§ Stupor Mundi

L'Imperatore e il suo suddito (III)




Bruno Di Paola



L'Imperatore e il suo suddito è il titolo di un insieme di episodi della vita di Federico II di Svevia e di Giovanni da Procida, suo medico personale, scritti da loro medesimi.
In queste pagine, tratte dal manoscritto consegnato dall'Imperatore a Giovanni da Procida, Federico racconta della Crociata da lui intrapresa nel 1228, quando riuscì a conquistare Gerusalemme e gli altri Luoghi Santi, nonostante gli ostacoli frapposigli da papa Gregorio IX che lo aveva scomunicato prima della sua partenza.
Giovanni da Procida aggiunge alle parole dello Svevo i propri commenti, improntati ad una grande ammirazione per il suo Imperatore.


3 - La Crociata
"Deponi, o Gerusalemme, la veste del lutto e dell'afflizione, rivestiti della gloria che ti viene da Dio da sempre. Avvolgiti nel manto della giustizia di Dio, metti sul capo il diadema di gloria dell'eterno, perché Dio mostrerà il tuo splendore ad ogni creatura sotto il cielo. Sarai chiamata da Dio per sempre Pace della giustizia e Gloria della pietà. Sorgi, o Gerusalemme!".
L'inno del profeta Baruc, scandito nei testi della Bibbia, mi risuonava solenne e festoso nella mente quando, risalendo verso le mura dell'Orto degli Ulivi, entravo in Gerusalemme per la Porta dei Leoni tra il tripudio degli armati e l'esultanza dei cavalieri. Le bandiere e le insegne sventolavano al tiepido vento, le campane suonavano a distesa, mentre a frotte le rondini, compagne delle feste e delle meditazioni della mia vita, mi salutavano con rapidi giri intorno a minareti e cupole.
La Città tappezzata di foglie di palma e di mirto vide sfilare il mio corteo fino alla Chiesa del Sepolcro. Erano con me Berardo di Castacca, vescovo di Bari ed Ermanno di Salza, gran maestro dei cavalieri teutonici, ai quali tanto dovevo per il felice esito della Crociata.
Volli percorrere a piedi la lunga strada della Passione nella rievocazione del dolore di Nostro Signore e, nella penitenza, ripensai a tutti i pericoli e alle sofferenze di quella impresa.
Tanto mi era costato quel trionfo, tanto avevo rischiato nel partire per la Terra Santa. La Crociata che quattordici anni prima, nel venire incoronato Re dei Romani nella cattedrale di Aquisgrana, avevo inaspettatamente annunciato, si era trasformata in un gioco mortale, in un laccio insidioso che il papa aveva saputo tendermi per perdermi alfine. Ma tutte le avversità si erano ora dissolte; potevo davvero esultare con il Profeta nel deporre la triste veste della penitenza e rivestirmi della luce dell'esultanza e della gloria. Mi attendeva la corona di Gerusalemme e sapevo che il fausto avvenimento avrebbe segnato l'inizio del regno della pace e della giustizia.
Mentre seguivo gli studi nella Scuola di medicina a Salerno avevo gioito anch'io per le notizie che arrivavano dalla Terra Santa.
Ma affinché sia manifesto quanto fosse lecito esultare per il lieto fine di quella impresa, davvero incerto fino all'ultimo, occorre volgere indietro il pensiero per ricordare gli avvenimenti che precedettero quel trionfo. E verrà in mente che Federico, anni prima, aveva annunciato di voler dare avvio ad una nuova Crociata, che ripetute incombenze si erano frapposte anno dopo anno a questo proposito e che il papa Gregorio lo accusava di voler rimandare senza motivo la partenza. Ma non aveva Federico combattuto contro i saraceni in Sicilia, per poi deportarli sconfitti nella pianura della Puglia, a Lucera? Non aveva egli soggiogato i nobili ribelli e messo ordine nelle istituzioni del Regno di Sicilia, sconvolte dopo anni di soprusi? Nello stesso tempo, però, fedele alla sua promessa, aveva avviato i preparativi inviando messaggi ai principi della Cristianità, riunendo gli eserciti, costruendo le navi necessarie e contemporaneamente intrattenendo rapporti con i sultani musulmani.
Era stata fissata la nuova data per l'agosto del 1227, ma una tremenda pestilenza decimò le schiere dei cavalieri e degli armati convenuti a Brindisi dalla Germania, dall'Inghilterra, dalla Francia e dalle più remote regioni, e Federico dovette ancora una volta desistere dall'impresa, Gregorio, che altro non attendeva, lo scomunicò.
Si prodigò l'Imperatore nello spiegare le proprie ragioni, si dichiarò pronto ad ogni penitenza, promise solennemente di partire nella primavera successiva, ma il papa, deciso ad annientare il suo potente avversario, confermò la scomunica.
Aveva infatti posto Federico in una situazione difficile: da scomunicato egli non poteva mettersi a capo dell'esercito crociato, ma se non fosse partito non sarebbe stato mai più prosciolto dalla scomunica. E così fu a tutti chiaro che Gregorio stava preparando la sua destituzione.
Egli infatti si accordava segretamente con i nemici dell'Imperatore, i comuni lombardi in primo luogo, i quali, dominio del Sacro Romano Impero, già dai tempi del grande Barbarossa pretenderanno di non essere soggetti al potere degli imperatori.
Ogni via d'uscita appariva irrimediabilmente sbarrata, la sconfitta sembrava ormai inevitabile, i più temevano per l'ordine del creato. Ma Federico tra la sorpresa di tutti e lo sconcerto dei suoi nemici sovvertì ogni consuetudine e partì scomunicato.
Rileggo ora il suo racconto con lo stesso rapimento con cui da giovane leggevo Cesare; e se quell'antico condottiero ha tramandato l'impresa della Gallia, Federico descrive le gesta della Crociata, in cui rifulge il suo intuito ed il suo genio.
Il mondo assistette ad una novella Alesia, poiché, mentre Federico assediava in Palestina il sultano Al-Kamil per conquistare il Santo Sepolcro, Gregorio invadeva alle sue spalle il Regno lasciato indifeso, e la menzogna, l'odio e la guerra si sparsero lì dove prima regnava la pace. Il padre temeva il figlio, l'amico veniva allontanato nel sospetto di un tradimento e i castelli restavano l'unica difesa contro la violenza dell'assalto; i campi abbandonati si insecchivano, il contadino guardava angosciato l'arrivo del precoce inverno e la miseria bussava imperiosa alle porte davanti alle quali non era mai stata vista prima. Monaci avvelenati di odio giravano per le contrade scomunicando chi parteggiava per l'Imperatore, e la paura e l'orrore stillavano dagli animi dei credenti di fronte a fosche visioni di fiamme infernali in cui diavoli brutali infilavano i loro acuti tridenti e membra, teste e corpi dei dannati venivano squartati e ricomposti in lui eterno e disumano supplizio.
Lo sgomento cresceva, la mente vacillava, la pietà cedeva, l'amore urlava d'angoscia, la vita guardava impotente il fluire di inutili stagioni, mentre la speranza reclamava il capo ornato di fiori appassiti.
Oh, di contro splendore e grandezza della mente di Federico, oh saggezza e magnanimità nell'animo di quell'Augusto, oh valore e virtù in quel novello Cesare. Al pari del grande condottiero che sbarro il passo a Vercingetorige ed ai Galli suoi soccorritori, il nostro Imperatore eresse una doppia barriera, costituita non di aguzze palizzate, di baluardi, di uncini ferrati, ma di acute intuizioni che gli valsero il rispetto e l'ammirazione degli arabi, e di forza e risolutezza che costrinsero Gregorio aduna precipitosa ritirata.
Era necessario conquistare i Luoghi Santi, ma le poche forze che Federico aveva a disposizione, ché l'esercito si era ridotto di molto per la contesa tra lui ed il papa, costrinsero l'Imperatore a tentare di raggiungere un accordo con il Sultano, soluzione a lui congeniale, favorito dalla conoscenza della cultura degli arabi e della loro lingua, ed in virtù del fascino che si irradiava dalla sua persona.
La vittoria si imponeva. Dovevo far risaltare al cospetto del mondo le mie ragioni, e rendere chiara ed evidente la mia innocenza ed il danno subito da me e dall'Impero. Era necessario mettere definitivamente a tacere quel papa che col denaro che avrebbe dovuto servire a quanti partivano crociati, assoldava mercenari per combattere contro di me in tutti quei modi che egli solo conosceva. Dovevo conquistare Gerusalemme possedimento di Al-Kamil, sultano d'Egitto, signore di un potente regno.
Ambasciatori e inviati mi avevano recato messaggi e notizie; conoscevo molto di lui, delle sue inclinazioni e delle sue virtù, che erano numerose.
Amava la caccia e nelle assolate terre d'Oriente lanciava i suoi saettanti falchi a ghermire le astute gru. Anche i falconieri più esperti avrebbero molto imparato nella sua corte. Si dilettava ad addestrare i veloci ghepardi nell'insidiare le timide gazzelle e nelle sue regge crescevano levrieri agili e scattanti.
Trascorreva le notti, dopo la calura del torrido giorno, nelle tende fuori le mura d'elle sue fortezze circondato da saggi con i quali discorreva sulle leggi che regolano il mondo e sulla natura delle cose. Poeti e menestrelli vivevano ammirati e incoraggiati presso di lui, egli stesso poeta.
Sapevo che agili artigiani costruivano per lui meccanismi strani e meravigliosi, automi straordinari che si muovevano spinti dalla forza dei metalli forgiati a molla per eseguire mirabili movimenti. Fra questi destava grande meraviglia un cavallo, alto quanto un uomo, dipinto con colori e toni naturali, che aveva per occhi pietre preziose e le froge e la bocca che parevano vere.
Conoscevo infine l'animo grande e generoso, il cuore giusto e magnanimo, il coraggio e la forza che suscitavano ammirazione nei sudditi e timore nei nemici.
Anche AI-Kamil era molto informato su Federico. I suoi storici paragonavano il nostro Imperatore ad Alessandro, in quanto a gloria e potenza. Ma Al-Kamil sapeva anche che Federico era costretto a conquistare Gerusalemme, che la sua stessa esistenza dipendeva dalla riuscita degli avvenimenti in Terrasanta. Sapeva che il papa aveva invaso il suo Regno e che le forze di cui disponeva erano scarse. Per queste ragioni, il Sultano dopo un formale scambio di missive e di ambasciatori, non si diede pena per concludere l'accordo.
Federico fu costretto all'attesa. Confidò a noi più tardi che aveva pianto per lo scoramento e per lo sdegno, ma che aveva celato questi moti del cuore dietro una apparente serenità, per non trasmettere lo sconforto a chi gli stava accanto e per evitare che i suoi nemici, i monaci, i Templari e le spie del papa, che da ogni parte lo circondavano, ne avessero a giubilare. Ma seppe presto fronteggiare questa situazione concludendo un proficuo trattato con Al-Kamil. Si avverava così l'antica profezia che voleva che fosse un potente signore dell'Occidente colui che avrebbe liberato Gerusalemme.
Saladino aveva affermato che i re si riuniscono solo dopo la conclusione di un accordo in quanto non è conveniente farsi guerra dopo essersi conosciuti e dopo essersi seduti alla stessa mensa. Al-Kamil si attenne a questa regola inviando presso di me l'emiro Fahr-ed-Din, incaricato di portare avanti la trattativa, che sembrava però non dovesse mai terminare.
Ritenni, col trascorrere di inutili giorni, che sarebbe stato più proficuo adattare il mio agire ai comportamenti dei miei avversari, e nel farlo iniziai a sentirmi maggiormente a mio agio, che l'istinto cresce con l'abbandono Ritrovai la mia tranquillità e il piacere di discorrere con un vivace ed intelligente interlocutore, quale era Fahr-ed-Din.
Una sera, dissertando di cose futili ed irrilevanti per alcuni, citai questo passo che racconta delle rondini e che molto mi diletta:
"Mi dici, amico, che non cambieresti la tua vita con quella di una rondine. Mentre stai girovagando senza un istante di tregua da un affanno all'altro, insisti nel considerare che questo piccolo essere non possiede la potenza del leone, la forza dell'elefante, la capacità di rinascere della fenice, l'aggressività della tigre, la furbizia della volpe.
E aggiungi che è fuggevole ed inconsistente, che non si fa notare se non per i suoi stridii. per le sue monotone giravolte nel cielo estivo. E poi, quasi a voler chiudere per sempre l'argomento come vano e noioso, affermi con sarcasmo che ha una vita breve. Siediti accanto a me, dimentica per un istante le tue faccende, regalati un momento di quiete ed io, povero stolto, ti racconterò le meravigliose avventure di questo felice uccellino e cercherò di mutare la tua certezza".
Fahr-ed-Din apprezzò molto questa storia che gli ricordò un proverbio caro ad Al-Kamil:
"Non disprezzare il piccolo nelle contese, ché anche un moscerino può danneggiare la pupilla di un leone".
Fahr-ed-Din proclamava che l'altissimo Dio gli aveva concesso la grazia ineffabile di servire i sovrani più savi del mondo. Riferiva all'uno e all'altro quanto poteva essere utile, per favorire la conoscenza reciproca, per avvicinarli. E così giorno dopo giorno, sulla tela di interessi che egli andava abilmente tessendo fra i due lontani sovrani, transitarono messaggi di distensione e di stima. E certo a Federico piacque molto il proverbio di Al-Kamil, e quest'ultimo apprezzò il brano sulle rondini, che accrebbe in lui la simpatia e l'ammirazione per l'Imperatore.
Di tono e contenuto diverso, le missive ufficiali, lette pubblicamente dai messi dei due schieramenti, parlavano di guerra: in esse Al-Kamil aveva scritto che mai avrebbe consegnato Gerusalemme, sede di culto per l'Islam, e che era pronto a difendere i suoi possedimenti con le frecce degli arcieri e le cariche dei cavalieri. Federico gli aveva risposto che al sovrano del Sacro Romano Impero non era dato tollerare che il Santo Sepolcro non fosse sotto la propria tutela, che si preparava ad invadere il sultanato e a distruggere le città con la potenza del proprio esercito.
Per allontanare tale sciagura Al-Kamil proclamò che non gli rimaneva altra via che cedere, ma pretese che i luoghi sacri dell'Islam fossero accessibili ai musulmani. Federico accettò volentieri questa condizione. In tal modo l'Imperatore aveva riconquistato per i cristiani Gerusalemme e le terre in cui visse Nostro Signore. Poteva ora celebrare la vittoria, poteva ora lanciare proclami al mondo e dimostrare a tutti quanto false e perfide fossero state le azioni di Gregorio.
I bagliori di mille fiaccole si riflettevano come luminosi raggi solari sulle variopinte vetrate della chiesa del Sepolcro nella sera in cui celebrai la Liberazione. Al pari del ringraziamento al Santo Jacobo a Compostella descritto dai pellegrini, gli osanna e i canti di lode risuonavano lungo le navate e tutta la chiesa si illuminava come il sole in un giorno chiaro.
Non avevano partecipato i seguaci del papa, il quale aveva interdetto l'ingresso alla città agli armati. Ma i cavalieri germanici e quelli del mio Regno, insieme ai miei armati saraceni e ai rabbini della città, erano lì, certo ognuno di essi che l'unico Signore che tutti accomuna aveva voluto riunire il Suo popolo per la Sua maggior gloria.
Così mi rivolsi a loro:
"S'allietino ed esultino in Dio i retti di cuore, perché Egli si compiace del suo popolo quando dice Beati i pacifici. Lodiamo anche noi colui che lodano gli angeli. Il Signore Iddio stesso rinnova nel nostro secolo i miracoli che fece nel tempo antico. Egli non sempre procede con carri e cavalli ed eserciti poderosi, affinché risplenda al mondo la sua potenza, ma, come ora, manifesta la Sua gloria attraverso un schiera esigua di uomini, affinché tutte le genti vedano che Egli è terribile nella Sua signoria, glorioso nella Sua maestà, miracoloso nei Suoi disegni sopra i figli dell'uomo. Perché in pochi giorni, grazie alla Sua forza più che al nostro valore, si è felicemente compiuta quell'opera che nei tempi andati molti principi e vari potenti del mondo né per folle di genti che avessero, né per timore che incutessero, né per altro, furono in grado di compiere".
Riferirono coloro che assistettero a quella celebrazione che mirabili parole uscirono dalle labbra dell'Imperatore e, portate in alto quasi sospinte da un vento celestiale fino alle volte delle navate e dei tabernacoli, ricaddero come una benefica pioggia di fervore e di serenità sulle anime delle moltitudini che si assiepavano tra le colonne di quel sacro Tempio. Vi fu chi cadde in ginocchio sulle levigate pietre, chi pianse le lacrime che aveva racchiuse nel suo cuore da lungo tempo, chi si sciolse in un lungo abbraccio con il vicino, chi impresse commosso nella sua mente quella visione per non dimenticarla mai più e per poterla tramandare a chi lì non era.
Non meno rapiti degli altri accanto a Federico restavano immoti e raggianti Berardo di Castacca ed Ermanno di Salza, che tanto avevano trepidato con lui e che ora assistevano all'ascesa di Federico sull'altare ove egli prese la corona di Gerusalemme e se la pose sul capo tra il tripudio e la gioia di tutti.
Rimasi ancora pochi giorni a Gerusalemme, ché gravi incombenze mi attendevano nel Regno. Vidi la costruzione del culto musulmano, chiamata la moschea della Pietra, la cui forma ottagonale mi stupì e mi piacque. Il cadì mi inviò sollecitamente un disegno, accompagnato da queste righe:
"Sorge, o potente Signore, sorge su questo foglio, la geometrica pianta della inclita sede della Venerazione, delineata con le sue più accurate misure che la sua situazione e la maggior cura possibile ha permesso di eseguire. Effigiata nel presente disegno ardisco inviartela come dimostrazione dei geometrici studi di coloro che hanno reso aggraziata e grande questa città. Studi che potrebbero rendere bella e gradevole qualunque città o qualsiasi altro luogo ove la tua Magnificenza designasse nuovamente applicarli".
Ero sicuro anch'io che quella forma avrebbe reso gradevole qualunque luogo, ma nessuno avrebbe acquistato la solennità delle alture della Puglia ove sorge l'Edificio ottagonale, ora terminato.
Preoccupato per la sorte del mio amato Regno partii da Acri e arrivai a Brindisi il 10 giugno del 1229. Da quel porto risalii la costa, diretto verso Foggia per riordinare il mio esercito. Temevo un agguato da parte dei nemici, i cavalieri del Tempio, primi fra tutti, che mi avrebbero insidiato presso le numerose città costiere ove i loro velieri, tornati dalla Palestina, avevano sbarcato emissari ed armati approfittando del disorientamento generale che vi regnava.
Mi fu suggerito perciò dai comandanti delle mie scorte di dirigere il nostro cammino verso l'interno, protetti dalle colline ombrose che in quel tratto di terra corrono parallele alla costa.
Ritenni ragionevole questa precauzione e perciò mutammo il nostro percorso. Nel pomeriggio giungemmo a Cisternino, la cui sagoma si stagliava dall'alto del lungo colle su cui sorge. Accettai volentieri l'invito, rivoltomi da Giovanni dallo Parco, a riparare nella rocca, per cui mi inoltrai sul sentiero che si snoda tra olivi e vigneti. Sceso da cavallo, fui accolto con un inchino dal mio ospite, uomo vigoroso e giovanile, che mi diede il benvenuto mettendo a mia disposizione il borgo intero.
Dietro di lui vi erano delle giovani donzelle tra cui spiccava colei che suscitò in me grande ammirazione. In una veste candida Ilaria si presentò semplice e amabile. La sua persona aggiungeva luce al tramonto e non ebbi occhi se non per lei che, avvedutasi dei miei sguardi, arrossiva dolcemente.
Quando mi porse i freschi teli di lino per detergermi della polvere ebbi modo di contemplare da presso quella soave creatura ed avvertire la fragranza che emanava dalla sua persona. Tutto in lei profondeva leggiadria, i suoi capelli biondi legati in delicate trecce ornate di fermagli, la sua bocca piccola e vermiglia che prometteva delizie senza fine, la sua chiara pelle che si mostrava dalla casta scollatura della veste.
Quella sera durante la cena, mentre un paggio cantava intonate strofe, rimasi ancora in compagnia di Ilaria, e compresi, dai miei sguardi ricambiati, che ella conosceva il mio amore.
A tarda ora mi ritirai nella dimora che mi era stata approntata, ma non riuscivo ad acquietarmi. Udivo i canti amorosi dei paggi e dei servitori ed in me si accendeva la passione per quegli occhi che avevo inseguito tutta la giornata e che mi avevano corrisposto anch'essi. Quella notte agii come un giovinetto per la prima volta innamorato; furtivamente la cercai e giunsi ove ella dormiva angelica. La luna piena faceva filtrare i suoi tenui raggi tra le feritoie della finestra ma la stanza pareva illuminata ancor più dal viso di Ilaria che dalla lattiginosa luce dell'astro notturno, e rimasi lì fermo non so quanto a lungo a contemplarla. Respirava con leggerezza e le sue palpebre tremavano per un sogno in cui sperai ci fossi anch'io. Ad un tratto aprì gli occhi e, come se stesse ancora sognando, mi raccontò di un ameno giardino con belle fontane e fiori profumati, in cui uccelli variopinti volavano tra le foglie dei frondosi alberi. Pensai ai giardini della Palestina e le parlai delle terre d'Oriente e delle sue meraviglie. Ilaria mi ascoltava rapita; ad un tratto vidi i suoi occhi farsi più profondi e mentre cadevo in quel vago abisso la presi tra le braccia e la baciai dolcemente sulla bocca.
La notte trascorse veloce; alle prime luci del mattino dovetti lasciarla e uscii sulle mura. La vallata tutta intorno si mostrava dolce e verde, incorniciata da bianchi borghi. Il sole si levava trionfante quando udii un suono di pietra battuta provenire dalla vicina chiesa. Incuriosito vi entrai e nella luce solare scorsi un artigiano che con perizia scolpiva foglie di acanto e frutti nella bianca pietra di un capitello vicino all'altare. Si rese conto della mia presenza e, stupito, scese dall'impalcatura per venirsi a prostrare ai miei piedi. Quando mi domandò se avessi ordini per lui mi tornò alla mente il viso di Ilaria e gli comandai allora di completare il capitello con i nostri volti. Compiaciuto si mise subito all'opera, e per un tratto osservai il suo lavoro, ma presto tornai alla rocca ove il mio seguito mi cercava preoccupato.
Così era Federico; se, mentre si recava ad un incontro cruciale, incontrava per via un uomo dotto si fermava a parlare a lungo con lui dei suoi molteplici interessi, e dimenticava all'istante gli affanni; che se poi si trattava di animali o di caccia, avrebbe tralasciato qualunque incombenza fosse anche di vitale importanza. Non si allontanò forse a lanciare i suoi girifalchi mentre era in corso l'assedio di Parma e lasciò sguarnito il suo accampamento che fu attaccato dagli abitanti di quella città e depredato e distrutto?
Ma quella volta gli avvenimenti che seguirono furono favorevoli. Col passare dei giorni le schiere dell'Imperatore si fecero sempre più numerose. I cavalieri germani che avevano partecipato alla Crociata si ritrovarono, come per miracolo divino, in Puglia, ove una tempesta li aveva sospinti con le loro navi, e si unirono a Federico, insieme a tutti coloro che erano stati ingannati dai falsi messaggi che avevano annunciato la morte dell'Imperatore in Palestina. In breve i mercenari di Gregorio fuggirono oltre il confine del Regno e Federico più potente che mai poteva proclamarsi Imperatore del Sacro Romano Impero, Re di Sicilia e di Gerusalemme, sempre vincitore.
Gregorio invece era furibondo: la sua azione nata per contrastare la potenza di Federico era naufragata miseramente. Per di più si era coperto di infamia dinanzi al mondo intero che si domandava scandalizzato come mai il papa non revocasse ancora la scomunica a quel grande Imperatore, che, dopo anni di sconfitte ed insuccessi da parte degli eserciti crociati, aveva finalmente restituito la Terra Santa al culto dei cristiani.
Trascorsero mesi prima che il papa si decidesse a togliergli la scomunica. Ermanno di Salza, fedele all'Imperatore e al Papa, innumerevoli volte si recò dall'uno e dall'altro per conciliare le opposte posizioni. Federico fu paziente e generoso nell'accogliere le richieste di Gregorio, tutte quelle che egli pretese, nel restituire perfino ai Templari i beni che aveva loro confiscato.
Infine Gregorio si decise a riammettere Federico nella comunità dei credenti. I due potenti del mondo per suggellare l'accordo si incontrarono ad Anagni.
Il borgo di Anagni, alto sulla pianura, appariva solitario. Sommessi vocii di sentinelle e lontani nitriti di cavalli facevano intuire che le mura e le vie tortuose erano sorvegliate dagli armati delle due parti che si fronteggiavano ostili, ma legati all'ordine ferreo di non pregiudicare la conclusione dell'accordo.
Mi avvicinavo con Ermanno all'ingresso del palazzo papale quando, nel sollevare lo sguardo verso una finestra, scorsi il volto di un vecchio dallo sguardo volitivo e penetrante che mi fissava e che subito si ritrasse dietro una pesante cortina. Gregorio, impaziente, mi attendeva.
Ci incontrammo in una sala ricca di affreschi raffiguranti fiori, oche e uccelli appaiati. Mi venne incontro grave e sollecito insieme, con uno sguardo indagatore e scrutatore, come se avesse voluto soppesare in un solo attimo il mio valore. Mi diressi interessato anch'io verso di lui, il terzo papa che incontravo e che avrei visto solo quella volta, lui, il mio avversario, lui, il mio nemico mortale che fino a poco tempo prima aveva giurato di perdermi.
Ma in quel mattino, dopo un attimo di immota titubanza, ci avvicinammo come attratti dalla forza delle nostre anime, e mentre lui mi chiamava diletto figlio ci baciammo con levità sulle guance.
Per qualche tempo il Sacerdote avrebbe convissuto con l'Augusto, il sole non avrebbe eclissato la luna, la grandezza apostolica non avrebbe offuscato la maestà del mondo.

(3- continua)


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