§ LA TRASFORMAZIONE DEL SISTEMA PRODUTTIVO

CONCORRENZA INTERNAZIONALE E CRESCITA DELL'OCCUPAZIONE




Carlo Azeglio Ciampi



Il modello di sviluppo che ha dato all'Europa prosperità, occupazione, benessere, si è inceppato. Si è creata una discontinuità fra crescita e occupazione. A partire dalla fine degli anni Settanta, l'economia europea è stata incapace, in modo crescente, di utilizzare appieno il proprio potenziale; nei periodi di alta congiuntura il tasso di disoccupazione resta lontano da quella che una volta si chiamava la "disoccupazione frizionale". All'aumento della crescita non corrisponde un equivalente sviluppo dell'occupazione. Questo comportamento dell'economia va capito nelle sue cause profonde.
Dal 1979 ad oggi il tasso di disoccupazione europeo è passato dal 5,3 all'11,1%. Intere generazioni di cittadini europei stanno entrando nel mercato del lavoro tardi e spesso in modo non appropriato al loro livello professionale. La percentuale dei disoccupati di lunga durata sul totale è molto elevata: raggiunge il 61% in Italia, il 44 in Germania, il 45,4 nel Regno Unito, il 37,3 in Francia. Questa realtà deprime lo stimolo alla ricerca di un posto di lavoro, introduce nel corpo vivo di una collettività il germe della disperazione e della disgregazione. Alla perdita di produzione che deriva dalla sottovalutazione delle risorse lavorative, si aggiungono ripercussioni di lungo periodo: l'emarginazione sociale, il venir meno dell'impulso ad investire in capitale umano.
Il confronto dell'Europa con le altre aree economiche più avanzate mette in evidenza una situazione di svantaggio del nostro continente, una minore capacità di competere. Questo non ci deve spingere ad imitare acriticamente il Giappone o gli Usa, ma a tener presenti quelle realtà, per correggere, per migliorare il modello dello sviluppo europeo. Esso si incentra sull'operare di un libero mercato, ma anche sulla profonda attenzione ai problemi sociali: è questa una caratteristica alla quale non vogliamo, non dobbiamo rinunciare.
Nel riconsiderare il nostro modello di sviluppo, nel ripensarlo, occorre in primo luogo avere bene in mente gli errori da evitare, le strade da non percorrere. In primo luogo, non bisogna chiudere le frontiere, non solo quelle finanziarie e commerciali, ma anche nei confronti delle persone. L'immigrazione, se ben regolata, può anzi avere effetti positivi, oltre a rispondere ai fondamentali valori e doveri di una civiltà avanzata. La concorrenza internazionale tende a migliorare i livelli occupazionali in ciascun Paese, poiché spinge le imprese a ricercare maggiori profitti nell'aumento del volume della produzione e quindi nell'ampliamento della capacità produttiva.
In secondo luogo, non va smantellato il Welfare State. Occorre rivisitare istituzioni che furono concepite nel quadro di un modello di sviluppo basato sulla produzione di massa e sul lavoro dipendente a tempo pieno, adeguarle a una realtà che sta mutando rapidamente. Dobbiamo abbandonare l'idea che il sistema di sicurezza sociale sia compito esclusivo dello Stato. Sta a quest'ultimo assicurare uno zoccolo di protezione; sta ad altri soggetti, in particolare a quelli del "terzo settore", partecipare a una nuova impostazione dello Stato sociale, apportando una sensibilità più viva alle variegate esigenze della domanda, una maggiore capacità nell'utilizzo più efficiente ed economico delle risorse.
In terzo luogo, non dobbiamo farci coinvolgere in un clima psicologico di conservazione. Non dobbiamo temere l'innovazione, sia essa tecnologica, sia essa nelle forme di lavoro. Al contrario, il progresso tecnico e la sua diffusione sono fonte di ricchezza, strumento per accrescere la competitività. L'Europa non sta sfruttando appieno come volano di sviluppo una rivoluzione tecnologica che ha investito prodotti, metodi di produzione, organizzazione dei mercati.
Lo spazio di rilancio dell'occupazione è angusto per i singoli Paesi europei. Si amplia considerevolmente se l'ottica si sposta al Mercato unico europeo, realizzato compiutamente, anche nelle istituzioni.
L'attuazione del Trattato di Maastricht è un avanzamento fondamentale per superare la segmentazione dei mercati e la frammentazione istituzionale. Ogni rinvio nella creazione della moneta unica mette a repentaglio l'intera costruzione europea. La costruzione di un'area monetaria forte, compatta, solidale, è impresa che può ridare slancio agli investimenti e ai consumi, offrendo loro una cornice di certezze. Gli alti tassi d'interesse reali che hanno gravato sull'economia in questi ultimi lustri hanno ragioni riconducibili in parte alle difficoltà di coordinamento delle politiche economiche e monetarie. Questi alti tassi disincentivano le imprese dall'effettuare gli investimenti di maggiore portata, a più lungo termine, necessari per cogliere le opportunità occupazionali e di sviluppo insite nelle nuove tecnologie. In questo senso la realizzazione della terza fase dell'Uem è un passaggio fondamentale, il cui valore trascende l'ambito monetario, investe ogni aspetto dell'economia, può produrre rilevanti effetti sociali.
Lo Stato deve avere nell'economia un ruolo non di imprenditore, ma di guida, di arbitro e di regolatore. E' fondamentale snellire la regolamentazione e ammodernare l'organizzazione dell'amministrazione pubblica, perseguire con determinazione una maggiore efficienza attraverso un più razionale utilizzo del personale, una sua maggiore qualificazione. E' questo un problema particolarmente importante in Italia. Le privatizzazioni, poi, hanno senso in quanto conducano a una maggiore concorrenza non certo per sostituire il monopolio privato a quello pubblico.
I singoli Stati e l'Unione devono favorire la realizzazione delle infrastrutture di base e delle reti di comunicazione. Anche le opere pubbliche di iniziativa nazionale vanno pensate in un'ottica di interconnessione a livello europeo, sia per accrescere il rendimento delle infrastrutture stesse, sia per meglio diffondere la concorrenza.
Le imprese stanno cambiando, ma devono cambiare, non abbandonarsi alla corrente della domanda di breve periodo. Nel rinnovamento del sistema imprenditoriale hanno grande rilievo le piccole e medie imprese. Ciò è in parte conseguenza delle nuove tecnologie: il salto tecnologico ha investito i processi produttivi, ha modificato l'impostazione di politica industriale che si fondava sulla produzione di massa. La flessibilità, l'agilità produttiva, sono viste come uno degli strumenti più efficaci per adattare rapidamente le caratteristiche della produzione al processo tecnologico e all'evoluzione della domanda.
Siamo in presenza di una drastica riduzione del cielo di vita degli impianti. Linee di produzione che duravano decenni divengono economicamente obsolete dopo pochi anni. Questo si riflette nell'organizzazione interna dell'impresa, anche nella struttura del capitale. Le imprese maggiori tendono oggi ad operare attorno a un nucleo centrale forte, con un ventaglio di unità operative molto flessibili, talora a loro esterne. Prevalgono dimensioni minori, produzioni che puntano a una maggiore qualità. E' fondamentale per tutte le imprese, grandi e piccole, che vengano ridotti gli adempimenti burocratici, che sia istituito uno statuto giuridico per l'impresa europea, in modo che divenga possibile operare a parità di condizioni in tutti i Paesi dell'Unione.
Alla società dell'informazione deve corrispondere la società dell'apprendimento. Un sistema produttivo che si riorganizza in unità più flessibili, che è consapevole che la qualità stessa dei prodotti e dei modi di produrre è non meno importante dei costi, ha bisogno di investire in modo più intenso, sistematico, nelle risorse umane, nelle infrastrutture immateriali: ricerca, formazione, informatica. Solo così può essere creato un circolo virtuoso con la competitività e si può dar luogo alla creazione di più numerosi posti di lavoro specializzati.
La formazione deve diventare un processo continuativo; essa deve durare per tutto l'arco della vita lavorativa; deve investire una sempre più ampia quota delle forze di lavoro; non deve limitarsi a creare isole di eccellenza. L'attività di formazione post-iniziale è compito di cui devono darsi carico in primo luogo le imprese. La preparazione e l'aggiornamento sul posto di lavoro non sono sufficienti. Bisogna pensare a diffondere rapidamente esempi, che pure esistono, di cooperazione tra università e industria, di iniziative congiunte delle parti sociali: sta ai governi svolgere un'opera di promozione, di coordinamento. Tutto ciò è nell'interesse dell'impresa; è nell'interesse dei lavoratori. La sicurezza di essere occupato ha il suo principale presidio nel bagaglio di professionalità che il lavoratore deve continuamente aggiornare.
Da più parti, ad esempio, si richiede maggiore flessibilità nell'utilizzo del lavoro. E' una giusta esigenza. Essa deve essere ricercata in modi che non la rendano strumento di arbitrio, ma anzi valgano ad accrescere l'obiettivo da tutti condiviso: una maggiore occupazione. Si pensi agli effetti positivi che sull'occupazione, sulla sua stabilità, sullo stesso costo del lavoro, diretto e indiretto, può avere un modo nuovo di interpretare e applicare gli orari di lavoro: un loro utilizzo elastico secondo le esigenze produttive dell'impresa può ridurre il ricorso sia agli straordinari sia agli ammortizzatori sociali, accrescendo l'occupazione e dandole maggiore stabilità nel tempo.
La trasformazione dell'impresa impone un diverso e più qualificato sostegno da parte del sistema finanziario, ma anche un cambiamento nelle relazioni industriali, nel mercato del lavoro. La naturale vocazione del sistema produttivo europeo è quella di cercare di eccellere nella qualità dei prodotti; il che significa qualità dei processi produttivi. Una combinazione dei fattori produttivi, capitale e lavoro, che si basi sulla qualità di ambedue, non meno che sul loro costo, implica nuove relazioni fra le parti sociali. Sono definitivamente superati i vecchi modelli della conflittualità permanente. In Italia abbiamo sperimentato a partire dal 1992-'93 l'efficacia della politica di concertazione, della politica dei redditi. L'antica spirale costi salariali/prezzi è stata rotta. Dal dopoguerra, questo non era mai accaduto. Tuttavia non possiamo fermarci a quanto finora conseguito. La politica di concertazione ha bisogno di nuovo slancio, di darsi nuove mete, di essere applicata ad altri aspetti delle relazioni di lavoro, la formazione, la ricerca e la sua diffusa applicazione, i problemi specifici delle zone a più basso sviluppo, a più alta disoccupazione.
E c'è bisogno di uno sforzo collettivo, che investa le amministrazioni pubbliche, il governo, i sindacati, gli imprenditori, il sistema finanziario e quello distributivo, per affrontare l'emergenza più grave: i crescenti squilibri territoriali. In Italia il fenomeno preoccupante al quale abbiamo assistito durante la recente ripresa economica è che essa è stata intensa nelle aree geografiche con maggiore dotazione di capitale e con un sistema imprenditoriale diffuso, debole nelle aree del Mezzogiorno. Un terzo del Paese è rimasto escluso dalla fase di ripresa. Dal '93 ad oggi il tasso di disoccupazione nel Sud è passato dal 17,4 al 22%. La questione del Mezzogiorno non è questione solo italiana, è questione dell'Europa. Una Unione europea che rinunciasse ad affrontare il problema della concentrazione territoriale della disoccupazione non riuscirebbe a costruire un futuro economico veramente stabile. E' nella tradizione più antica della Comunità, dei Paesi che firmarono i Trattati di Roma, pensare insieme, lavorare insieme per la coesione. L'Italia deve impegnare, da parte sua, tutte le energie per utilizzare al meglio i fondi strutturali che hanno proprio quel fine: ridurre la distanza tra aree con diverso livello di sviluppo.
Questo spirito originario della Comunità deve persistere, va rafforzato, proprio oggi che si avvicina l'avvio della terza fase dell'Uem. Ma per aggredire il problema della disoccupazione, specie là dove si concentra, serve un convergere di volontà, di iniziative, uno slancio che esca dall'ordinaria amministrazione, che coinvolga i governi e gli operatori economici, i singoli Stati e l'Unione europea.


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