende, oltre alla Cariplo, Montepaschi e lo stesso San Paolo, poi incorpora definitivamente il Crediop e la Banca Nazionale delle Comunicazioni. Esce, peraltro, dall'Ambroveneto. Separatamente avviene la già citata operazione di acquisto del controllo della Banca Nazionale dell'Agricoltura da parte della Banca di Roma. Si accentua l'intervento della Cariplo in altre Casse di risparmio, spesso con conti poco lusinghieri.
Un'altra grande trasformazione del mondo bancario italiano è legata all'operatività sempre maggiore delle Fondazioni bancarie alle quali, per legge, è stato conferito il controllo delle Casse di risparmio e altre banche pubbliche. Tali Fondazioni si trovano a operare in regime giuridico frettolosamente costruito (il medesimo Consiglio di una Fondazione, in due sedute diverse, procede alla formazione del bilancio d'esercizio e alla sua approvazione); a tale fretta si aggiunge l'incertezza del rapporto di fatto tra i gruppi dirigenti di queste banche e le Fondazioni che, fino a pochi anni fa, dipendevano dagli istituti bancari, anziché controllarli. In questo quadro si inserisce la Direttiva Dini, che impone alle Fondazioni la vendita, entro cinque anni, delle quote di proprietà del capitale delle banche eccedenti il 50%. Quest'obbligo si scontra con la difficoltà di dismissioni di tale portata in un mercato borsistico strutturalmente e congiunturalmente debole; in numerosi casi, poi, la vendita potrebbe mettere in evidenza delle minusvalenze. Tutto ciò spiega l'assenza, nel '95, di grandi operazioni di questo tipo.
A un confronto internazionale, il sistema mostra di soffrire di costi per il personale troppo elevati. Nel campione Abi, l'incidenza di tali costi sul totale operativo risulta addirittura lievemente superiore nel primo semestre '95 (69,48%), rispetto ai dati di bilancio del '93 (68,64%), il che è indizio della difficoltà di procedere alle necessarie riorganizzazioni nella normale gestione bancaria.
Le banche italiane, che negli anni '80 avevano iniziato una politica di espansione all'estero, fanno registrare una battuta d'arresto, non partecipano alla "corsa" di cui sono protagonisti altri sistemi bancari e che è diretta ad acquisire intermediari finanziari di Londra, o comunque a proporsi quali operatori internazionali di grande livello. Si riscontra peraltro sulla piazza di Milano la presenza sempre più importante di operatori stranieri, i quali si appropriano di una quota ragguardevole di operazioni Vi qualità" relative alle imprese italiane. Basti considerare che il 40% delle nuove emissioni in titoli è stata organizzata da intermediari stranieri o controllati da capitale straniero, sicché il Financial Time ha ironicamente suggerito che le privatizzazioni italiane vengano lanciate a Wall Street anziché a Milano. Parallelamente, una quota ragguardevole delle transazioni finanziarie italiane si svolge ormai su piazze estere. L'inglese Liffe e il francese Matif hanno quotato i futures BTp prima della piazza di Milano e i quantitativi del mercato londinese superano di 5-6 volte quelli del milanese Mif.
Tutto ciò pone in prima linea gli sviluppi relativi alle istituzioni borsistiche. La Borsa italiana ha compiuto negli ultimi tre anni un grosso sforzo di rinnovamento, sulla falsariga di quanto era avvenuto qualche anno prima sulle grandi piazze finanziarie mondiali. Esso ha comportato la messa a punto di una sofisticata macchina tecnologica, in preparazione anche delle operazioni connesse con la liquidazione per contanti, introdotta a metà febbraio '96. Apertamente contestata da moltissimi operatori per timore del crollo degli scambi, tale novità è stata sostenuta dalla Banca d'Italia come passaggio tecnico indispensabile per lo sviluppo del mercato dei capitali (va considerato che, prima dell'innovazione, il 70% dei titoli quotati a Milano non registrava scambi per almeno una seduta alla settimana). Al rischio temuto, peraltro, si potrebbe ovviare con la creazione di market makers, affidando i titoli di minor flottante a specialisti in grado di seguirli e assicurare l'assorbimento dell'offerta e l'alimentazione della domanda, in linea con quanto avviene sui mercati borsistici maggiori.
A metà ottobre '95 è stata introdotta l'opzione sull'indice Mib-30, una sorta di rodaggio per l'inizio di scambi di opzioni su singoli titoli, a cominciare dalle blue chips; il tutto è avvenuto all'ombra del successo del contratto di future sul Fib-30, per il quale l'ammontare delle partite scambiate ha avuto la tendenza a sopravanzare il valore degli scambi sul listino. Si sono poi accentuati i segnali di una rivoluzione tra gli intermediari: la caduta delle commissioni e l'aumento dei costi di impianto, dovuto sempre a maggiori investimenti in software, implicano la necessità di un maggiore volume di transazioni. Questi segnali non bastano a cancellare la realtà di una Borsa che non riesce a rientrare tra le "piazze" finanziarie che veramente contano in Europa e nel mondo, pur avendo a disposizione una delle maggiori masse di risparmio del pianeta; né possono cancellare la realtà di risultati borsistici nettamente discordanti rispetto agli andamenti mondiali. Tali risultati non possono naturalmente essere ascritti solo, o soprattutto, al funzionamento della Borsa, ma l'essenza stessa di questo funzionamento viene chiamata in causa, prima ancora che da limitazioni di tipo giuridico, da una realtà culturale che è istintivamente refrattaria alle innovazioni. Due piccoli esempi chiariscono questi limiti. Il primo è la scarsa diffusione dell'uso operativo dell'inglese, lingua ormai indispensabile per lavorare con efficienza in un contesto internazionale. Il secondo è il sistema di pagamento dei traders: all'estero, essi sono retribuiti in misura consistente col sistema dei bonus e sono quindi più propensi ad assumersi rischi proprio perché pagati in base ai rischi assunti con successo; in Italia, la cosa risulterebbe impensabile per motivi sindacali.
La resistenza alle innovazioni si traduce nella tendenza a preferire la conservazione del controllo esistente sulle società, il che si sposa con la forte tradizione familiare del capitalismo italiano: a livello di imprese o gruppi medio-piccoli, il capitalismo familiare non ama ammettere estranei nella proprietà; a livelli maggiori, pur ammettendo largamente, e anzi sollecitando l'apporto di capitale dal mercato, non ama mettere in discussione il proprio controllo. Tale scelta viene talora autorevolmente sostenuta, con qualche giustificazione, in nome della continuità delle politiche aziendali che l'esposizione al raiding dei mercati porrebbe in discussione, nonché del senso di unità e di Il missione" che può derivare da una tradizione di controllo familiare.
Si aggiunga che la tassazione punitiva dei profitti, che in Italia raggiunge l'incredibile livello del 52,5%, non favorisce l'instaurazione di un sistema volto a dar preminenza ai profitti stessi e incoraggia invece la dipendenza dalla finanza bancaria. Si è quindi in presenza di una concatenazione di circostanze negative: l'alta tassazione dei capitali favorisce la dipendenza dalle banche e questa scoraggia l'ingresso in Borsa. Il fatto stesso che una simile situazione si sia mantenuta, nonostante la relativa esiguità del gettito dell'imposizione fiscale sui profitti, è dovuto forse al prevalere di motivazioni extra-economiche: sono queste, in realtà, a spiegare la persistenza di una simile sistemazione.
Non fa meraviglia, perciò, che le operazioni finanziarie sulla Borsa di Milano servano più ci proteggere e consolidare le maggioranze esistenti che non a modificarle. In questo senso, si può dire che il mercato mobiliare italiano svolga con difficoltà e in misura assai scarsa quella funzione di strumento di "politica industriale", ossia di riorganizzazione dei settori produttivi che, pur con miopie e confusioni, ha portato al prodigioso rinnovamento dell'economia americana. Nel '95 ciò è stato chiaramente confermato dall'operazione superGemina (e dalla contemporanea operazione di ricapitalizzazione dell'Olivetti), che rappresenta il fatto saliente delle vicende borsistiche dell'anno. Tali vicende sono troppo note perché debbano essere qui riassunte; è invece importante cogliere, nel comportamento dei protagonisti, tre aspetti di innovazione istituzionale:
- il ruolo della Consob: l'organo di controllo ha svolto una funzione più dinamica che in passato;
- il ruolo dei Fondi di investimento: questi hanno interloquito in maniera dialettica, fin dall'aprile, con le decisioni della Gemina;
- il ruolo delle banche: si è fatto più evidente nelle vicende della ricapitalizzazione dell'Olivetti, in cui sono stati rifiutati gli aumenti di capitale "a cascata" delle società controllanti.
L'operazione superGemina segnala quindi una tappa dell'evoluzione dell'assetto della Borsa verso prospettive maggiormente in linea con quelle degli altri mercati; un altro segnale analogo proviene dalla capacità della Borsa stessa di attrarre finalmente nuove società, spesso a carattere familiare, oltre ai titoli affluiti a listino a seguito di privatizzazioni (con l'Eni) o demergers (con la distinzione tra Telecom Italia Mobile e Telecom Italia). Va peraltro notato che esiste una corrente di piccole e medie imprese italiane che preferisce, o abbina a questa quotazione quella al mercato newyorkese del Nasdaq: nel '95, oltre alla Stet, quotata al Nyse, sono state quotate al Nasdaq l'impresa di occhialerie De Rigo e la Gucci, produttrice di beni di lusso. Speranze e debolezze della Borsa italiana possono essere così riassunte: nel '95, quattordici nuove società sono state quotate alla Borsa di Milano, il numero più elevato dal 1988. Eppure, il numero di società quotate in Borsa in Italia ormai da decenni continua ad oscillare tra 200 e 230.
La crisi dell'assetto tradizionale del capitalismo italiano è dovuta all'apertura dei mercati e alla contemporanea debolezza interna del sistema bancario, che scoraggia gli istituti di credito italiani dallo svolgere un ruolo dinamico in un contesto internazionale. Al di là dei dati quantitativi sulle, acquisizioni e fusioni, che talora possono indurre a conclusioni ingannevoli, è opportuno soffermarsi sull'aspetto qualitativo dell'evoluzione di imprese e settori produttivi:
Occorre partire dalla seconda metà degli anni '80, epoca d'oro del business italiano, quando le grandi riviste internazionali esaltavano il "modello italiano" di conduzione delle imprese La Ferruzzi acquistava il gruppo francese Béghin Say, De Benedetti comprava imprese in Germania e in Spagna e aveva la società belga Sgb nel mirino, Pirelli aveva posto le mani sulla tedesca Continental. Poi De Benedetti fu sconfitto nella battaglia per il colosso belga, Pirelli fu costretta a rivendere la partecipazione tedesca, il gruppo Ferruzzi subì una eclisse. Si aggiungano l'insuccesso delle Generali nel tentativo di assumere il controllo della francese Axa e lo sbarramento al tentativo della Comit di acquistare la Bank of New York. Da allora ad oggi, si è avuto un complessivo indebolimento "politico", o, come usa dire, "del sistema": in parte collegato a Tangentopoli che, paralizzando i processi di decisione pubblici, ha indirettamente contribuito a far perder peso all'imprenditoria italiana; in parte originato dall'estrema difficoltà del sistema bancario-finanziario italiano a fornire alle proprie imprese mezzi finanziari sufficienti e del tipo giusto per esser presenti in forze nel grande processo di internazionalizzazione europea e mondiale. L'indebolimento ha una manifestazione clamorosa con la crisi Ferruzzi, ripercossasi sul mondo bancario e di riflesso su Montedison. Nel '94 il colosso chimico fu costretto a vendere Erbamont, la maggiore impresa farmaceutica italiana alla svedese Pharmacia, decretando di fatto l'uscita dell'Italia dal vertice di questo settore. Sintomatico il caso Pharmacia: ha mantenuto a Milano uno dei suoi centri di ricerca mondiali, segno che l'indebolimento delle imprese italiane è soprattutto di natura finanziaria, mentre le medesime imprese continuano a godere di ottima fama per quanto riguarda la loro attività specifica.
Il processo d'uscita del sistema italiano delle imprese da diversi settori produttivi è continuato nel '95. In esso rientra anche la sistemazione dell'industria chimica, in una generale situazione di ristrutturazioni europee: l'Eni vende alla tedesca Rwe il 70% di Enichem, mentre viene costituita una joint venture paritaria tra Montedison e Shell nella quale confluiscono, accanto al settore materie plastiche della Shell, la Himont e la Moplefan, due consociate importanti di Montedison in un settore in cui l'impresa italiana vanta una leadership mondiale: questa diventa così una leadership condivisa e non più esclusiva.
Il declino è ancora più vistoso nel settore alimentare. Se un Paese come l'Italia, dotato di alcuni tra i migliori cibi, vini e ingredienti alimentari del mondo, non riesce a mettere insieme un'industria alimentare d'alto profilo a livello mondiale - cosa che riesce molto bene a Paesi meno dotati, come la Svizzera con Nestlé e l'Olanda-Gran Bretagna con Unilever - parte delle cause va forse ricercata negli assetti proprietari e nelle istituzioni finanziarie. Sta di fatto che nel corso degli anni '90 ha fine il controllo italiano dell'industria degli aperitivi (specialità esclusiva dell'Italia), cui si aggiunge nel '95 la cessione della Stock al gruppo tedesco Eckes. Nello stesso anno la Sme cede l'Italgel alla Nestlé, l'Unilever acquista la Bertolli, la quota Nestlé nella San Pellegrino sale al 28%.
Sempre nel '95 si registrano operazioni di varia significatività: fra le altre, l'acquisto definitivo della Siv, uno dei maggiori produttori europei di vetro, da parte della Pilkington; la vendita della Tubi Ghisa dell'Ilva alla Saint Gobain per 121 miliardi; il passaggio degli alberghi della Ciga alla Sheraton per 940 miliardi (debiti compresi), episodio che conferma la grande debolezza italiana in un altro campo, quello del turismo organizzato, in cui le risorse naturali dovrebbero invece conferire al Paese un vantaggio di posizione. Ancora: l'Eni vende il Nuovo Pignone, un'impresa detentrice di vaste risorse tecnologiche nel campo della perforazione petrolifera, all'americana General Electric, che successivamente acquista un'altra impresa tecnologicamente importante, la Grove Italia. In un campo molto piccolo ma significativo, poi, il 60% della Giuffrè, editrice milanese di libri tecnico-giuridici, è acquistato dai colossi olandesi dell'Elsevier, a differenza di tedeschi e olandesi (le cui lingue pure sono difficili e poco diffuse), noi non disponiamo di un'impresa editoriale di dimensioni davvero grandi e con forti interessi all'estero. In questo senso, l'ingresso di capitale straniero in Mediaset e nella Rcs segnala la difficoltà, accumulata negli anni, del sistema finanziario italiano a fornire le risorse "giuste", l'incapacità di promuovere e sostenere aggregazioni produttive adeguate.
Nel corso del '95 tale difficoltà risulta particolarmente evidente in svariati settori: nell'industria aeronautica, con la crisi dell'Alenia; ma anche nelle costruzioni ferroviarie, dove l'impegno nella realizzazione di un ambizioso programma di investimenti nell'alta velocità si scontra con una fortissima resistenza a porre sotto un unico controllo (indispensabile per raggiungere dimensioni adeguate) due aziende pubbliche quali Ansaldo, controllata da Finmeccanica, e Breda Ferroviaria, controllata dall'Efim.
La tabella in basso mostra gli episodi più recenti della tendenza alla perdita di posizioni significative che, per l'imprenditoria italiana, perdura dall'inizio del decennio. Nel '90 le quote di mercato di Fiat, Olivetti e Pirelli in Europa erano maggiori di quelle del '95; queste tre aziende, peraltro, perseguono strategie di lungo periodo, in vario modo disegnate per garantire sopravvivenza e recuperi. Un caso di vero e proprio declino imprenditoriale, ben più preoccupante, è invece quello dell'Alitalia, la cui presenza è fortemente diminuita sulle rotte in cui non opera in regime di monopolio: ciò è dovuto a un concentrato di errori di strategia industriale, di debolezze legate alla natura pubblica dell'azienda, di eccessivo potere e frammentazione interna dei sindacati.

La classifica delle imprese mondiali annualmente edita dal Financial Times consente di esaminare da un altro punto di vista il sistema imprenditoriale italiano. E l'esame conferma l'analisi fin qui condotta. Sono riportate in graduatoria solo le società quotate in Borsa e le loro dimensioni - ossia il criterio di misura - sono fatte dipendere solo dalla capitalizzazione di mercato. L'esame delle presenze italiane consente una valutazione generale non tanto delle singole società, quanto del "sistema Italia", sui cui mercati sono acquistabili le società stesse; inoltre permette di confrontare mediante un metro comune, tenendo conto della componente di "sistema", società di natura diversa, quali banche, assicurazioni, industrie. La classifica esclude le imprese che, pur quotate in Borsa, hanno scarso flottante (meno del 25% del capitale); si sono inoltre escluse, perché impossibile un confronto omogeneo, le due società scorporate dalla Sip (Telecom Italia e Tim) e la Sme.
Su 500 società europee, la classifica '95 ne include appena 23 italiane, otto in meno del '94. Si osserva un generale arretramento, cioè una perdita di posizioni relative, che riflette indubbiamente il cattivo andamento generale della Borsa e della lira nei confronti dell'estero, ma è altresì indice sicuro della perdita d'importanza, di potere economico, di capacità del Paese di "contare" in un'economia di mercato. Basti pensare che il totale della capitalizzazione di mercato di queste 23 società era pari a poco più di 100 miliardi di dollari: un pò inferiore, cioè, a quella del gigante giapponese delle telecomunicazioni Ntt, un po' superiore a quella della società petrolifera Royal Dutch-Shell.
Una più limitata classifica settoriale riguarda i grandi lavori edilizi. La rivista americana ENR riporta l'elenco dei "Top International Contractors", le imprese di costruzione impegnate nei "grandi lavori". Su una cifra d'affari totale di oltre 406 miliardi di dollari, riferita al '94 e pari a circa 662 mila miliardi di lire, l'Italia è al sesto posto con 9 imprese su 150, per 16. 000 miliardi, pari al 2,4% dell'offerta mondiale. La posizione italiana risulta migliore se si considerano solo i lavori all'estero (8,2% del totale), ma appare sempre insoddisfacente se si pensa che questo è stato uno dei settori italiani per eccellenza, in alcuni segmenti del quale l'Italia poteva, nei decenni passati, vantare una supremazia tecnologica e di know-how. Tra i motivi del declino, data anche la natura fortemente ciclica del settore, non può non essere ancora una volta la debolezza della struttura finanziaria, che scoraggia crescita e consolidamento delle imprese.
Accanto a questi segnali negativi, l'economia italiana presenta segnali positivi che vanno decisamente posti in evidenza e contribuiscono a un delicato bilanciamento, tale da rendere ardua l'analisi complessiva.
In primo luogo, per quanto subisca i colpi della lunga "transizione" del Paese e paghi duramente il prezzo delle vicende politiche e della debolezza istituzionale, il sistema imprenditoriale italiano non è affatto allo sbando o in dissoluzione. Abbiamo accennato alle strategie di lungo periodo di Fiat, Olivetti e Pirelli. Occorre ricordare che Fiat è impegnata in un vasto progetto di costruzione di una world car che la porta a produrre in ogni parte del mondo, che Olivetti sta compiendo una difficile e impegnativa conversione nel settore delle comunicazioni, che Pirelli si sviluppa vigorosamente nel settore dei cavi. Momenti difficili e fasi negative, del resto, non sono ignoti a sistemi imprenditoriali di altri Paesi.
Pur subendo una complessiva diminuzione di importanza "strategica", legata all'indebolimento delle posizioni in settori-chiave, o anche all'uscita da questi settori, l'imprenditoria italiana si rivela realtà dinamica, con buone capacità di reazione, che la conducono ad una presenza ancora incerta, ma non irrilevante, nell'economia globale che si sta formando. Le imprese italiane hanno effettuato acquisizioni all'estero e la loro presenza nel mondo, per quanto spezzettata, è nel complesso abbastanza ragguardevole. Si tratta prevalentemente, ma non unicamente, di acquisti di imprese operanti in settori a tecnologia matura nei Paesi avanzati, e di imprese operanti in settori a tecnologia avanzata nei Paesi emergenti.
Così la Stet investe in Cile (e a Cuba, mentre tenta di penetrare nel mercato russo), Eridania acquista un'impresa americana di prodotti agricoli e soprattutto Luxottica acquista negli Usa una grande catena distributiva di occhiali e altri prodotti di consumo. L'Italia si configura, in qualche modo, come Paese intermedio, Paese-ponte tra avanzati ed emergenti. L'espansione estera si svolge anche mediante cessioni di marchi e brevetti, joint ventures, accordi di produzione, di ricerca e simili.


Si tratta di esempi emblematici di una realtà assai vasta, quanto poco documentata. Basti pensare che sono ormai frequenti i casi di imprese medie che dispongono di una struttura sofisticata, con accordi di produzione, cessione di tecnologie e costituzione di consociate in Paesi esteri, soprattutto nell'Est europeo, dalla Slovenia alla Russia, e nei Paesi del Mediterraneo. In Marocco, per esempio, operano oggi 150 imprese italiane e miste, che rappresentano circa il 20% degli investimenti stranieri e il 2,8% degli investimenti totali del Paese.
Sono sempre più frequenti i casi di lavorazioni su commessa italiana effettuate da imprese estere in Paesi emergenti, nel quadro di una globalizzazione della produzione che vede l'Italia non solo e non più come recettore di lavorazioni "povere"; tali lavorazioni, anzi, sono spesso smistate all'estero. Lo studio di questa realtà, oscillante tra innovazione tecnico-commerciale e sfruttamento di tecnologie assestate, dovrebbe essere incrementato: si tratta infatti di un autentico "brodo di cultura" dell'economia italiana di domani.
Chi osserva il sistema italiano è spesso fuorviato da un'attualità ribollente. Sotto questa superficie, apparentemente instabile e precaria, nel '95 e nella prima parte del '96 il sistema italiano ha potuto avvalersi di due punti di forza: la tenuta degli "accordi di luglio", che ha indotto a una forte moderazione salariale, e il varo di una, pur insufficiente, riforma pensionistica. Questo secondo fattore, insieme al miglioramento congiunturale e a una politica di moderazione e financo di rinvio della spesa contingente, ha determinato un forte miglioramento della situazione dei conti pubblici. E' difficile dire se e quanto si tratti di posizioni realmente acquisite o solo precariamente raggiunte. Sta di fatto che la combinazione di questi fattori positivi con la situazione internazionale ha fornito all'economia italiana una "finestra di opportunità", ossia la prospettiva di alcune evoluzioni favorevoli.
L'elemento cruciale è l'andamento dell'inflazione: quanto più sarà alta l'inflazione, tanto più elevato sarà il costo del denaro; al costo del denaro è legato il costo del servizio del debito pubblico; a questo è legato il fabbisogno del Tesoro; a questo è legata l'entità del prelievo fiscale, ossia di quelle "manovre" che condizionano l'economia italiana. All'entità di queste manovre, infine, è legato il livello della domanda interna, e quindi dei consumi delle famiglie e della produzione. Sembra una nota filastrocca per bambini, che racconta quel che succede comprando un topo al mercato. Si è voluto però ricostruire questa concatenazione causale per sottolineare l'importanza delle opportunità congiunturali all'inizio dell'incerta primavera, meteorologica e politica, del '96.
In una simile situazione, la prospettiva di un ribasso dei tassi italiani d'interesse appare quanto meno realistica e potrebbe essere accompagnata da un'attenuazione dello spread tra tassi italiani e tassi internazionali. Una riduzione dei tassi si traduce in una riduzione del carico di interessi. Le manovre aggiuntive risulterebbero così attenuate ulteriormente da un breve rinvio di fatto (12-18 mesi) dei tempi previsti per il raggiungimento dei "famosi" parametri di Maastricht. Va sottolineato, in questo quadro, l'andamento in controtendenza positiva del rapporto debito pubblico/Pil dell'Italia rispetto a quello dei principali Paesi e alla media europea. Né appare da sottovalutare, in una dialettica europea, il fatto che l'Italia ha realizzato negli ultimi anni il maggiore aumento delle entrate correnti dell'amministrazione pubblica in percentuale del Pil (dal 40,3 al 45,7 tra l'86-'90 e il '95: +5,4%), e che il suo pur rilevantissimo debito estero è nella parte largamente preponderante nelle mani di residenti in Italia.
In sostanza, il sistema sembra aver accumulato una sufficiente forza di inerzia per riuscire a crescere, ancorché in maniera limitata, anche con una sorta di staffetta tra componenti estere e interne della domanda aggregata. Il '95 ha lasciato al '96 un'eredità complessivamente soddisfacente, o addirittura buona. E' augurabile che gli sviluppi non disperdano un insieme di condizioni favorevoli così faticosamente accumulato.


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