§ ASPETTANDO L'EUROPA

MA QUALE ROBIN HOOD




Mario Baldassarri



Prima aveva vinto il centro-destra, poi aveva vinto il centro-sinistra. In entrambi i casi lira e Borsa hanno segnato recuperi consistenti e positivi. Questo può sicuramente essere la "prova provata" che gli operatori finanziari internazionali non hanno preferenze definite di colore e di coalizione. Essi basano la loro fiducia, in primo luogo, sulla stabilità di governo, e, in secondo luogo, sull'uso che il governo mostra di voler fare della sua eventuale stabilità. Sgombrato così il campo dagli "untori del 2000", cerchiamo di capire che cosa è successo alla lira e alla Borsa, e perché è successo.
A ben vedere, non è poi successo granché. Non bisogna mai dimenticare che la Borsa di Milano è una "Borsetta", con pochi titoli quotati, con pochi gruppi economici rappresentati, con pochi operatori. Se immaginiamo Wall Street come un grande lago, Milano è poco più di un bicchiere di birra. Se cade un sasso nel lago fa solo un po' di cerchi d'acqua, se cade in un bicchiere scatena una tempesta e... rompe il bicchiere. Ed è comunque un affare per gli speculatori che comprano bicchieri rotti a poche lire e riescono a venderli sani (o apparentemente sani) a molte migliaia di lire.
Sul fronte della lira, dopo aver sfiorato quota mille sul marco, siamo tornati oltre quel livello. Non è affatto una tragedia. La nostra moneta può avere un solido equilibrio tra le 1.000 e le 1.050 lire. Il problema vero è quello di non tornare a sfondare le 1.100-1.200 e via di quel passo avvenuto nella scorsa primavera, quando sfiorammo la "via messicana".
Il perché di quanto successo è in gran parte dovuto al "paradosso americano". Infatti, mentre l'Europa striscia sul fondo del ciclo economico e il Giappone stenta ancora a consolidare la sua ripresa, gli Usa continuano ad essere la sola locomotiva trainante. Molti si aspettavano e si aspettano che la lunga fase espansiva americana dia segnali di surriscaldamento e di ripresa dell'inflazione. In tal caso è facile prevedere un aumento dei tassi d'interesse americani. I mercati cercano di "anticipare" questo evento e fanno cadere la Borsa di New York e il dollaro. Milano e la lira reagiscono come il succitato bicchiere di birra. Ma allora non c'è niente di "nostro"? Nel recentissimo passato, "poco"; in prospettiva, "molto". Infatti su quello sfondo "internazionale" abbiamo aggiunto di nostro la consumazione di un importante atto economico e politico.
Atto economico. Il Dpef ha dovuto "cercare" una maggioranza aritmetica con l'estrema sinistra. Ne è scaturito un compromesso impossibile: quello cioè di abbattere l'inflazione sotto il 2% e seguire rigorose linee di finanza pubblica (strada congiunta e necessaria per portarci in Europa) con il via libera ad aumenti salariali nominali e del costo del lavoro attorno al 5% all'anno che rende poco credibile e molto demagogico il pur generico impegno a salvaguardare il potere d'acquisto dei lavoratori lungo la pericolosa china di una nuova spirale salari-prezzi-svalutazione.
Atto politico. Come due anni fa, appena l'esecutivo ha incontrato le prime difficoltà, molti si sono mossi per trovargli una "pronta alternativa" piuttosto che affrontare con onestà e coraggio politico il "dovere" di governare e il "dovere" di controllare dall'opposizione.
Ecco perché non è molto rilevante capire che cosa è successo e perché. Ben più determinante è capire che cosa potrà capitare nell'immediato futuro. Il nodo da sciogliere è quello di far capire la demagogia della campagna di guerra che un falso Robin Hood, imparando dai salotti dei borghesi e dalle raffinate tecniche del marketing capitalista, ha voluto combattere sul 3% di inflazione programmata tentando di "vendere" la sua merce a milioni di lavoratori italiani che purtroppo hanno crescenti difficoltà a far quadrare i conti familiari a fine mese e a far trovare un lavoro ai propri figli. La battaglia per il 3% invece del 2,5% vale infatti soltanto 7.500 lire al mese per un lavoratore normale.
Se questa avesse contribuito alla "svalutazione della lira" in quegli stessi giorni, circa il 2%, significherebbe che, dovendo pagare più caro quel 20% di Pil che sono le nostre importazioni, la nostra inflazione sarebbe più alta di circa lo 0,4%. In quei giorni avremmo già bruciato in termini reali circa 6.000 di quelle 7.500 lire.
Eppure non dovrebbe essere difficile far capire che è certamente meglio avere un aumento di salario dell'1% con un'inflazione dell'1%, piuttosto che avere un aumento del 5% con un'inflazione dell'8% o più. Nel primo caso non solo si salvaguarda il potere d'acquisto, non solo si possono ridurre i tassi d'interesse facendo "sparire" il deficit pubblico e stimolando gli investimenti, non solo si porta l'Italia in Europa, ma soprattutto si aprono spazi concreti al lavoro dei giovani disoccupati, senza illuderli ancora per anni con proposte di assunzione pubblica per i lavori "socialmente utili", o peggio ancora con sconfinate liste di concorrenti ai concorsi pubblici nazionali e locali.


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