§ LONGOBARDIA MINOR

I COLONIZZATORI TRASVERSALI




Tonino Caputo, Gianfranco Langatta, Ulrico Banfi



"Se i meridionali avessero avuto a che fare con i Longobardi ... ", abbiamo sentito ripetere in questi anni da esponenti politici, economisti, imprenditori. I quali intendono dire che, se avessimo acquisito l'antropologia culturale longobarda, magari con un pizzico di lezione comportamentale celtica, i "terroni" sarebbero "altro" da quel che poi sono stati e sono, pigri sudditi al riparo dell'ombrello assistenziale statale, incapaci di promuovere iniziativa privata e imprenditoria, indotto, benessere locale. Niente è più duro a morire del pregiudizio. Soprattutto quando è radicato nell'ignoranza (e talora nella distorsione) della storia.
C'è stato un periodo, infatti, intorno all'XI secolo, in cui il Sud d'Italia è stata l'area più in auge in Scandinavia. Non a caso, la Scandinavia: gli studiosi sono ormai d'accordo sulla tesi che i Longobardi siano giunti dalla Svezia, essendo originari della terra dei Vinnili. Erano principalmente artigiani che, dopo aver assimilato impulsi artistici durante le loro peregrinazioni, accumularono un bagaglio di esperienze che poi svilupparono quando fecero ritorno nel paese da cui si erano allontanati, dopo alcuni secoli di assenza. E' dall'artigianato (che sconfinava allora nell'arte) che bisogna partire, per analizzare l'influenza che i Longobardi hanno avuto in Italia e nel Sud, e per individuare i "lasciti" che nelle aree meridionali costoro hanno innestato nei riti, nei costumi, insomma in quella che, sia pur genericamente, viene definita, appunto, l'antropologia culturale di una terra.
Dunque, se l'arte carolingia erige il popolo dei Franchi al ruolo di precursore del Rinascimento, non si può disconoscere che questa sia stata preceduta, e pertanto è in un certo modo scaturita, dall'arte longobarda, o lombarda. Risale infatti alla bravura dei Longobardi il manufatto artigianale che ha per motivo conduttore la scultura a intreccio che venne poi ripresa dall'arte carolingia. Per quel che riguarda l'architettura longobarda, essa ha espresso gusti prettamente nordici e scandinavi nella corte di Carlo Magno ad Aquisgrana.
E' proprio nella corte di Aquisgrana che, scaduto il latino classico, si dà vita ad un nuovo impulso che in un certo qual modo anticipa le correnti culturali diffuse poi in special modo nel Mezzogiorno d'Italia e a Napoli da Federico II.
E' soprattutto tra l'XI e il XII secolo che riaffiora l'esistenza di un filo diretto tra il Sud d'Italia e la Scandinavia. E' quanto emerge dalla lettura di uno studio che potrebbe gettare nuova luce sul mistero della provenienza delle opere architettoniche di stile romanico esistenti nella regione Scania, nel Meridione della Svezia, costruite in un'epoca in cui l'area era dominata da sovrani danesi.
Fu il re Canuto il Santo (1040-1086), assassinato nella cattedrale di Roskilde e canonizzato nel 1101, a far costruire la chiesa di Lund, la città universitaria situata a pochi chilometri a Nord di Malmöe, quasi di fronte a Copenhagen. Canuto aveva sposato Adele, contessa delle Fiandre, la quale, rimasta vedova, si unì in seconde nozze con Ruggero Borsa, figlio di Roberto il Guiscardo e di Sighelgeita di Salerno. Le loro nozze ebbero luogo proprio a Salerno, ove il principe normanno viveva prima di ricevere il Ducato di Puglia e Calabria, dopo la morte del padre e la partenza nel 1096 del fratellastro maggiore, Boemondo, per la prima Crociata.
Nelle vene di Adele scorreva realmente il sangue più blu d'Europa, dal momento che poteva vantare di discendere da almeno tre rami differenti dal sovrano che era l'idolo dell'epoca: Carlo Magno. Va inoltre tenuto presente che il fratello di Canuto, Enrico, detto il Benefattore, divenuto re di Danimarca, effettuò nel 1098 un pellegrinaggio a piedi, ampiamente descritto nella saga islandese di Markus Skeggjason (morto nel 1197), dal titolo Eriks Drapa. Il sovrano, raccontano le cronache islandesi, dopo aver raggiunto Venezia, si era recato in visita alle grotte di San Michele, a Monte Sant'Angelo, sul Gargano, poi a Bari, dove aveva ricevuto in dono alcune reliquie di San Nicola.
Il matrimonio tra Adele e Ruggero è un episodio trascurato dagli storici, e che invece è importante per far luce sui fenomeni e tradizioni che spesso sembrano inspiegabili. Uno di questi può essere considerato, appunto, la cosiddetta arte romanica, che trova in Puglia espressioni di altissimo livello. Non va trascurato, in questo contesto, il fatto che Salerno non è lontana da Benevento, sede dapprima dei duchi, poi dei principi longobardi, che penetrarono nella regione pugliese attratti, in un primo momento, dalle ricchezze custodite nelle grotte di Monte Sant'Angelo. Essi, dunque, furono dapprima distruttori, razziatori; e solo in un secondo momento sostenitori del rilancio economico e sociale della Puglia.
L'architettura alto-medioevale italiana passa dalle mani dei vecchi maestri romani a quelle dei Longobardi, che la trasformarono radicalmente. Essi furono infatti coloro i quali determinarono il sorgere e il definirsi del cosiddetto "stile romanico", che ha a che fare con i Romani quanto il "gotico" ha a che fare con i Goti.
Accanto alla basilica di origine romana, dapprima centro commerciale, sede giudiziaria o anche sala imperiale, che allora aveva fatto nascere l'aula ecclesiale tipica, i Longobardi svilupparono un altro tipo di edifici, quelli a torre. Si trattò di una novità assoluta in campo architettonico, in quanto né i Romani né i Greci avevano conosciuto torri erette a scopo cultuale. Oggi noi siamo portati a considerare il campanile come un luogo dal quale si può avere un'ottima vista, costruito per far sentire anche in lontananza le campane o per darci la nozione del trascorrere delle ore. Niente di più sbagliato, osserva Jürgen Misch. I nostri campanili furono introdotti nell'architettura occidentale proprio dai Longobardi, che però non ne hanno la paternità: "Il loro illustre albero genealogico affonda le sue radici in un passato ben più remoto, che annovera come prototipi fondamentali quelle strutture megalitiche, nate in piena preistoria, e che prendono il nome di menhir, pietre monolitiche erette, che spesso raggiungono i cinque metri di altezza. Anche gli obelischi si possono considerare come appartenenti allo stesso ceppo, unitamente alle colonne isolate (Irmensa ülen) dei Sassoni e di altre tribù germaniche".


Quest'origine primordiale delle torri sacre ci apparirà ancora più intrigante se consideriamo l'altra grande novità introdotta dai Longobardi in architettura: la cripta. Con questo nome non si deve intendere l'ambiente destinato alle sepolture, sotto l'altare, bensì quel luogo sotterraneo e segreto, che durante l'epoca contrassegnata dallo stile gotico si ampliò moltissimo, perdendo però nel contempo il suo originario valore cultuale. Noi non abbiamo oggi alcuna prova di quanto in essa si doveva svolgere, ma in ogni modo non possiamo non vedervi un corrispettivo "femminile" della torre. Con ogni probabilità tali ambienti avevano a che fare con l'antico culto per i serpenti, diffuso tra i Longobardi e testimoniato a Benevento fin sulle soglie del IX secolo. Sempre da Benevento e da Milano ci vengono poi reperti bronzei decorati con motivi anguiformi, risalenti a tempi antichissimi, almeno nella gran parte dei casi. Inoltre, nell'arte longobarda il serpente ebbe sempre un valore simbolico altissimo. Esso non ha comunque nulla a che vedere con le torri delle chiese, legandosi piuttosto alle origini stesse dell'umanità.
Nella mitologia della Grecia arcaica appare il titano Atlante, il quale è padrone di un giardino al cui interno le sue figlie Esperidi vegliano insieme a un Drago (=serpente), di nome Ladone, i pomi d'oro. Presso i Germani è la dea Idun incaricata di sorvegliare i preziosissimi pomi: preziosissimi, perché il loro succo serviva a far rimanere giovani e immortali gli dei. Al centro della terra si ergeva il possente Albero dell'Universo, il frassino Yggdrasils, le cui radici rode il drago, ovvero il serpente Nidhöggr.
Anche la Bibbia dice: "E il Signore Iddio piantò un giardino nell'Eden... e al centro pose l'Albero della Vita e della Conoscenza del Bene e del Male... ed il Serpente era il più astuto di tutti gli animali della terra". Nella cultura degli Indiani Delaware esiste la tradizione di un'Età dell'Oro che avrà fine allorché gli uomini adoreranno un serpente, mentre dai manoscritti maya apprendiamo che ci sarà una colossale catastrofe cosmica " ... quando dal Cielo piomberà sulla Terra il Grande Serpente". La divinità principale degli Atzechi era Quetzalcoatl, che nella loro lingua significa "Serpente Piumato". Assai simile ad esso è il Serpente Volante dei Cinesi, chiamato anche "Drago dei Cieli".
Come si vede, pur con aspetti diversi, si tratta fondamentalmente dello stesso mito, comune ai Cinesi e ai Sumeri, così come ai Germani e agli Indiani d'America. E ciò sta a testimoniare della sua origine archetipica. Allo stato attuale, sostiene Misch, "non abbiamo alcun dubbio sulla derivazione di questi miti: il pomo, l'albero, il serpente, come scrive F.B. Long, sono solo i simboli di un più grande e tremendo arcano". I Longobardi furono condotti dal loro naturale spirito di tolleranza a tentare una conciliazione del nuovo credo con il vecchio, mediante un'operazione culturale assai feconda, che rifondò dalle radici la loro stessa spiritualità. Dall'Italia settentrionale questa nuova concezione del mondo si irradiò in tutto l'Occidente e fu poi conosciuta come "spiritualità romano-germanica".
Merito indubbio dei Franchi fu quello di non interrompere questa spiritualità. Infatti, dopo la caduta del regno longobardo, furono lasciate in vita la sua organizzazione e la sua cultura. Persino i vari duchi longobardi poterono conservare per molti anni ancora le proprie funzioni e il proprio prestigio, perché l'apparato statale dei Franchi si affermò in tempi e modi assai graduali. L'opera iniziata non fu dunque interrotta. Essa anzi continuò a produrre splendidi risultati, poiché i vincitori furono in realtà a loro volta vinti dai Longobardi in campo culturale.
Contemporaneamente, nelle città dell'Italia settentrionale si sviluppava una nuova e più alta nobiltà, assieme a un ceto dominante di estrazione cittadina e aristocratica insieme, all'interno del quale, ancora nell'XI secolo, i nomi erano per quattro quinti longobardi, come si nota dalla trasformazione di certi nomi propri (Alberich diviene Alberico o Alberigo, Roderich diviene Roderigo o Rodrigo, ecc). Nella ricca ed orgogliosa "borghesia" prendono piede in quest'epoca anche conflitti razziali; tuttavia, sono confermate largamente le ipotesi di un rigoglioso sviluppo economico e civile nel cui ambito si trovano ad acquistare un peso determinante gli elementi di origine italiana. Questo impetuoso sviluppo delle città si ha quasi esclusivamente nei territori che furono del regno longobardo, mentre a Roma e nell'Esarcato bizantino esso si ridusse a poca cosa. Nessuna prova comunque testimonia della vivacità culturale delle città dell'Italia centrale e settentrionale in modo più netto e inequivocabile della nascita che vi si ebbe delle prime università d'Europa. Quando nel 1303 fu fondata l'Università di Roma, nel corpo di quello che era stato il regno longobardo ne esistevano già dieci, mentre al di là delle Alpi se ne contavano solo tre: Parigi, Oxford e Cambridge. Possiamo dunque affermare senza esagerazione che la culla della scienza e della cultura occidentale all'epoca fu proprio l'Italia settentrionale. Da qui partirono gli impulsi vivificatori dell'intero Medioevo europeo; qui trovarono le loro radici esperienze i cui sviluppi si rivelarono poi di fondamentale importanza. E non si può disconoscere che furono proprio i Longobardi a promuoverli e a sollecitarli.
Ebbe il nome di "Longobardia minor". Fu ducato molto esteso, comprendente la zona interna della Campania, il Molise, la Marsica, parte dell'Abruzzo, parte della Puglia (dapprima fino all'Ofanto) e il cosiddetto Bruzio Superiore. Geograficamente decentrato, lontano dal potere centrale, il Ducato di Benevento godette di particolari privilegi, quali quello di una zecca autonoma, e coltivò sempre tendenze centrifughe, malgrado gli sforzi di controllo da parte dei re. Con l'avvento al potere di Arechi II, queste tendenze si accentuarono. Il programma autonomistico del duca era già in atto ancor prima della caduta del regno longobardo nel 774, a seguito della quale Arechi trasformò il Ducato in Principato e assunse il ruolo di erede e difensore della nazione longobarda contro Carlo Magno.
Il modello era pur sempre l'Impero; la sua corte ricalcava quella bizantina. I cronisti ce la descrivono al tempo dell'arrivo degli ambasciatori di Carlo, che rimasero stupefatti di fronte al lusso, al cerimoniale messo in atto dal duca-principe, il quale aveva voluto fra l'altro che i suoi ritratti fossero appesi nelle chiese, al modo di quanto accadeva a Bisanzio. Dopo di lui, i successori si volsero alla sua opera nell'intento di imitarla. Lo spirito indipendentistico della Longobardia minor si sintetizzò visivamente in una costruzione, a Benevento: Santa Sofia, eretta nell'area del Sacrum Palatium (il Palazzo ducale), che richiamava già nel nome la celebre chiesa costantinopolitana di Giustiniano I. Cappella palatina, e nello stesso tempo chiesa di Stato, accolse ad opera di Arechi, col chiaro intento di dar vita ad una coscienza religiosa "nazionale", fortemente colorita di elementi dinastico-cortigiani, le reliquie di dodici martiri e santi locali, da molti secoli oggetto di culto nell'Italia meridionale. Seguì, infine, la "traslatio" di San Mercurio, uno dei sei grandi santi militari bizantini.
Ad Arechi e alla sua opera politica fu strettamente legato il più grande intellettuale dell'epoca, il "gramaticus" Paolo Diacono, l'autore dell'Historia Langobardorum, che lasciò un'impronta profonda nella rinata abbazia di Montecassino, dove diede impulso ad uno "Studium" che fu uno dei centri culturali più vivi d'Italia per molti secoli, dove si trascrissero i codici con la cosiddetta "scrittura beneventana", l'unica che resistette alla riforma della scrittura attuata da Carlo: un conservatorismo collegato alla necessità della difesa dell'autonomia politico-culturale, contro l'invadente egemonia carolingia.
Riassumendo: la dominazione longobarda, estendendosi su quasi tutta la penisola, creò paradossalmente una sorta di unità sotto un'occupazione straniera. Non durò moltissimo, perché i Franchi già premevano ai confini, contendendo le ricche province italiche ai sovrani longobardi. Durò più a lungo, quel dominio, proprio a Sud, dove imposero le loro leggi e soprattutto i loro costumi.
Ora, ritornando alla domanda iniziale, se cioè il Mezzogiorno d'Italia avesse conosciuto un dominio longobardo e assorbito un'antropologia politica e culturale longobarda, e stabilito che l'ha conosciuta e assorbita, emerge un secondo, inquietante quesito: dobbiamo ammettere che esista nei popoli un atavismo storico, parallelo a quello dei singoli individui?
Certamente l'Italia, sottomessa per secoli ai più diversi invasori, ha risentito di varie influenze; ma è opinione diffusa - e per tanti versi suffragata da indizi e prove - che quella dei Longobardi fu forse più profonda e più duratura, prolungandosi anche dopo il loro dominio effettivo con talune usanze ad essi proprie, e di effetti perversi: come i "giudizi di Dio", sia quelli che tendevano a dimostrare l'innocenza o la colpevolezza di un accusato, sia quelli che - sotto forma di duelli - riconoscevano nel vincitore colui che si trovava dalla parte della ragione.
Il duello, ripreso verso l'epoca della cavalleria con nuove norme (per esempio, quella delle armi uguali tra i due contendenti), si irradiò in seguito, tramandandosi in tutta Europa, fino a un passato assai recente, sia pure perdendo la sua caratteristica originaria di giudizio divino, per divenire una sorta di vendetta o di riparazione tra privati. Oggi anche il duello è uscito dal costume civile. Ma perdurano, soprattutto nell'Italia meridionale, le "vendette a catena", che gruppi di famiglie nemiche perpetuano con l'uccisione alternativa di membri dell'una e dell'altra parte in causa.
E qui si rimane perplessi quando, leggendo sulle cronache dei giornali fatti del genere, si pensa alle radici oltremodo lontane di questa barbara consuetudine, che ricorda fin troppo da vicino die Fehde, la faida, che tanta importanza aveva per le leggi longobarde e che può essere definita la vendetta che l'offeso era tenuto ad esercitare sopra l'offensore. Ma poiché allora questi a sua volta diveniva l'offeso, era tenuto a continuare la serie delle vendette, perpetuandole così, alternativamente, nel tempo.
E' necessario ricordare che per i Longobardi la faida non era una semplice consuetudine, ma un dovere sacro, tramandato di padre in figlio insieme con l'eredità. In mancanza di eredi diretti, essa si estendeva ai congiunti fino al settimo grado. Si può anzi dire che la faida regolava le successioni, dalle quali erano escluse le donne e i bambini, i quali, non potendo fare uso delle armi, non erano in grado di esercitare vendette di sorta. Le eredità passavano direttamente a colui che, per vincoli familiari, aveva l'obbligo e la possibilità di praticare le vendette tramandate dagli avi.
La conversione dei Longobardi al Cristianesimo, nei primi anni del secolo VII, indusse a un ripensamento, che culminò nel 644 nel celebre "Editto di Ròtari": il quale, tenuto conto dei crudi costumi dei popoli "germanici", fu uno dei sovrani più illuminati dell'Alto Medioevo. In una sorta di codice, Ròtari raccolse tutte le leggi e le usanze dei Longobardi, inserendo tra esse qualche reminiscenza del diritto romano, e, quanto alle faide, propose, invece dell'uccisione membro per membro, offesa per offesa, le cosiddette "composizioni", vale a dire un compenso in denaro o in altri beni che alleviasse il danno dell'offeso e ne disinnescasse l'impulso alla vendetta.
Nelle composizioni, i prezzi concordati tra le parti divenivano leggi e abolivano la prosecuzione della faida. Il codice di Ròtari contiene una lunga lista delle diverse offese che potevano colpire le persone o le sostanze altrui, con i prezzi delle rispettive composizioni. Il valore corrispondente alla vita di un uomo libero si chiamava Wergeld, o, in italiano, guidrigildo.
Fin qui ci accompagnano le conoscenze storiche, e molto ci aiuta a capire il testo fondamentale di Paolo Diacono. Ma dopo? Come e quanto, ad esempio, venne applicata la legge voluta da Ròtari? E d'altra parte, era sufficiente una legge per sradicare un costume che, in virtù del suo carattere di dovere sacro, faceva vibrare le corde più profonde nell'animo di un popolo? E di un popolo divenuto cristiano da poco, con una di quelle conversioni collettive imposte dai sovrani dell'Alto Medioevo che non escludevano la nostalgia delle credenze ancestrali da parte della gente comune?
Qualcosa di più intimo e radicato continuò evidentemente a legare i Longobardi a questa loro tradizione, nonostante l'Editto di Ròtari; qualche cosa che, dopo quattordici secoli, stranamente sopravvive nell'inconscio delle popolazioni tra le quali essi passarono, proprio restandovi più a lungo, e dunque lasciando la propria impronta duratura.
Ed è un pensiero, questo, che sgomenta, perché mostra il sopravvento di una componente emotiva e crudele sulle qualità civili e nazionali del Sud d'Italia.
Pura e semplice suggestione? Non proprio, o non del tutto. Perché, fra le tante usanze portate più tardi da altri invasori, arabi, normanni, francesi, spagnoli, proprio questa norma, la più barbara di tutte, riaffiora ancora oggi in un mondo ormai così completamente diverso da quello medievale? E quando l'unico tratto comune tra quel lontano passato e la realtà attuale è proprio il Cristianesimo, che ha mitigato e ingentilito tanti altri aspetti della vita di allora, e che ha tentato inutilmente di far rientrare nella memoria storica anche questo, fin dal lontano 644?
Sono interrogativi che dobbiamo porci, al di qua della linea di displuvio fra le due Longobardie. Sono domande che attendono una risposta, nella speranza di un decisivo progresso della cultura dell'Europa cristiana.


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