§ IL CORSIVO

MITTELEUROPA?




Aldo Bello



Secondo l'ateniese Tucidide, una guerra scoppia quando è "inevitabile". Cento altri incidenti, analoghi a quello che poi tutti proclameranno decisivo, passano senza portare alla deflagrazione. Quell'unico, no, sebbene in sé sia tanto poco decisivo quanto gli altri. Pericle che impone il blocco commerciale per strozzare Megara, città peloponnesiaca, provoca una guerra. La quasi invincibile flotta ateniese si è permessa tutto e il contrario di tutto, ma questa volta non passa. La confederazione peloponnesiaca si raduna, su richiesta pressante di Corinto, la rivale commerciale di Atene, e dopo accese discussioni emana un ultimatum: o il ritiro del blocco o la guerra. Sparta, dopo avere esitato, accede a questa linea di rottura. Tucidide si chiede perché, e conclude: lo fece non perché persuasa dagli argomenti giuridici degli alleati, ma perché, per parte sua, si era convinta che Atene fosse ormai "troppo potente" e che, per questo, la guerra fosse "necessaria".
Stride, ovviamente, con questa cruda diagnosi, lo strumentario di propaganda con cui il conflitto fu avviato. La parola d'ordine di Sparta fu: "Libertà"; l'ingiunzione formulata alla potenza avversaria, prima di procedere all'invasione, fu di "restituire ai Greci la libertà" (e infatti l'impero ateniese era fondato sulla brutale repressione di ogni tentativo di defezione degli alleati). Quando, ventisette anni dopo, Atene si arrese (400 a. C), Senofonte, che era un ammiratore di Sparta, scrisse che "quel giorno incominciava per i Greci la libertà". Per un decennio il mondo greco, fino ad allora bipolare, fu dominato dall'unica superpotenza rimasta in campo, Sparta, che aveva vinto con la parola d'ordine della "libertà". Poco dopo, uno scrittore politico moderato, Isocrate, nel Panegirico, osserverà: "Di fronte alla loro libertà rimpiangono la nostra egemonia".
Ricorso storico, con un salto di 24 secoli: da Megara a Kuwait City. Nessuno ha creduto che lo "Scudo nel deserto" si era mobilitato per ripristinare il "diritto delle genti". Non fu attaccata la Cina nel 1951, sebbene colpevole di un'ingiustificata invasione del Tibet, Stato autonomo dal 1912 (tanto per restare al solo XX secolo).
Non fu posto l'embargo all'India, anzi nemmeno si borbottò, quando nel dicembre 1961 il dolcissimo, pacifico, non violento Pandit Nehru, discepolo di Gandhi, attuò fulmineamente l'invasione di Goa, sede vescovile portoghese dal 1534, capitale delle Indie Portoghesi dal 1843. Peraltro, per venire in Europa, è difficile negare che un pezzo cospicuo e non rassegnato dell'Irlanda continui ad essere occupato manu militari dall'esercito inglese. Quanto all'Iraq e al Kuwait, potremmo discettare piacevolmente in termini storico-giuridici, oltre che politici. Eravamo stati martellati da una vasta apologetica favorevole a Saddam Hussein, "laico", nato, scolaro diretto di Mazzini (un Mazzini islamico: aveva fondato il partito Baath), che aveva voltato le spalle all'Urss ed era sceso in guerra contro la "barbarie medievale" dell'Iran khomeinista. Fu fatto credere che l'attacco fosse partito da Teheran, mentre l'aggressore era stato l'Iraq.
Ma tant'è: non è stato scritto che la storia è una menzogna sulla quale concordano tutti gli storici?
Dieci anni dopo, brusca virata: Saddam era il criminale aggressore, il negatore delle tradizioni nazionali kuwaitiane. Mera perdita di tempo chiedersi cos'era mai il Kuwait, parte della provincia irachena di Bassora dal XVIII secolo fino al 1899, poi protettorato inglese (dal 1914), aperto a un "condominio" americano nel 1934 dalla celebre Il concessione speciale" per lo sfruttamento del petrolio. Insomma, una storia da Sette Sorelle. Dunque, il grande problema, come avvertiva il vecchio Tucidide, era che ancora una volta la superpotenza che aveva reso stucchevole la parola più bella, "libertà", avesse deliberato che la guerra fosse "necessaria". Necessaria, dal suo punto di vista imperiale, perché il colpo di testa di Saddam dava il via all'inizio di un conflitto che da tempo era nell'aria, e incombeva, anche se tutti facevano finta di non vederlo: quello del Sud contro il Nord del mondo.
Eliminata di fatto, per non si sa quanto tempo, la realtà costituita dal "campo socialista" - che canalizzava e imbrigliava il conflitto Est-Ovest con bipolari politiche di potenza - e scomparsa la rivalità su cui si era retta la "lunga pace" del secondo dopoguerra e della stessa "guerra fredda", Nord e Sud del mondo si sono trovati subito faccia a faccia. Sparta ha sempre una Megara per cui scendere in campo.
In uno dei più famosi Essays in Persuasion, pubblicati nel 1933, Keynes si avventurò in questa singolare profezia: "Facendo l'ipotesi di una assenza di guerre importanti e della mancanza di drammatici aumenti di popolazione, il problema economico potrà essere risolto, o almeno portato vicino alla soluzione, entro un secolo. Ciò significa che tale problema non è - se guardiamo al futuro - destinato ad essere permanente per il genere umano".
Previsioni economiche misurate sul metro dei secoli hanno, ovviamente, poco senso. E poi, la crisi scoppiata improvvisamente quattro anni prima, nel '29, aveva toccato nel '33 il fondo, ed era ancora incerto se, e in quale maniera, il mondo occidentale sarebbe uscito dalla depressione. C'erano quindi più ragioni per riflettere. Le idee correnti sullo sviluppo economico erano ancora quelle esposte dai classici che avevano individuato nell'accumulazione di capitale e nel progresso tecnologico le condizioni per assicurare una crescita ininterrotta della ricchezza. Adam Smith, David Ricardo, John Stuart Mill avevano in mente soprattutto l'Inghilterra, e pensavano, come Keynes, che il tempo e la convenienza a investire dove i capitali erano più scarsi avrebbero contribuito a diffondere benessere e sviluppo.
Il problema delle aree arretrate era così risolto a tavolino, con un elegante modello teorico. Le sue dimensioni e le difficoltà di porvi rimedio balzarono prepotentemente agli occhi della comunità internazionale nel '39, quando Colin Clark diede alle stampe The conditions of economic progress. "Per la prima volta nella storia", scrisse Heinz W. Arndt, "il divario esistente tra i livelli di vita dei Paesi ricchi e quelli dei Paesi poveri era descritto con la durezza dei termini statistici". Da oggetto di fiduciosa certezza, lo sviluppo era diventato per politici ed economisti un problema che doveva essere affrontato senza ulteriore indugio. In un certo senso, nel '33 si era conclusa la preistoria di quest'idea. Cominciava la sua agitata storia.
La prima fase viene collocata da Arndt tra il '45 e il '65. Alla fine della guerra esisteva in tutti i Paesi occidentali un ampio consenso sulla necessità di far qualcosa per risolvere "il problema urgente dello sviluppo economico dei Paesi arretrati". La Fao, appena costituita, riteneva addirittura che "lo sviluppo dei Paesi meno avanzati poteva essere considerato come la principale necessità che avrebbe caratterizzato i decenni successivi al conflitto". Le diseguaglianze erano sempre esistite, ma in genere si riteneva che fossero un dato naturale. Nel secondo dopo guerra, invece, si cominciò a considerare la povertà come un'ingiustizia della storia, alla quale si doveva porre rimedio.
L'obiettivo che si ponevano i teorici dello sviluppo era quello di un aumento del reddito pro capite, ottenuto grazie ad una poderosa accumulazione di capitale. In ciò, essi non si distinguevano molto dai loro predecessori. Tuttavia, l'interesse più acuto che prestavano alle infelici condizioni di una buona metà del genere umano li indusse a riconoscere che la crescita del reddito non era di per sé sufficiente a garantire un benessere più diffuso, e che l'accumulazione di capitale non bastava, da sola, a migliorare l'apparato produttivo di un Paese. Si fece così strada l'idea che lo sviluppo era un processo molto più articolato, che non poteva essere ricondotto a un semplice teorema. Il decennio che va dal '65 al '75 fu perciò caratterizzato da un approccio che mirava a soddisfare i bisogni fondamentali e ad accrescere la capacità delle aree arretrate ad aggredire le cause della loro stagnazione. Infrastrutture e istruzione diventarono i nuclei centrali dei nuovi programmi di sviluppo. Fino a che la crisi della seconda metà degli anni Settanta mise impietosamente a nudo le idee consolidate in questa materia, inserendo la questione dell'arretratezza nel contesto più ampio della creazione di un nuovo ordine economico internazionale. Il 1989 era alle porte.
Nel momento in cui l'Occidente e l'Europa sono divenuti una regola del mondo, in cui tutti si riconoscono, anche coloro che ne erano più lontani, essi rischiano di non essere più una fede ai nostri occhi. Ma è veramente un gran successo questo mondo in cui domina la legge del successo ad ogni costo, dove si conta per quel che si ha e che si può, in cui tutto è immediato e niente ha più significato, in cui le infelicità individuali si sommano e si sopportano con malcelata insofferenza?
Quella che abbiamo di noi stessi, oggi, è un'immagine distruttiva. Guerre, pulizie etniche, devastazioni ecologiche, desertificazioni di terre e mari, egoismi piccolo-patriottardi, ci fanno vivere con un'idea di noi che è soltanto quella della nostra morte collettiva. Gli stessi mezzi di comunicazione di massa hanno alle spalle una cultura che non crede più in se stessa: una cultura che legge nella chiave del Nulla tutti i problemi che la grande avventura europea e occidentale ha posto all'intera umanità.
Chi è capace di dare a quest'Europa e a questo Occidente, vittoriosi nel mondo, ma sfioriti nel loro sentimento del vivere, la convinzione che la civiltà tecnologica può consentire il salto dalla necessità alla libertà, dalla preistoria alla storia? Non esiste civiltà che possa vivere se non spera di avere per sé il futuro. La civiltà tecnologica è obbligata a sperarlo, proprio perché essa ha prodotto nella condizione umana mutazioni irreversibili. Ma, come per contrappasso, tutte le filosofie che hanno accompagnato la cultura europea e occidentale nel suo sorgere non hanno più influenza nel momento in cui essa raggiunge il massimo splendore. Forse, bisogna saper vivere anche senza filosofi, sospinti dalla forza stessa della vita.
Ci mancano i miti collettivi, fantasie che almeno riscaldavano il cuore, anche se non interpretavano il reale. Di fronte a noi è il mondo unico che abbiamo creato, e risuonano di echi perduti i miti che lo avevano animato: da quello capitalista a quello marxista. Sembra ironico citare oggi Hobbes e Spinoza, ma bisogna pur dire che le loro sono state le più grandi parole di speranza che abbiano accompagnato l'avventura europea e occidentale e dettato chiare regole di libertà, di legittimità e di rispetto, poi trasgredite dagli uomini di potere. E' necessario sperare nella ragione europea e occidentale proprio ora, mentre i pensieri che l'hanno fondata vivono soltanto nei libri che li hanno contenuti, e mentre si fanno piccole le ideologie, le patrie, la visione del mondo.
Piccole e anche micidiali, come la Mitteleuropa, termine geo-politico giurassico entro la cui influenza dovevano gravitare, Germania in testa, Austria in subordine, gli Stati compresi fra il Mare del Nord e il Golfo Persico.
L'idea mitteleuropea fu enunciata da due Friedrich: List agli inizi dell'800, e Naumann circa un secolo dopo. I primi detrattori la definirono "un progetto ferroviario", e in realtà comportò, nel 1899, la concessione della costruzione della ferrovia di Baghdad, quella contro cui si accanì Lawrence d'Arabia durante il primo conflitto mondiale. Ma non fu solo una linea di binari che collegavano Amburgo all'Oriente. Ispirò l'alleanza austro-tedesca del 1879, il viaggio a Costantinopoli di Guglielmo II nel 1897, l'annessione della Bosnia nel 1903, l'intervento della Turchia a fianco della Triplice Alleanza nel 1914, quello della Bulgaria un anno dopo, la nascita di una Polonia autonoma nel 1916, la pace imposta alla Romania nel 1918.
Fu un gigantesco progetto politico germanico, la cui realizzazione fu interrotta dalla sconfitta di Vienna e di Berlino e dai Trattati di Versailles.
Questo fantasma ha ripreso ad aggirarsi nella realtà del Vecchio Continente. Ma che cos'è la Mitteleuropa, oggi, al di là del fortunato filone letterario che ha consacrato da noi la fortuna di un Roth, di uno Zweig, di un Kusniewic, o per citare i contemporanei, di un Handke, di un Kundera, di un Magris? Si tratta di quell'entità economica e culturale vaga che raccoglie periodicamente i capi di governo centro-europei? E' esclusivamente un luogo del pensiero e dell'anima, che fa sognare nostalgici intellettuali da caffè? O è un nome sinistro, che evoca le scritte sui vagoni-merci diretti ad Est, al tempo delle deportazioni?
Forse è tutto questo insieme. Più sicuramente è un buco nero. Qualcosa di indefinibile e misterioso, che entrò ufficialmente nella storia nel remoto 1526, quando l'arciduca Ferdinando d'Austria fu incoronato re di Boemia a Praga e re d'Ungheria a Presburgo; che List e Naumann riesumarono in funzione pangermanica; che uscì dalla storia quattro secoli dopo, con la catastrofe del conflitto mondiale. Dopo di che, fu il vuoto, il deserto. O meglio, un complesso mosaico di Stati, medi e piccoli, spesso oppressori delle rispettive minoranze, sempre aggressivi, inquieti, rissosi. Se per lungo tempo furono uniti, ciò non avvenne soltanto perché la dinastia guerriera degli Absburgo li sottomise con la forza. Il cemento che permise a lombardo-veneti, galiziani polacchi, rumeni di Bucovina, croati, bosniaci, tedeschi e cechi di Boemia e a molti altri di identificarsi in una "patria" comune fu la fedeltà semifeudale alla signoria, l'attaccamento al cattolicesimo, la necessità di unirsi contro le invasioni turche e islamiche. Quando i vari risorgimenti nazionali cominciarono a corrodere questo tessuto connettivo, restò solo la figura del sovrano, oltre all'esercito. Poi, nemmeno più questo. Lo storico francese Ernest Denis scrisse nel 1918: "Austria... Nella Nuova Europa che sta per nascere non c'è più posto per lei. Becchini, portatelo via, questo cadavere ... ".
Obbedienti, i becchini della diplomazia internazionale ne fecero sparire ogni traccia. La Mitteleuropa venne solcata da una ragnatela di confini, di fili spinati, di garitte. E inutilmente intorno all'idea di rifondare un'entità politica centro-europea si sono esercitati decine di architetti dell'impossibile.
Inutilmente: perché l'Austria mantiene un atteggiamento distaccato; la Germania è sempre temuta; e in mezzo ci sono i Balcani.
I Balcani sono un inferno lastricato con le cattive intenzioni della Storia. Questa è l'unica parte d'Europa in cui la decomposizione dei due imperi, l'ottomano e l'austro-ungarico, abbia dato origine a Paesi che, per oltre tre quarti di secolo, sono stati creati, cancellati, ridotti o ampliati, secondo i capricci, le convenienze, le ottusità delle cosiddette Grandi Potenze. Qui, come in Africa e in Medio Oriente, i confini costantemente ridisegnati hanno provocato rivendicazioni inestricabili, innescato faide interminabili, alimentato odii inestinguibili.
Il fiume Drina e i Carpazi delimitano molto più di un'area geografica. Al di là - e al di qua - s'incontra un coacervo di comportamenti, di tradizioni, di mentalità, di "culture", insomma, che è difficile riconoscere come europee. Ci si imbatte in molti popoli che corrispondono a poche nazioni. Si sprofonda in territori dove la Storia ha lasciato scritto nulla, se non scarabocchi, graffiti indecifrabili. Si può capire quel che è accaduto in Polonia, in Germania, nell'ex Cecoslovacchia, in Ungheria. Ma è arduo interpretare regioni abitate da gruppi così ben descritti da Cioran: gente che ha sviluppato "un gusto per la devastazione, per il caos interno", che vive in "un mondo simile a un bordello in fiamme", che coltiva "una sardonica inclinazione ad ogni genere di cataclisma, passato o imminente", che ha fatto propria "la pigrizia degli ipocondriaci o degli assassini". Sono i rumeni, i bulgari e grandissima parte degli ex jugoslavi.
All'incrocio fra la decadente autocrazia bizantina e la dispotica burocrazia ottomana, questi territori sono gli unici della cosiddetta Mitteleuropa che non confinano con l'Europa e che non emettono alcun serio segnale per rientrare nell'idea d'Europa. A dividerli dalla somma di ideali, di simboli e di sentimenti racchiusi in quel nome sono la Transilvania, la Serbia, e il resto dell'ex Jugoslavia. La Transilvania rientra nel recinto geografico che i trattati di pace hanno assegnato alla Romania; la Serbia sta semplicemente ai bordi della Bulgaria. Ma è una differenza soltanto formale, perché ovunque, qui, sono state disegnate realtà fittizie. Fra queste, quella costruita attorno a Belgrado fu la più posticcia, e dunque la più esplosiva.
Transilvania, Serbia, le stesse Slovenia e Croazia, malgrado ogni velo pudicamente steso dagli storici di regime, malgrado ogni silenzio e ogni tardivo riesame critico, sono filtri che allontanano nello spazio e respingono nel tempo Romania, Bulgaria ed ex Jugoslavia.
L'Europa balcanica sopravvive spostata verso oriente. Gli infoibamenti in Istria e a Trieste, prima pulizia etnica sterminatrice dell'ultimo dopoguerra; lo spettacolo granguignolesco rumeno, col sangue che colava per le strade e dalle mani dei nuovi satrapi, nell'89; e le soluzioni gattopardesche bulgare, grazie alle quali tutto è cambiato perché tutto restasse esattamente com'era, sono facce di un'unica anima orientale. Sono il prodotto della stessa storia (o mancanza di storia) e della stessa cultura (o mancanza di cultura), di gruppi di micro-società sostanzialmente identiche. Società di paria, che con quelle della Bosnia, del Kosovo, del Montenegro, formano il circuito disperato e neofeudale del Vecchio Continente.
C'è, in Italia, chi reclama una secessione e l'aggregazione a questa Mitteleuropa. Si giustifica il progetto andando a ritroso, fino al Basso Medioevo, quando i mercanti veneziani e gli artigiani tedeschi erano coinvolti in contigui sistemi economici; fino al 1500, quando il "polo dell'argento" della Serenissima vedeva la presenza massiccia di operai e tecnici provenienti dalla Baviera o dal Baden-Württemberg,- e alla fine dell'800, quando l'industria idroelettrica triveneta sorse con capitali in maggioranza tedeschi. Addirittura si risale all'Impero Romano, quando esisteva la direttrice del Brennero, spina dorsale degli scambi tra il Mare del Nord e il Mediterraneo, con Verona crocevia dei commerci continentali.
Tutto (più o meno) giusto. Ma, oggi, una cosa è parlare del Baden o della Stiria, della Boemia-Moravia o della Pomerania; un'altra, invece, della Slovacchia o della Moldavia, della Carpazia o del ventre molle degli Slavi del sud. Da una parte ci sono antiche - e ricche - economie contadine che si sono gradualmente trasformate in aree con fitti tessuti industriali; dall'altra sopravvivono gigantesche plaghe arretrate, impermeabili a qualsiasi rivoluzione copernicana: senza un sussulto libertario, senza un brivido eversore, complici dei miti della fuga, dell'eremo, dell'arcaica lentezza dell'esistenza. Se la Mitteleuropa è un buco nero, queste sono le stelle fredde che si intravedono nel fondo di quel pozzo del tempo e dello spazio. Con esse e con i sudditi che le abitano dovranno fare i conti tutti: chi confina e chi si aggrega, chi secede e chi s'avventura. Una Mitteleuropa alle prese col mondo balcanico (e con quello ultraconservatore turco e vicino orientale, che tradizionalmente ne fa parte) è un'illusione d'Europa, perché lì oggi è uguale a ieri, non si crea futuro, non si sogna un'utopia per la quale valga la pena di battersi, c'è soltanto la prospettiva di una conflittualità permanente: di servitù da sistemi economici, di antropologie chiuse e in reciproco stato d'assedio, di religioni accanite. E qualcuno seriamente ritiene che riesumare questa Mitteleuropa, magari mettendosi al riparo della divisa tedesca (il cosiddetto "San Marco"), sia sufficiente a creare il miracolo di una composizione di nazionalismi, interessi, rancori storici, violenze inter-etniche fossilizzate da una storia più tragica che grande? O che, per quel che ci riguarda, staccandosi dalla penisola, si possa diventare qualche cosa di diverso - nella migliore delle ipotesi - di una Bassissima Baviera?
L'errore madornale è questo: che si invoca persino il principio di autodeterminazione dei popoli, ma si confondono i popoli con le tribù, i dialetti con le lingue, le significanze con le identità. Si può sicuramente discutere di "piccole patrie". Ma si deve tener conto che esse, comunque, comportano la definizione di "luoghi periferici". Ebbene, le piccole patrie, le periferie, dovrebbero conservare lo straordinario privilegio che possiedono: non dovrebbero fare notizia, se non quando siano mescolate ai grandi centri. Esentate dall'obbedienza alla scansione della storia, possono custodire una sorta di competenza magica, il gusto rituale di maneggiare anche oggetti arcaici, di praticare simboli e miti noti a pochi, di esprimersi con parole sacre e impervie - i dialetti, o "lingue tagliate", appunto - con cui comunicano gruppi, osiamo dire, di "anime", e conosciute soltanto dagli déi. Se, al contrario, si atteggiano a grandi centri (finendo col fronteggiarli, oltre che fronteggiandosi fra loro), ci sarà sempre una Sparta pronta ad andare in soccorso di una Megara, in nome della "libertà" di declassare i cittadini in sudditi, in un nuovo territorio che sfugge al loro alfabeto e al loro vocabolario: un territorio ignoto, impervio, di erratiche anomalie, di palcoscenici smontati e rimontati, di villaggi con quartieri ferocemente separati, di paludi (della storia) arate solo da stormi di oche, invadenti e perentori uccelli araldici della pantedesca Mitteleuropa.
Questo accade in Italia: che finora la cultura urbana ha prevalso nello scontro tra il primitivismo delle valli e la matura evoluzione delle città. Tra le pieghe orografiche del Bergamasco, lungo le costole del Brenta, nei fossati montani lombardo-piemontesi e valdostani, negli alti slarghi alluvionali liguri, nell'ectoplasmatica "Nord-Nazione", insomma, pingui micro-tribù sopravvissute grazie ad una visione del mondo che finiva alle radici dei rispettivi crateri, pervicacemente stanziali, culturalmente paesane, e dunque remote da qualsiasi percezione unitaria, peninsulare, e oggettivamente europea, scoprono finalmente ciò che il fior fiore dei meridionalisti aveva svelato da circa un secolo e mezzo: e cioè che la macchina burocratica e parlamentarista non è più luogo di riconoscimento comune. Con la differenza che quella macchina ha consentito alla "Nord-Nazione" di diventare ricca, e al Sud di cercare la sopravvivenza in un assistenzialismo devastante ma programmato in funzione del consolidamento di un territorio di consumo di prodotti delle imprese delle pianure, delle valli e dei fossati del Nord. Ma questo lo intuiscono i federalisti più accorti. Non lo ammettono i secessionisti la cui visione del mondo culmina sugli orli dei loro vulcani ciechi. Questi - industrialotti, evasori, elusori - fanno marce gandhiane sul Po.
Dimenticando che dietro Gandhi c'erano paria, diseredati, affamati, esclusi, discriminati, e non uomini di pancia e di borsellino gonfi. C'erano gli oppressi, colonizzati dagli inglesi e dagli stessi indiani, e non gli oppressori e i colonizzatori (per patto scellerato: produzione al Nord, consumo al Sud; imprese al Nord, assistenzialismo al Sud; risorse del Nord da lasciare al Nord, risorse del Sud - petrolio e gas, rimesse in valuta e Irpeg da banche, assicurazioni, imprese trasferite e protette dal Nord, drenate in direzione unica, da Mezzogiorno a Settentrione).
Sarà breve, sarà lunga la marcia intrapresa a settembre lungo il Po? Non sta a noi deciderlo; e, sinceramente, qualunque obiettivo si proponga, palese o carsico, non ci sconvolge personalmente più di tanto. A chi vuole andare verso questa antistorica Mitteleuropa possiamo solo ricordare quanto ha scritto José Saramago: "Il viaggio non ha fine, ma ce l'ha ogni viaggiatore". Allora, se proprio deve accadere, good morning, Nord-Nazione!


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