§ DIBATTITI

IL RIEQUILIBRIO




Giorgio Fossa
Presidente della Confindustria



La carenza di mercato e l'eccesso di statalismo hanno diffuso nel nostro Paese il germe della protezione e dell'appartenenza corporativa come strumenti di solidarietà. Viceversa, la protezione e l'appartenenza corporativa generano alla lunga gruppi supergarantiti sempre più ristretti e strati sempre più vasti di popolazione esclusa da qualunque forma di garanzia. E questo è il contrario esatto della solidarietà. Dunque: meno protezione, per realizzare più solidarietà vera. Più liberalizzazione per consentire la crescita di nuove imprese e nuovi posti di lavoro. Più flessibilità per creare nuove forme di lavoro che altrimenti resterebbero inespresse o sommerse. Più strumenti di autosolidarietà, meno garanzie previdenziali obbligatorie. Occorre mettere in relazione diretta chi paga e chi ottiene i servizi. Per questo ci battiamo per la riforma del finanziamento della sanità, che oggi grava in gran parte sulle imprese e sui lavoratori, mentre i servizi sanitari vengono utilizzati da tutti i cittadini.
E' in questa logica che da tempo abbiamo proposto di mettere nelle buste paga dei nostri dipendenti i contributi sanitari che le imprese versano, affinché la spesa sanitaria venga pagata da un'addizionale Irpef a favore delle regioni.
Nel Sud ci sono segnali di vivacità che non vanno sottovalutati. Da soli non sono sufficienti per invertire una tendenza. Ma bisogna sapere che esistono. Un economista meridionale ha giustamente sostenuto che il Sud ha avuto, allo stesso tempo, "troppo" Stato e "poco" Stato. Ed è vero.
Troppe opere pubbliche inutili e senza criterio; troppe clientele; troppi sussidi. Ma poche infrastrutture mirate, poca tutela dell'ordine pubblico, pochi investimenti nella formazione e nei servizi collettivi di base.
Il risultato è oggi un forte deficit di infrastrutture materiali e immateriali, un basso livello di vivibilità, problemi di sicurezza diffusi in molte aree. In queste condizioni non c'è dubbio che, in assenza di correttivi, possa esserci in prospettiva la difficoltà di tenere insieme un pezzo di Paese che appare pienamente integrato col cuore dell'Europa, e un altro che è stato sinora colpevolmente abbandonato al proprio destino.
Bisogna consentire alle regioni meridionali di avviarsi verso un rilancio autonomo. Il Sud deve avvicinarsi ai livelli del Nord, e non viceversa; deve dimostrare di essere anche una fonte di reddito per la Nazione intera, e non solo un costo. L'integrazione del Mezzogiorno deve avvenire valorizzando le risorse locali, non applicando modelli importati artificiosamente. La mia speranza è che, come è accaduto per il Nord-Est, che fino a pochi anni fa era in alcune sue parti in condizione di oggettivo sottosviluppo, in un futuro non lontano si possa parlare anche per il Sud di un modello produttivo autosufficiente. Però, con una avvertenza: come non amo parlare di "miracolo" del Nord-Est, così non credo che il Sud debba aspettarsi eventi miracolosi.
Quando penso a un modello autonomo di sviluppo, mi riferisco a tutti i settori dell'attività economica: l'industria, l'agricoltura, i servizi e il turismo. Lo Stato deve concentrare i suoi sforzi per debellare la criminalità presente in vaste zone del Sud, per aumentare in modo decisivo l'efficienza della Pubblica Amministrazione. Per convogliare investimenti rilevanti nelle aree depresse bisogna sperimentare nuovi modelli di intervento amministrativo e gestionale. Occorrono organismi dotati di poteri effettivi, in grado di garantire il raggiungimento di obiettivi di respiro strategico per l'intero Mezzogiorno. Le autonomie locali vanno certamente salvaguardate, ma ciò non deve implicare il rallentamento o addirittura il blocco di opere importanti per l'economia del Sud.
Tutte le forze sociali hanno il loro ruolo: le imprese del Nord devono potersi collegare al tessuto produttivo meridionale con investimenti e con relazioni economiche di committenza e di cooperazione. Il sindacato deve favorire condizioni di attrattività per le imprese con modalità di prestazioni e costi del lavoro che risultino effettivamente competitivi.
La flessibilità normativa e salariale gioca qui un ruolo fondamentale. Sinora in Italia si è considerato normale solo il modello del lavoro a orario pieno a tempo indeterminato. Tutte le altre forme di lavoro, dal tempo determinato al part-time, al lavoro interinale, sono state considerate deviazioni dalla regola.
Se vogliamo veramente creare nuova occupazione, dobbiamo dare pari dignità ad ogni forma di lavoro trasparente e regolato, rinunciando a norme rigide e ampliando le possibilità contrattuali. Il sindacato ha tutti gli strumenti per verificare che la flessibilità non degeneri in abuso.
Abbiamo chiesto al sindacato di applicare la flessibilità anche al salario, prevedendo la possibilità di scendere in casi determinati, contrattati e temporanei, sotto i minimi contrattuali. Questo si fa già, nei cosiddetti "contratti di emersione", per riportare in trasparenza condizioni di lavoro sommerso. Si tratta di rendere possibile a tutti coloro che vogliono avviare una nuova impresa nel Sud e nelle altre aree deboli ciò che è già oggi possibile a chi è in condizioni di irregolarità. Vorrei chiedere a quella parte di sindacato, che ancora si oppone alla flessibilità salariale, in base a quale principio di equità si nega a chi vuole agire nelle regole ciò che si è concesso a chi ha agito sinora fuori dalle regole.


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