§ INFLAZIONE & POLITICA DEI REDDITI

UNA PIETRA ANGOLARE




M. B.



Chi avrebbe mai detto, negli anni Settanta e Ottanta, che un giorno in Italia, al centro del dibattito politico e sulle prime pagine dei quotidiani, avrebbe campeggiato l'ardua questione: il tasso d'inflazione che vogliamo per il prossimo anno deve essere del 2,5 oppure del 3 per cento? Per un Paese che ha attraversato i carboni ardenti dell'inflazione a due cifre e a due decine, viaggiare verso le acque in semi-bonaccia di un'inflazione al 2-3 per cento vuol dire aver cambiato pelle e pianeta. E vuol dire soprattutto aver già quasi raggiunto la meta. "Viaggiare con la speranza è meglio che arrivare", dice un vecchio proverbio. Ma nel campo dell'inflazione, dove le aspettative dettano il processo di formazione dei prezzi, chi "viaggia con l'aspettativa" si può definire come già arrivato.
Ciò detto, la materia delle ultime contese si conferma come la classica tempesta in un bicchier d'acqua. Il dilemma verteva sul seguente problema: il tasso d'inflazione programmato (Tip) per il 1997, indicato dal Documento di programmazione (Dpef) nel 2,5 per cento, deve valere anche per i contratti già scaduti e dei quali sarà in corso la rinegoziazione?
Prima di rispondere alla domanda, bisognava meravigliarsi della domanda stessa. Perché il problema si poneva a metà 1996, e non si era posto negli anni passati? Gli accordi sul costo del lavoro prevedono che ogni anno il governo fissi gli obiettivi d'inflazione. Dato che i contratti scadono, a seconda dei settori, in modo scaglionato nel tempo, ogni anno, al momento della fissazione del nuovo Tip, vi sono contratti firmati da poco e altri ancora da firmare. Non si era mai posto, dunque, un problema di equità fra contratti; semmai, i raccordi erano stati gestiti pragmaticamente e con reciproca soddisfazione. Il problema si proponeva proprio in quel momento perché purtroppo, nel periodo immediatamente precedente, i tassi d'inflazione effettivi si erano rivelati superiori a quelli programmati, e in alcuni si era formato il convincimento che abbassare il Tip voleva dire automaticamente abbassare il salario reale.
Questo convincimento non aveva tuttavia ragion d'essere per il periodo seguente. Quel che successe in passato fu dovuto a un evento eccezionale - il più forte deprezzamento della lira nel dopoguerra - che avrebbe impoverito Paese e salari quale che fosse stato il regime del costo del lavoro. Va ad onore della politica dei redditi che questo inevitabile impoverimento si sia consumato senza dar vita a una spirale prezzi-salari che avrebbe generato alti tassi e crisi del debito pubblico. Oggi, la forza della lira e l'assenza di tensioni nei prezzi internazionali indicano che l'inflazione italiana sarà più che mai "fatta in casa". E la grande scommessa della politica dei redditi "d'anticipo" - intuizione felice di una vittima illustre del terrorismo, Ezio Tarantelli, che vede l'inflazione piegata verso il basso dalle attese frutto di comportamenti coerenti - può e deve essere vinta.
Bisogna allora concludere che gli aumenti salariali per il 1997 non devono essere superiori al 2,5 per cento di cui al nuovo Tip? Non necessariamente. Quella è una decisione da lasciare alle parti sociali, cui il governo si limita a indicare un obiettivo.
L'accordo del luglio 1993 ammetteva esplicitamente che una parte della produttività avrebbe potuto essere "appropriata" dalla contrattazione nazionale. Quel che al governo deve stare a cuore è che l'aumento complessivo del costo del lavoro - frutto della contrattazione nazionale e integrativa, della riforma dei mansionari, delle riparametrazioni e dei mille rivoli dello slittamento salariale - sia compatibile col tasso d'inflazione programmato.
Se, dunque, tutti i protagonisti del dibattito erano d'accordo - come erano d'accordo -sull'obiettivo della bassa inflazione, non vi era alcuna ragione di disputarsi un mezzo punto in più o in meno per un particolare gradino del processo di formazione dei salari. Quel che vale invece la pena di ricordare è che l'obiettivo di un'inflazione al 2,5 per cento nel corso del 1997 - e al 2 per cento nel 1998 e 1999 - è la pietra angolare di una strategia di difesa dei redditi dei lavoratori. Non tanto e non solo per un'ovvia considerazione: l'inflazione bassa l'allunga" il potere d'acquisto del reddito. Ma soprattutto perché il risanamento del bilancio pubblico - e i sacrifici che comporta per gli italiani - potrà essere di tanto meno pesante, quanto più si alleggerirà una spesa per interessi che è sensibilissima all'inflazione.
Consolidare un'inflazione bassa è veramente "la madre di tutte le manovre". E quanti ostacolano la lotta all'inflazione non fanno altro che preparare agli italiani un futuro di più alte tasse e di altri dolorosi tagli di spesa. E questo non è nei desideri di nessuno.


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