§ MEMORIE DEL SECOLO

NOVE PERSONAGGI CONTRO L'AUTORE




Gennaro Pistolese



In questi miei "medaglioncini" di personaggi che in gran parte di questo secolo mi è occorso o soltanto di incontrare o anche pure di frequentare (oggi per le vicende giudiziarie si direbbero "persone informate dei fatti", ma per la storia potrebbe trattarsi addirittura di testimonianze personali), c'entra pure e ovviamente anche il 25 luglio. Ma con una similitudine, che mi sembra mai tentata nel passato, con la commedia pirandelliana Sei personaggi in cerca d'autore. Questa volta però sono stati contro l'autore, che c'era, anzi c'era stato fino al 25 luglio.
I personaggi, infatti, c'erano, ma erano certamente più incerti e dubbiosi di quelli di Pirandello. Qualcuno aveva pure le bombe in tasca perché non sapeva cosa sarebbe successo. Qualche altro si sarebbe dichiarato pentito, però sul finire della notte. Qualche altro si asteneva, ma piangeva. A qualche altro era stato detto di tacere perché non capiva niente. Qualche altro ancora pretendeva di fare il notaio, mentre copriva il ruolo di uno dei protagonisti. Qualche altro infine, invece di intervenire, preferiva stenografare quello che si diceva, ricordandosi di essere stato anche un semplice giornalista, mentre era lì proprio perché esponente massimo della cultura ufficiale del tempo.
Tanti personaggi, dunque, con uno scenario immenso: un salone di Palazzo Venezia.
L'autore questa volta non doveva essere ricercato, ma c'era. Aveva con sé, perché li amava irrimediabilmente, i suoi dossier (per lui, come per i Gip di adesso, erano solo di indagini preliminari). Riteneva che si sarebbe trattato anche questa volta di una recita inutile, ma ad un certo momento comunque da offrire, però con un copione e un ordine del giorno prefabbricati. Faceva affidamento sulla sua eloquenza e soprattutto sul suo evidenziabile dolore gastrico. Se una mano sul cuore è un omaggio alla Patria, quella sullo stomaco, come sappiamo, per consuetudine pubblicitaria farmaceutica, significa tutt'altra cosa.
Comunque, e concludo a questo riguardo, il nostro autore nel caso in questione non solo c'era, ma non doveva essere ricercato, perché in altra sede già si sapeva quando e come sarebbe stato arrestato.

Grandi, pilota della rotta
Ma veniamo ai personaggi. Il protagonista è stato, come si sa, Dino Grandi. Il comprimario, ma con un'evidenza di ruolo inferiore, Giuseppe Bottai. E poi gli altri numerosi personaggi, di cui taluni rivestivano solo le vesti di semplici comparse istituzionali con il solo obbligo di firmare gli ordini del giorno, e spesso nella coniugazione fra obbedienza e timidezza.
Di questi personaggi non dirò (perché naturalmente in quel 25 luglio non potevo essere ad origliare dietro le porte o fuori dei corridoi), quanto già si sa e la storia fin qui ha già detto e continuerà a dire (perché chi scrive di fatti storici non molto lontani ogni volta dice la sua, altrimenti non scriverebbe).
Dirò invece delle reazioni che hanno suscitato in me incontrandoli o frequentandoli, e dei ricordi che tuttora serbo, non avendo mai avuto a che fare con loro in termini di conformismo o per me di clientelare parassitismo. E qui mi sia consentito pure un certo granellino di immodestia, che deve essere concesso ad un decano del giornalismo italiano, che è nato sul finire degli anni 10 di questo secolo.
Orbene, il mensile della nostra Federazione della Stampa Italiana, nel presentare una mia proposta per la trasparenza della nostra professione, ha sottolineato il mio carattere "battagliero e anticonformista". Si tratta di un mio modestissimo (infantile, senile?) e piccolissimo monumentino di carta, di cui qui vi parlo, per tentare di fornire una chiave di lettura al malcapitato che mi leggerà.
Dino Grandi, dunque, l'ho visto una sola volta, in occasione di una rapidissima presentazione. Di lui conoscevo la storia personale. E cioè il ruolo durante la marcia su Roma; i suoi movimenti fra Perugia, sede dei quadrumviri, e Roma, alla ricerca con altri di soluzioni alla crisi di governo con apparenze parlamentari; la sua nomina, però solo nel 1929, a ministro degli Esteri (che risiedeva a Palazzo Chigi), perché prima avrà certamente avuto qualche sottosegretariato; il suo trasferimento a Londra nel 1932 quale Ambasciatore d'Italia presso la Corte di San Giacomo, come si chiamava allora (Grandi era però fra i pochi ambasciatori che indossasse nella divisa i settecenteschi pantaloni a polpa, come segno della sua aristocratica emancipazione); il suo rientro in Italia perché filo-anglosassone; la sua nomina nello stesso anno del rientro - 1939 - a ministro della Giustizia e presidente della Camera dei Fasci e delle Corporazioni; il suo volontarismo nella guerra contro la Grecia, dove con Bottai cominciò a programmare l'operatività delle proprie insoddisfazioni, le proprie delusioni, ecc., che condussero alla presentazione dell'ordine del giorno del 25 luglio.
Tentò di avere sempre il ruolo di protagonista, anche nella sua automissione in Portogallo per l'immediata ripresa dei contatti con gli angloamericani alla ricerca delle amicizie, anche autorevoli, che si era creato a Londra.
Poi si trasferì in America Latina con l'impegno di avvocato e di agricoltore. Rientrato in Italia negli anni Settanta, e rifattosi vivo, ha cercato anche qui di ristabilire rapporti, non ha mancato anche lui di crearsi uno spazio nella memorialistica con due volumi 25 luglio, 40 anni dopo e Il mio Paese, ha ricominciato a frequentare diplomatici, perché si vantava di essere uno di loro. E così comparve anche alla Fondazione Cini con sede nell'Isola di San Giorgio a Venezia, dove si svolgeva un Convegno del Circolo di Studi Diplomatici. Di questo io ero segretario generale, quale uno dei fondatori per incarico della Confindustria che ne era sponsor con gli ambasciatori Quaroni, Pietromarchi, Ortona, Fornari, Guidotti ed altri, certamente fra i nostri massimi ambasciatori degli ultimi cinquant'anni.
Grandi riteneva di essere o di essere stato effettivamente uno di questi. E perciò vedeva colleghi o persone che doveva ben conoscere, pur non sapendo spesso chi fossero.
Uomo di mondo. Per cui commentò una stretta di mano che ci scambiammo con un: Ah, Pistolese!
Ma per me, a lui del tutto sconosciuto, questa cordialità mondana mi ricordò o forse mi ricorda solo oggi il Totò che motivava il suo essere appunto uomo di mondo con l'aver fatto il militare a Cuneo. Il "Cuneo" di Grandi erano stati Palazzo Chigi e Londra.
Ricordiamo per classificarci e classificare che quando si vuole circolare ad un certo livello tutte le occasioni sono buone. Talune sono anche obbligate. Il percorso di Grandi non ha ignorato questa logica.

Bottai, secondo pilota
Il comprimario di Grandi è stato, come ho detto, Giuseppe Bottai. Anche la sua storia è nota. E' stato volontario, forse Ardito della prima guerra mondiale, capo delle squadre fasciste laziali alla marcia su Roma, futurista, giornalista, direttore di un quotidiano romano (L'Epoca), fondatore nel '23 di una rivista dall'impegnativo titolo Critica Fascista (critica del fascismo oppure anche critica al fascismo? Forse la pretesa "rivoluzione continua" doveva o voleva significare anche questo?), ministro fra il 1929 e il 1932 delle Corporazioni e come tale creatore della cosiddetta Carta del Lavoro (ma quelli erano pure i tempi di Miglioranzi, di Ugo Spirito, soprattutto di Giovanni Gentile, non più ministro della pubblica istruzione, ma presidente dell'Istituto di cultura fascista e soprattutto dell'enciclopedia allora solo Treccani, ecc.) e poi governatore di Roma e poi ancora governatore volutamente per poche settimane di Addis Abeba, dove era accorso come volontario, e poi di nuovo ministro dell'Educazione Nazionale fino al febbraio del 1943.
Certamente egli è stato una mente pensante, attiva, cocciutamente presente. L'ho visto due volte. La prima all'uscita dell'ElAR, dove si incrociò con il Presidente nazionale dell'Artigianato, ex federale di Torino, Gazzotti, e con me. Bottai, riferendosi all'attivismo che Gazzotti doveva e poteva esplicare a Roma, all'Artigianato, ci disse che più che l'incarico contava la capacità di riempirlo. E cioè, secondo me, l'incarico inteso come impegnativo contenitore. E Bottai ci spiegò, e mi piacque, che Mussolini dandogli l'incarico di ministro dell'Educazione gli aveva detto che si trattava solo di fare dell'ordinaria amministrazione. E lui aggiunse che da lui nuovo ministro era scaturita invece la Carta della Scuola.
Bottai indubbiamente ha avuto la filia delle Carte, che oggi si chiamano più semplicemente strategie o speranze di riforme o itinerari di riforme costituzionali o istituzionali, e così via.
Il significato delle parole di Bottai mi piacque e l'ho ricordato negli stessi termini al figlio Bruno, che a sua volta per le elevate capacità che l'hanno distinto è stato pure segretario generale alla Farnesina e oggi ambasciatore d'Italia presso la Santa Sede. Egli è fra quanti giustamente rivendicano l'integrità morale del padre, pur avendone dovuto e saputo pagare un certo prezzo, meno che quindicenne - se non erro - nel ricordato 25 luglio, e poi oggi diplomatico del rango che si è detto. Anche lui merita rispetto. Ma devo dire che non mi è piaciuto quando nel riferirgli quelle parole del padre si è limitato a dirmi: una bella frase! Altro che frase, ma vocazione, volontà di assoluta concretezza, impegno e sforzo di reale innovazione, coerenza nei propri valori e itinerari. E Bottai dà, pur nei suoi errori, tante indicazioni in queste direzioni, naturalmente nel solco delle sue scelte. Ho parlato di errori, ma in questa occasione mi limito a taluni minori di mia conoscenza.
Egli ad un certo punto, per solidarietà squadristiche, nominò provveditore agli Studi un fiorentino che si era distinto per la partecipazione alla maggioranza dei concorsi statali dei suoi tempi, restandone escluso, e per aver fatto predisporre all'Ente per la Fiera di Tripoli un timbro per le segnalazioni alla stampa "Per recenzione". Un timbro "Per recinzione" avrebbe potuto avere un'altra destinazione, ma quello...
E poi c'è la nomina a provveditore sempre agli Studi del direttore di una libreria (Morandi?) che forse avrà avuto altri ignoti meriti culturali. Ma a Bottai, indipendentemente da ciò, va attribuito il merito di aver cercato in un mondo ostile di praticare ed inseguire il primato della cultura. Primato, anzi, mi pare si chiamasse una rivista da lui creata.
La seconda volta che ho visto, da lontano, Bottai è stato agli inizi dell'agosto 1943. Indossava un vestito di seta bianca, come si usava allora. Non si era nascosto. Si è saputo dopo che si era arruolato nella Legione Straniera per pagare di persona il suo debito. Credo che dopo Morgagni, il presidente dell'Agenzia Stefani che si suicidò apprendendo la fine del regime, Bottai sia il secondo che abbia voluto pagare subito il suo debito. Nella storia, sia pure minore, secondo me devono pure esserci questi riscontri e riscatti. La storia del resto amministra giustizia, e questa, come si sa, ha a riferimento la compiutezza del mosaico appunto dei riscontri.

Da De Bono a Gottardi
Un altro protagonista, perché quadrumviro superstite con Cesare Maria De Vecchi, che però non ho conosciuto, è stato Emilio De Bono, già generale, direttore generale della Pubblica Sicurezza fino al delitto Matteotti e poi governatore della Tripolitania, e dopo Luigi Federzoni nominato ministro delle Colonie, per essere infine inviato in Africa Orientale in preparazione e brevissimo esordio nella guerra contro l'Etiopia.
L'ho conosciuto nel 1931, ma prima l'avevo ascoltato dalla tribuna parlamentare di Montecitorio - perché ero incaricato da un giornale cui collaboravo del commento ad un suo discorso sul bilancio del ministero delle Colonie del quale lui era ministro - e mi era piaciuta una sua frase insolita per quei tempi, in cui tutto era presentato come rigorosamente esatto e indovinato. I treni in orario... Lui disse, parlando di un suo provvedimento: questo non è il primo sbaglio, né sarà certamente l'ultimo. Ho conosciuto in quei tempi altri generali e gerarchi, tutti con stile littorio incorporato, essendo affidato il compito ironico e satirico ad un solo deputato, il milanese Lanfranconi o all'incontenibile spontaneità pasquinesca. Allora Il becco giallo o L'asino da tempo erano stati soppressi.
L'unico incontro con De Bono è avvenuto alla Consulta, che anche allora si chiamava così. L'occasione era il desiderio del ministro di conoscere quattro giovani, che avevano scritto nello stesso giorno quattro diversi articoli su quattro diversi giornali di vivace critica all'operato dell'Istituto Coloniale Fascista. Il presidente di detto Istituto, un conte milanese divenuto pure senatore, Pier Gaetano Venino, presidente anche per conto suo della Umanitaria, era corso dal ministro a protestare contro i ragazzacci. Uno di questi ero io, gli altri Vittorio Gorresio, Marco Pomilio, poi segretario generale dell'Istituto nazionale di Cultura Fascista, e l'altro (non ne cito il nome) divenuto poi, come prima ho detto, provveditore agli Studi.
La ragione della nostra critica, così organizzata - in tempi, chiamiamoli così, difficili - derivava dalla nostra reazione alla pretesa di Venino di assumere la direzione e la proprietà di un settimanale coloniale in via di preparazione, con il finanziamento assicurato dal padre di uno dei suddetti ragazzacci, che aveva definito una vertenza con una banca toscana inerente alla proprietà di gran parte di Monte Mario a Roma.
A De Bono, tutto sommato, piacque la nostra reazione giovanile, tanto più che essa con una certa abilità da parte nostra prese spunto formale dalle "zone d'ombra" che Mussolini, oltre naturalmente a quelle di luce, aveva richiamato in una lettera all'Istituto a commento del bilancio e ad esortazione perché fossero raggiunti i ventimila soci. Le quantificazioni, i cosiddetti ineludibili obiettivi erano sempre di scena in quegli anni, con direttive che riguardavano la produzione di mele da mezzo chilo, l'autarchia pezzo per pezzo settoriale e localizzato, tempi e modi di svolgimento di alti studi di matematica, ecc.
De Bono indossava la divisa di generale coloniale, con camicia di seta che mi piacque e che lo distinse alla mia memoria più della sua barba e della tappezzeria di seta gialla della sua stanza. Quello che disse non ha lasciato tracce nella mia memoria. Il suo linguaggio da caserma riguardante la funzione delle due dattilografe dell'Istituto, sì. Eppure queste non c'entravano niente e fra l'altro non erano neppure avvenenti.
Venino dovette comunque avere la sua soddisfazione, e perciò fummo denunciati all'Alta Corte di Disciplina del partito, pur avendo noi raccolto simpatie ufficiali. Il risultato fu la nostra "deplorazione solenne" e la diffida dall'occuparci ulteriormente di detto Istituto. Ne avemmo però solo una comunicazione formale, senza effetti, perché si trattava di giovani che in definitiva avevano ragione.
Questo, purtroppo, è il solo De Bono che ho conosciuto, e che è stato anni dopo fucilato a Verona, avendo prima esortato Ciano a perdonare. Però a me basta questo pur sommario ritratto.
Un altro personaggio chiave, da me conosciuto, è stato Farinacci, presentatore fra l'altro di un suo ordine del giorno al Gran Consiglio del 25 luglio: gli altri due ordini del giorno furono di Grandi, come si è detto, e del segretario del partito, Scorza. Ma questi due ultimi ordini del giorno non furono nemmeno discussi, perché Musso-lini, come si sa, aprì la discussione sul primo, ritenendo di poterlo neutralizzare e modificare in un appello di salute pubblica. Ma qui siamo nella storia che si conosce.
Chi mi è apparso invece Farinacci? L'ho incontrato nel cortile del ministero delle Finanze nel 1932, avendo un suo collega che mi conosceva come editorialista coloniale del suo giornale fatto fermare la sua macchina per farmi conoscere. lo ero con la mia fidanzata. Qualche settimana dopo gli fui presentato dal suo corrispondente da Roma all'hotel Bristol di Piazza Barberini, ed era l'ora - per lui solo, però - del Campari Soda, che lo vide agitare le dita nel bicchiere per il recupero di una buccia di limone. E poi lo stesso anno, durante la notte di San Silvestro, lui in attesa di una macchina e io di passaggio, reduce da un vicino albergo che nientemeno anche allora si chiamava Imperiale. Ai miei auguri e alla mia domanda su dove festeggiasse l'imminente inizio del primo dell'anno rispose "vado in famiglia", e subito dopo aggiunse "in una famiglia". Le intercettazioni telefoniche pubblicate in questi ultimi anni fanno capire cosa volesse significare quella risposta.
E poi c'è da ricordare Tullio Cianetti, ministro delle Corporazioni all'epoca del 25 luglio. Egli votò per l'ordine del giorno Grandi, dette istruzioni favorevoli a tale ordine del giorno a quanti sindacalisti a lui si rivolsero, ma si pentì nella notte, ne scrisse a Mussolini, che nel pomeriggio esibì la lettera al re per cercare di dimostrare una pretesa invalidità del pronunciamento o del pronunciato del Gran Consiglio.
La mia conoscenza di Cianetti risale al 1931 e si concluse con una passeggiata serale con un mio amico sindacalista che ci aveva presentati lungo via Nazionale. Cominciava allora la sua carriera ai lavoratori dell'industria. Aveva iniziato come corrispondente da Perugia de Il Popolo d'Italia e poi come organizzatore di fasci in Umbria. Dissi - e con questi precedenti me ne dette conferma - che chi voleva fare carriera doveva sapere inserirsi in un vortice che, se era quello giusto, lo faceva emergere. Oggi aggiungerei che questo vortice oltre ad essere giusto deve essere coerentemente sempre lo stesso.
Ritornando al 25 luglio, Cianetti, con il pentimento, ha salvato la vita. Non altrettanto ha potuto fare Luciano Gottardi, presidente della Confederazione fascista dei lavoratori dell'industria, che a Cianetti aveva domandato suggerimenti di comportamento e da questi dopo la seduta del Gran Consiglio non fu informato della necessità di una lettera di pentimento. Gottardi è stato così fucilato a Verona.
Con lui ho collaborato per tre anni. Lui era esponente dei lavoratori del commercio alimentare presso la Confederazione dei lavoratori del commercio; io, agli inizi della mia vita nelle organizzazioni di categoria, oltre che di giornalista, ero capo dell'ufficio corporativo della stessa Confederazione.
In quegli anni - le Corporazioni erano ai loro inizi e perciò attive e non ancora obsolete, come poco dopo avvenne: una vera rivoluzione continua era quella degli organismi economici che Mussolini presiedeva, come la Commissione per l'Autarchia, il Comitato dei Prezzi, il Comitato per l'economia di guerra, ecc., mentre le corporazioni erano più o meno esplicitamente accantonate - i miei rapporti con Gottardi erano quasi quotidiani. lo gli domandavo pareri e indirizzi sui temi in discussione ad una delle sei Corporazioni d'interesse e competenza alimentare (e questi temi spaziavano dalla disciplina della macellazione in Italia alla costituzione dell'ente nazionale del latte, a misure di sostegno della produzione agrumaria, ecc.) e Gottardi mi rispondeva che lui o i suoi parenti avevano acquisito dirette esperienze nella materia indicata, con la consueta conseguenza perciò di un suo vastissimo appunto che poi era una completa relazione. Abilità con un pizzico di presunzione dovuta alla sua qualifica di ragioniere, come siffatta categoria di diplomati era una volta: oggi sic et simpliciter sono per lo meno fiscalisti.
Lui era anche un buono, non appartenente alla categoria strumentale dei buoni buonisti di oggi. Cordiale, presente, partecipe con tutti, sempre. Era ferrarese, allora dell'immigrazione ovunque bene accetta, senza la bologneseria d'oggi. A lui devo la ricostruzione esatta di quanto è realmente avvenuto nella seduta del 25 luglio. Iniziata, com'è noto, il 24, senza moschettieri alle porte, senza alcuna delle normali enfasi, e ciò per la nota riluttanza di Mussolini alla convocazione. Tutti dall'esterno non ne sapevano niente, perché i più consapevoli si affidavano al pensiero, conseguente ad una certezza, che la guerra era perduta dal... (e qui fra storici, testimoni, sopravvissuti, ecc. ognuno ha messo e metterà sempre la sua data).
Incontrando un mio caro amico, che era capo dell'ufficio stampa del partito, gli domandai che cosa ci fosse da aspettarsi nell'imminente Gran Consiglio e lui mi rispose che si trattava solo di ordinaria amministrazione. Disinformazione o tentativo di rassicurazione di obbligate certezze? L'incontro tuttora e spesso; e ricordiamo il suo successivo impegno di critico teatrale, di giornalista, ma non gli ho chiesto spiegazioni su quell'interrogativo e su quella risposta. C'è il tempo che avvicina e allontana lo stesso fatto, sempre attuale o remoto in un determinato momento.
Orbene, Gottardi mi raccontò tutto, quasi con la mentalità di un contabile perché era diplomato, e probabilmente di un notaio, se fosse stato laureato. Di quanti avevano parlato, della commozione o dell'impassibilità di taluni, della capacità dialettica di Bottai, della razionalità di un giurista quale De Marsico, dell'autorevolezza e dell'essenzialità delle poche parole di De Stefani, dell'ingenuità di un Polverelli, dell'intransigente filogermanesimo di Farinacci con le appendici compensative che quasi fino all'ultimo ha sempre sperato gli derivassero, della sordità di Marinelli, già segretario amministrativo del partito all'epoca del delitto Matteotti, della contrarietà a Mussolini espressa da Federzoni, ma attenuata dal suo rifugio nella stenografia di quanto avveniva e di cui i frutti si leggono in un libro che lo stesso Federzoni ha molto più tardi pubblicato; di Scorza, impreparato rispetto a quanto accadeva anche se a Mussolini aveva preannunciato un giallo in agguato; di Balella, il quale era uscito repentinamente dalla sala e qualcuno temette che fosse andato a chiamare le forze della milizia fascista per arrestare i dissidenti; di Ciano che avendo fatto una scelta contraria a Mussolini riteneva di poter fornirgli ancora la documentazione utile per il distacco dai tedeschi.
Tutto ciò io travasai al corrispondente da Roma dell'Agenzia Telegrafica Svizzera, Scanziani, con il quale ci incontravamo entrando o uscendo di casa, perché entrambi condomini di un fabbricato di Via Archimede. Lui raccoglieva notizie per tradurle in una corrispondenza telegrafica, e quindi essenziale come allora si usava. E per l'Italia ne vennero fuori tante veline che hanno costituito nel Paese, in forma clandestina, il primo resoconto di verità su quanto è realmente avvenuto.
Una grossa nube vi è stata, com'è noto, nell'informazione pubblica dei 45 giorni di Badoglio.
Molti dei personaggi ricordati hanno ricoperto il ruolo di comparse. Pochi sono stati i protagonisti. E personalmente ne ho conosciuti di questi e di quelle, di cui - come ho detto - le mie molto elementari e marginali testimonianze, rivissute nei ricordi e non con i diari alla mano, che non ho mai avuto. Ma quanto vengo scrivendo, con questi tentativi di medaglioncini, ha l'ambizione di concorrere a costituire un contesto, nel quale fatti e persone hanno coinciso.

Tre personaggi di spicco
De Stefani, Federzoni, Balella: tre personaggi che cercherò di estrarre da questo contesto.
Ho conosciuto il primo, Alberto De Stefani, da lontano alla Sapienza di Roma. Lui preside della facoltà di Giurisprudenza, dove io semplice matricola nel 1926 non potevo non avere ammirazione per quello che era un maestro di politica economica e finanziaria e da poco aveva cessato di essere ministro delle Finanze per poco meno di quattro anni: dal 1922. Egli fu nel '44 condannato a morte a Verona per il suo voto contrario a Mussolini, però fortunatamente era contumace.
L'ho conosciuto di persona più tardi, negli ultimi anni '50 e nel primo quinquennio degli anni '60. Tramite fu il bravissimo suo figlio Pietro, che io avevo fra i miei collaboratori nell'Agenzia AGA, l'agenzia dei giornali delle grandi città minori italiane e ne Il Sole che dirigevo. E l'ho quindi frequentato nella sua casa a Città Giardino, con incontri in cui mi narrava delle sue illusioni e delusioni politiche, del suo lungo periodo di alta consulenza economico-finanziaria del governo nazionale di Nanchino di Chiang Kai-Schek, della sua nuora cinese. Nel giugno del 1967, con una lettera che nell'intestazione recava scritto "Tutto prima del tramonto" (e per me si tratta di una delle rarissime testimonianze che ho conservato), mi inviò una sua pubblicazione avarissima di parole, di sole 50 pagine, che recava il titolo "Dall'armistizio di Villa Giusti al compimento della ricostruzione finanziaria".
La lettera d'accompagno dice tutto e lo dice anche per oggi: "Caro Pistolese, sono lieto di mandarLe una testimonianza per Lei e l'opera Sua. E' uno studio molto documentato sul metodo con cui ho raggiunto in breve tempo il pareggio del bilancio: "prosperità e non fiscalità", che ha anticipato di oltre quaranta anni la politica di Kennedy e di Johnson, fuorviata dai loro predecessori con una interpretazione assoluta ed incondizionata della dottrina di Keynes, la cui utilità è condizionata alle circostanze. Cordialmente Suo".
"Prosperità e non fiscalità", pareggio del bilancio dello Stato: anni luce per le attese di oggi. Queste pagine dovrebbero rientrare fra i libri del capezzale, come si diceva una volta, per i politici di oggi.
Ma di questa pubblicazione due altri punti voglio ricordare, ed essendo essi pure futili e tanto semplicemente umani stanno ad indicare l'elevata sostanza dell'Uomo, e l'animo con il quale egli ha votato al Gran Consiglio.
La sua scrupolosità nell'impegno per il pareggio e in genere per la correttezza della contabilità, di qualsiasi spesa, l'ha condotto da ministro delle Finanze a interessarsi della Gazzetta Ufficiale, nella sua composizione e nel suo costo. Così egli si compiace, e lo ricorda nel libro che ho sott'occhi, di aver dovuto eliminare un'imprevista Sezione di letteratura che precedeva i testi delle leggi e che era lì solo per compensare scrittori e letterati che dovevano arrotondare le proprie entrate. La Gazzetta Ufficiale nella nostra storia è stata anche questa: una Gazzetta Ufficiale, cioè, motivata pure con la comprensione per la nota insegna dell'"ho famiglia". Quella, appunto, di certi scrittori.
Il secondo punto è nel finale della pubblicazione, dal titolo "Congedo" (cioè da ministro delle Finanze). Egli scrive: "Salito per l'ultima volta nell'automobile ministeriale per farmi condurre a casa sulle pendici del Gianicolo, nel passare per la piazza di Pasquino, ho veduto che nell'insegna di un negozio di mercerie era dipinto il nome del titolare "Felice De Stefani". Non potei resistere alla curiosità di conoscerlo. Dissi: parlo con Felice De Stefani? Sì, in che cosa posso servirla?, mi fu risposto. Ed io a mia volta: "Sono un De Stefani felice. Fino a questa mattina sono stato il ministro delle Finanze, ma da un'ora sono ridiventato libero e felice".
Sulla carta intestata di Alberto De Stefani, come ho detto, "Tutto prima del tramonto". E questo libro porta la data 22 novembre 1968, giorno di Santa Cecilia. La specifica è di De Stefani: perché?
Luigi Federzoni, l'altra firma dell'ordine del giorno che determinò la fine del fascismo, è stato da me conosciuto solo sul finire degli anni '20: io ero uno studente universitario, avevo promosso il primo gruppo universitario coloniale ed ero alla ricerca di tutti gli aiuti possibili per le iniziative che ci finanziavamo da soli e che tentavano molto spesso vanamente tutte le strade di possibili sponsorizzazioni. Fra queste strade vi era quella che conduceva alla Consulta, dove risiedeva nuovamente come ministro, appunto, Luigi Federzoni. Egli vi era stato fino al giugno del 1925, era passato come ministro agli Interni fino al novembre del 1926 come esponente meno caratterizzato e perciò "garantista" dopo il delitto Matteotti, e alle Colonie era nuovamente ritornato. Tutte le occasioni e tutte le sollecitazioni per incontrarlo erano buone per me. Prometteva pubblicazioni, ce ne forniva, simpatia ne manifestava, dava istruzioni ad uffici e direttori generali.
Con i miei compagni li conoscevamo e li frequentavamo tutti. Solo a me capitò da lui di essere definito per la mia giovane età l'acino di pepe". Che cosa significasse allora non ebbe per me alcuna importanza, oggi attribuisco alla parola il significato che mi fa più piacere.
Federzoni è stato poi presidente del Senato, presidente dell'Accademia d'Italia, ecc., con incarichi emblematici, più che operativi, i cui limiti hanno sempre a che fare con le sue origini nazionalistiche (con le Camicie azzurre dei Sempre pronti per la Patria e per il Re inventate da Corradini, Paulucci, ed altri, in polemica con le Camicie nere, ma poi fascismo e nazionalismo si fusero). Pur bolognese, Federzoni era sostanzialmente melanconico, e come ho detto al Gran Consiglio si è soprattutto ricordato di essere stato giornalista, con lo pseudonimo di Giulio De Frenzi, e perciò ha soprattutto stenografato. Forse il segno maggiore che ha lasciato è la stenografia contenuta nel suo libro. De Felice ne avrà tenuto conto?
Un ultimo tratto, prima di concludere con il contro "l'autore", riguarda Giovanni Balella. Era al Gran Consiglio come presidente della Confederazione degli industriali. Vi era stato nominato nel febbraio del 1943, e lui ne era direttore generale. Volpi, suo predecessore, ne ebbe notizia dai giornali. Ma Balella era informato dell'imminente nomina, favorita dalla "emilianità" di Mussolini e dall'amore dello stesso per i dossier e le cifre, che in Balella avevano un fervido promotore e praticante.
Con Balella ho avuto una larga frequentazione, non in quel periodo, ma alla ricostituzione della Confederazione, per la quale ricoprì importanti funzioni esterne. Balella al Gran Consiglio votò soprattutto come simpatizzante e amico di Bottai, che poi a sua volta aiutò per la fondazione della rivista ABC. Nella notte del 25 luglio fu chiamato al telefono da un alto funzionario della Confindustria impaziente della durata insolita di quell'assise e perciò provocando quei timori di cui prima ho detto. A Balella fu subito fatto capire nella mattinata che occorreva "squagliarsi" e così egli poté essere contumace a Verona.
Balella ha vissuto a lungo, ha avuto ancora nell'industria e nella finanza parti da protagonista, ha affrontato vicissitudini che come si sa si accompagnano pure alla longevità, ammirata dagli altri, ma più che altro estremamente scomoda per chi si dice che ne benefici.
Non era credente, ma - e la cosa mi ha sempre impressionato - ha disposto che durante le sue esequie fossero eseguiti brani di Wagner.

L'autore dietro il balcone
Ed eccomi all'autore. Ho avuto la ventura di essere stato suo dirimpettaio: dal 1938 al luglio 1943, per la semplice ragione che il mio ufficio era nei cosiddetti merli del Palazzo delle Assicurazioni Generali di Piazza Venezia, di fronte a Palazzo Venezia.
Vedevo Mussolini, riparato da una tendina azzurra richiesta dall'oscuramento bellico, distratto o assorto nei pensieri, attento comunque verso l'esterno, per scrutare però il vigile urbano - che allora si chiamava metropolitano - o l'arrivo della squadra della milizia fascista per il serale cambio della guardia al Palazzo. Era un rito che imitava quello di piazza del Quirinale. Ma ne accentuava, per necessità di regime e per competitività d'immagine, il cerimoniale. Era ritualmente sempre presente il comandante della milizia. La banda militare, preceduta dal movimentato bastone di chi la guidava, dall'imboccatura di via IV Novembre, dal palazzo che allora era dell'Inail, che aveva preso il posto del demolito Teatro Nazionale, cominciava a farsi sentire. E Mussolini più o meno compiaciuto assisteva sempre e regolarmente da dietro le tendine.
Dalle stesse tendine filtrava la luce, accesa per gran parte della notte: perché testimonianza solo ufficiale e non reale di un capo, anzi del capo, insonne per definizione per il Paese.
Ancora più marcato il cerimoniale dei "discorsi dal balcone". Tutti lo vedevano dalla piazza. A me è occorso di vederlo più comodamente e forse con più soddisfatta curiosità. Da dietro la mia scrivania.
Sulla piazza ci doveva essere anzitutto uno stato di attesa. Dopo questa attesa, largamente prolungata usciva l'autore di cui sto parlando. Lo seguiva il segretario del partito, che rendeva più altisonante possibile la formula: "Salutate nel Duce il fondatore dell'Impero". Si dice che, come il "Voi", la formula l'abbia inventata Starace, il gerarca amante delle divise, al punto che le barzellette del tempo gli attribuivano anche la creazione di una divisa per gli agenti in borghese. Sta di fatto invece che al Capo queste cose piacevano, anzi spesso le inventava lui stesso.
Ho visto di persona Mussolini tre volte essendo io confuso in delegazioni una volta di giornalisti, due volte di dirigenti artigiani.
La prima, nel 1931, solo l'anno prima laureato, ma editorialista in materia coloniale di vari giornali. Accompagnavo (anzi fui invitato ad andarvi senza bisogno allora di inviti ufficiali) il direttore del giornale al quale collaboravo e che era Giorgio Pini. Di allora ricordo solo il piacevole timbro di voce di Mussolini diverso da quello delle piazze, la familiarità di rapporti con taluni giornalisti, fra cui Curzio Malaparte, con il quale a lungo passeggiò a braccetto nel salone del mappamondo, il vestito di seta bianca che indossava, l'immagine che trascurava le mascelle, ma cercava di esprimere al meglio il look, si direbbe adesso, che l'inglese Ghitta Garrell, la fotografa dell'aristocrazia romana che allora c'era, gli aveva impresso.
La seconda visita fu in occasione del cambio della guardia che si svolgeva alla sua presenza fra i due presidenti della Federazione degli Artigiani, di cui ero capo dell'ufficio stampa, nel 1939. L'elogio che Mussolini fece dell'ex federale di Torino che veniva ad assumere a Roma la presidenza degli artigiani fu tanto esaltante, con la sottolineatura di capacità che io avevo potuto constatare come inesistenti, da farmi concludere che Mussolini o era un pessimo conoscitore di uomini o era un istrione. Riconsiderando il mio "autore", devo ancora una volta concludere che certamente era l'uno e l'altro. Qualcuno oggi pensa che questo è del resto il modo di essere di tanti uomini politici.
La terza volta è stata nella primavera del '43, un paio di mesi prima del 25 luglio. Riceveva una delegazione italo-tedesca di artigiani: eravamo in sei. Un segretario del presidente recava una scatola con un inverosimile paio di scarpe autarchiche. Mussolini le esaminò con estrema attenzione.
Fece il consueto duello di conoscenza con la lingua tedesca, che non lasciò tracce di comprensione nell'interlocutore. Indossava una divisa sgualcita e ricalcitrante di fronte ad un grasso che debordava fra un bottone e l'altro, calzava naturalmente gli stivali, ma nel retro di essi c'era una lunga, compiacente, insolita chiusura lampo. Da Mussolini ebbi in quella occasione l'unico esplicito ordine ricevuto dalle gerarchie in vent'anni: "Chiamate il fotografo!".

I tanti diversi no all'autore
Il mio "autore" è, come si vede, molto elementarmente così offerto agli eventuali lettori di questi "medaglioncini"; con vari personaggi, ognuno dei quali si è fatto il "proprio autore", in un evento che si è concluso col diverso modo di "no" espresso il 25 luglio.
Certamente, qualcuna delle briciole che sono rimaste nei miei ricordi faceva parte del temperamento di questi personaggi. E, modestamente o immodestamente, mi è piaciuto cercare di sottoporle a voi.


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