§ DIBATTITI

VIAGGIO NEL SUD




Egidio Sterpa



Ho compiuto recentemente un lungo viaggio nel Sud d'Italia con lo scopo preciso di "rivisitare" la Questione Meridionale, alla quale 20-30 anni fa, come inviato speciale di importanti giornali, tra cui il Corriere della Sera, ho dedicato centinaia di articoli, saggi e qualche libro (Battibecco tra le due Italie, La rabbia del Sud, Anatomia della Questione Meridionale).
Il consuntivo di questa rivisitazione è purtroppo negativo: il nostro Mezzogiorno è in fase di regresso. Più di quarant'anni di politica meridionalistica non sono bastati per metterlo in posizione di decollo, anzi l'impressione che se ne riporta è che esso rischia di rimanere pericolosamente staccato dal Nord. Occorre un miracolo perché questo non avvenga. Sarebbe, diciamolo pure, il miracolo di cui l'Italia ha estremo bisogno per avere - tutta, e non solo una parte di essa - un futuro affidabile. Il mio pessimismo è motivato: nasce dall'osservazione dei fatti, dalle cose viste e dalle opinioni raccolte, oltre che dai dati statistici inoppugnabili.
A proposito di dati statistici, eccone uno che rende persino superfluo citarne altri: nel 1950, subito dopo la fine della guerra, il reddito pro-capite del Mezzogiorno era pari al 54% di quello del Centro-Nord; nel 1995, quasi mezzo secolo dopo, è pari al 56%. Mezzo secolo e migliaia di miliardi per un due percento in più sono un caso clamoroso di fallimento. Come è potuto accadere? Perché?
La prima e fondamentale considerazione è che sin dall'inizio dell'intervento straordinario mancò una strategia e quindi una visione razionale di questo grande problema italiano.
Esso era, è vero, conosciuto attraverso tante testimonianze di ricercatori, studiosi, politici passati alla storia come "meridionalisti" (da Fortunato a Nitti, da Sonnino a Franchetti e a Salvemini, Ciccotti, De Viti De Marco, Colajanni, Villari, Gramsci, Sturzo, fino ai più vicini a noi, come Saraceno, Rossi Doria, Compagna, Fiore, Sylos Labini; senza dimenticare De Gasperi, che alla questione meridionale diede grande testimonianza politica; oltre a scrittori e narratori come Alvaro, Alianello, Silone, Levi, Jovine, Tomasi di Lampedusa, per non parlare di Croce; ma, in verità, nell'affrontarlo si pensò in termini quasi esclusivamente sociali. Quel che voglio dire è che la questione fu vista come un problema di povertà da attaccare e ridimensionare.
Questo portò ad interventi frettolosi e irrazionali, i cosiddetti interventi a pioggia, che fecero cadere provvidenze ovunque senza programmi precisi e sistematici, mentre il problema vero era di attuare una strategia che desse vita ad un sistema economico.
Fu questo l'errore iniziale. Certamente i primi venti anni di Cassa del Mezzogiorno determinarono effetti positivi: si costruirono strade, fogne, acquedotti, cimiteri, (sì, c'era persino questa carenza in molti villaggi del Sud), ed edifici pubblici, scuole, si aiutò la riconversione dell'agricoltura, si progettarono dighe, si portò la luce e il telefono dove non c'erano. Anche la riforma agraria contribuì a spezzare il sottosviluppo e a dare una spinta alla crescita sociale. Un certo riassetto sociale ci fu, come negarlo?
Ma a monte di tutto mancò una regia avveduta, una visione moderna della politica di sviluppo.
I nostri meridionalisti, in verità, erano più dei sociologi, oltre tutto meridionali di nascita e cultura, e quindi mossi generosamente dall'impulso di aiutare comunque il Sud, piuttosto che economisti e studiosi dei fenomeni di sviluppo del capitalismo e dell'industrialismo. Pochi avevano letto o comunque meditato e assorbito Max Weber e d'altra parte non vennero tenute in gran conto opinioni come quelle del nostro Einaudi (ch'era tutt'altro che un liberista "enragé", e anzi c'era nel suo pensiero una socialità razionale e moderna), il quale non mancò di invitare alla prudenza e alla pazienza: parlò infatti di "tempi lunghi", mentre ci si illuse che esistessero scorciatoie per una rivoluzione industriale del Sud.
Quando ci si accorse che gli interventi a pioggia non servivano allo scopo, si provvide a qualche correzione, e infatti si puntò a creare i cosiddetti "poli di sviluppo", concentrando investimenti in determinate zone che parvero più idonee di altre a determinare sviluppo. Sorsero così l'AlfaSud in Campania, il Siderurgico a Taranto, si pensò addirittura a un quinto centro siderurgico in Calabria, svaporato tra molti sprechi, centri petrolchimici a Ragusa, Gela, Brindisi. Ma non tutti questi interventi furono felici perché rappresentarono nella sostanza non un'innovazione, ma l'innesto di imprese già vecchie e senza lunga prospettiva, come del resto la stessa Comunità europea fece inutilmente rilevare. Oggi, rivisitando quei famosi "poli di sviluppo", questa dura realtà è tangibile: l'indotto che avrebbe dovuto provocare intorno a sé o non è sorto, o, dove s'è prodotto per volontà eterodiretta, è in via di collasso.
Nel frattempo è accaduto anche di peggio: la politica meridionalistica è stata strumentalizzata a fini politici. La generosità iniziale che muoveva i più genuini e onesti meridionalisti si è trasformata, ad opera dei partiti, in clientelismo; le strade, le fogne, gli acquedotti, le opere pubbliche in genere, ogni provvidenza, diventavano strumento per raccogliere consensi e voti. li primato della politica, che in democrazia è fondamentale, ha finito col diventare gestione del potere per il potere e non per il riscatto e la determinazione di un futuro migliore di quelle regioni.
Oggi forse si esagera nell'attribuire responsabilità ad una vecchia classe politica, ma è pur vero che i partiti diedero luogo, con la partitocrazia e i suoi ras locali, a nuove baronie, a volte più avide di quelle antiche blasonate, se non altro, come ebbe a dire un meridionalista pugliese, Michele Abbate, "per antica fame, Come Una classe dirigente coloniale, rumorosa e procacciante, abilissima nei salamelecchi e nelle pugnalate alla schiena".
Nel riscrivere la storia della questione meridionale non si può ignorare tutto ciò. La questione, in sostanza, va rimeditata e reimpostata tutta daccapo. C'è bisogno di riconvertire il sistema economico che si è creato nel Sud. D'altra parte non c'è altra strada, ora che l'intervento straordinario è stato abolito ed è impensabile che possa venire resuscitato. Si può ipotizzare, semmai, un intervento di tutt'altro genere, dove si incontrino e si saldino razionalmente e proficuamente l'interesse dello Stato con quello dell'iniziativa privata a metter mano ad una questione che senza dubbio condiziona l'Italia intera sulla via del suo sviluppo nell'ambito europeo; ma pensare ad un nuovo fiume di denaro proveniente dalle stremate casse dello Stato è fuori dalla realtà. E' comunque indispensabile una più profonda riflessione su questo grande problema italiano, ed è soprattutto necessario mettere a punto una nuova strategia.
Si parla molto di un "fatto per il Sud", in cui siano coinvolti la politica, il sindacato, le forze sociali in genere e l'iniziativa privata. Non è una concezione sbagliata, sempre però che non ricompaiano la demagogia e la strumentalizzazione politica. Sintomatico è il convegno dedicato al Sud tenuto nella sede della Banca d'Italia nel marzo di quest'anno, con la partecipazione di Fazio, Agnelli, Romiti, Geronzi, De Rita, vari imprenditori e studiosi. La crisi del Sud, vi è stato affermato, può comportare rischi per l'equilibrio politico e sociale e per le possibilità di sviluppo dell'intero Paese. Ha detto, fra l'altro, il presidente della Fiat: "La sfida della modernità non può essere elusa. Occorre che la parte più avanzata della società civile del Sud si faccia protagonista di questa sfida; che sia capace di scommettere sul proprio futuro; che esprima la volontà di entrare in rapporto col mondo".
Non c'è dubbio: la spinta e l'onere maggiore per una riconsiderazione e il rilancio della questione meridionale spettano ora soprattutto ai meridionali, alle forze endogene, come insisteva già anni fa Francesco Compagna. Certo, le esigenze del Sud vanno collocate dentro una nuova politica nazionale, ed è impensabile che possa avvenire diversamente, ma la classe dirigente meridionale, soprattutto quella non partitica, deve trovare il coraggio, oltre che la capacità, di farsi quanto meno co-protagonista fortemente attiva del rilancio del Mezzogiorno.
A questo punto non si può ignorare una constatazione che non sfugge a chiunque oggi visiti il Sud. Si dice da talune centrali politiche, e lo scrivono anche alcuni giornali (c'è un nuovo conformismo pure nella stampa), che sta crescendo e si va selezionando nel Sud una nuova dirigenza politica. Ho girato molto in questa mia rivisitazione del Sud, ho parlato con molta gente, ho verificato talune situazioni; ebbene, francamente, non sono tornato a casa con impressioni positive in tal senso. La vecchia classe dirigente ha tante colpe, culturali e politiche, ha commesso peccati anche d'ordine morale, ma essa ha espresso risultati certamente non disprezzabili per statura e spessore. La nuova mi è apparsa per ora molto rumorosa, rissosa non meno della precedente, procacciante e arruffona quanto la parte peggiore della vecchia e dedita a gridare soltanto retoricamente il suo novismo. Non più di tanto. Ce ne vorrà perché diventi davvero classe dirigente. Per ora non si nota la scomparsa degli antichi vizi.
Per finire, sta proprio qui uno dei fattori che alimenta il mio pessimismo. Ci saranno nuovi Saraceno, Rossi Doria, Compagna, Fiore, capaci di stimolare e sollecitare quel dinamismo, quella voglia di fare e di intraprendere che sono richieste alla società meridionale? Vale ancora il concetto espresso da Guido Dorso nella sua Rivoluzione meridionale: occorrono "uomini di ferro", che per ora non si vedono? E vale sempre quel che diceva Giustino Fortunato, oggi forse più di ieri: alle soglie del Duemila la questione meridionale è soprattutto una questione nazionale, perché è in gioco la possibilità di restare nel novero delle potenze industriali o di decadere ad un second'ordine? Le elucubrazioni federaliste-separatiste non riescono a scalfire questa realtà.


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