L'Imperatore
e il suo suddito è il titolo di un insieme di episodi della vita
di Federico II di Svevia e di Giovanni da Procida, suo medico personale,
scritti da loro medesimi.
In queste pagine, tratte dal manoscritto consegnato dall'Imperatore
a Giovanni da Procida, Federico racconta della Crociata da lui intrapresa
nel 1228, quando riuscì a conquistare Gerusalemme e gli altri
Luoghi Santi, nonostante gli ostacoli frapposigli da papa Gregorio IX
che lo aveva scomunicato prima della sua partenza.
Giovanni da Procida aggiunge alle parole dello Svevo i propri commenti,
improntati ad una grande ammirazione per il suo Imperatore.
3 - La Crociata
"Deponi, o Gerusalemme, la veste del lutto e dell'afflizione,
rivestiti della gloria che ti viene da Dio da sempre. Avvolgiti nel
manto della giustizia di Dio, metti sul capo il diadema di gloria
dell'eterno, perché Dio mostrerà il tuo splendore ad
ogni creatura sotto il cielo. Sarai chiamata da Dio per sempre Pace
della giustizia e Gloria della pietà. Sorgi, o Gerusalemme!".
L'inno del profeta Baruc, scandito nei testi della Bibbia, mi risuonava
solenne e festoso nella mente quando, risalendo verso le mura dell'Orto
degli Ulivi, entravo in Gerusalemme per la Porta dei Leoni tra il
tripudio degli armati e l'esultanza dei cavalieri. Le bandiere e le
insegne sventolavano al tiepido vento, le campane suonavano a distesa,
mentre a frotte le rondini, compagne delle feste e delle meditazioni
della mia vita, mi salutavano con rapidi giri intorno a minareti e
cupole.
La Città tappezzata di foglie di palma e di mirto vide sfilare
il mio corteo fino alla Chiesa del Sepolcro. Erano con me Berardo
di Castacca, vescovo di Bari ed Ermanno di Salza, gran maestro dei
cavalieri teutonici, ai quali tanto dovevo per il felice esito della
Crociata.
Volli percorrere a piedi la lunga strada della Passione nella rievocazione
del dolore di Nostro Signore e, nella penitenza, ripensai a tutti
i pericoli e alle sofferenze di quella impresa.
Tanto mi era costato quel trionfo, tanto avevo rischiato nel partire
per la Terra Santa. La Crociata che quattordici anni prima, nel venire
incoronato Re dei Romani nella cattedrale di Aquisgrana, avevo inaspettatamente
annunciato, si era trasformata in un gioco mortale, in un laccio insidioso
che il papa aveva saputo tendermi per perdermi alfine. Ma tutte le
avversità si erano ora dissolte; potevo davvero esultare con
il Profeta nel deporre la triste veste della penitenza e rivestirmi
della luce dell'esultanza e della gloria. Mi attendeva la corona di
Gerusalemme e sapevo che il fausto avvenimento avrebbe segnato l'inizio
del regno della pace e della giustizia.
Mentre seguivo gli studi nella Scuola di medicina a Salerno avevo
gioito anch'io per le notizie che arrivavano dalla Terra Santa.
Ma affinché sia manifesto quanto fosse lecito esultare per
il lieto fine di quella impresa, davvero incerto fino all'ultimo,
occorre volgere indietro il pensiero per ricordare gli avvenimenti
che precedettero quel trionfo. E verrà in mente che Federico,
anni prima, aveva annunciato di voler dare avvio ad una nuova Crociata,
che ripetute incombenze si erano frapposte anno dopo anno a questo
proposito e che il papa Gregorio lo accusava di voler rimandare senza
motivo la partenza. Ma non aveva Federico combattuto contro i saraceni
in Sicilia, per poi deportarli sconfitti nella pianura della Puglia,
a Lucera? Non aveva egli soggiogato i nobili ribelli e messo ordine
nelle istituzioni del Regno di Sicilia, sconvolte dopo anni di soprusi?
Nello stesso tempo, però, fedele alla sua promessa, aveva avviato
i preparativi inviando messaggi ai principi della Cristianità,
riunendo gli eserciti, costruendo le navi necessarie e contemporaneamente
intrattenendo rapporti con i sultani musulmani.
Era stata fissata la nuova data per l'agosto del 1227, ma una tremenda
pestilenza decimò le schiere dei cavalieri e degli armati convenuti
a Brindisi dalla Germania, dall'Inghilterra, dalla Francia e dalle
più remote regioni, e Federico dovette ancora una volta desistere
dall'impresa, Gregorio, che altro non attendeva, lo scomunicò.
Si prodigò l'Imperatore nello spiegare le proprie ragioni,
si dichiarò pronto ad ogni penitenza, promise solennemente
di partire nella primavera successiva, ma il papa, deciso ad annientare
il suo potente avversario, confermò la scomunica.
Aveva infatti posto Federico in una situazione difficile: da scomunicato
egli non poteva mettersi a capo dell'esercito crociato, ma se non
fosse partito non sarebbe stato mai più prosciolto dalla scomunica.
E così fu a tutti chiaro che Gregorio stava preparando la sua
destituzione.
Egli infatti si accordava segretamente con i nemici dell'Imperatore,
i comuni lombardi in primo luogo, i quali, dominio del Sacro Romano
Impero, già dai tempi del grande Barbarossa pretenderanno di
non essere soggetti al potere degli imperatori.
Ogni via d'uscita appariva irrimediabilmente sbarrata, la sconfitta
sembrava ormai inevitabile, i più temevano per l'ordine del
creato. Ma Federico tra la sorpresa di tutti e lo sconcerto dei suoi
nemici sovvertì ogni consuetudine e partì scomunicato.
Rileggo ora il suo racconto con lo stesso rapimento con cui da giovane
leggevo Cesare; e se quell'antico condottiero ha tramandato l'impresa
della Gallia, Federico descrive le gesta della Crociata, in cui rifulge
il suo intuito ed il suo genio.
Il mondo assistette ad una novella Alesia, poiché, mentre Federico
assediava in Palestina il sultano Al-Kamil per conquistare il Santo
Sepolcro, Gregorio invadeva alle sue spalle il Regno lasciato indifeso,
e la menzogna, l'odio e la guerra si sparsero lì dove prima
regnava la pace. Il padre temeva il figlio, l'amico veniva allontanato
nel sospetto di un tradimento e i castelli restavano l'unica difesa
contro la violenza dell'assalto; i campi abbandonati si insecchivano,
il contadino guardava angosciato l'arrivo del precoce inverno e la
miseria bussava imperiosa alle porte davanti alle quali non era mai
stata vista prima. Monaci avvelenati di odio giravano per le contrade
scomunicando chi parteggiava per l'Imperatore, e la paura e l'orrore
stillavano dagli animi dei credenti di fronte a fosche visioni di
fiamme infernali in cui diavoli brutali infilavano i loro acuti tridenti
e membra, teste e corpi dei dannati venivano squartati e ricomposti
in lui eterno e disumano supplizio.
Lo sgomento cresceva, la mente vacillava, la pietà cedeva,
l'amore urlava d'angoscia, la vita guardava impotente il fluire di
inutili stagioni, mentre la speranza reclamava il capo ornato di fiori
appassiti.
Oh, di contro splendore e grandezza della mente di Federico, oh saggezza
e magnanimità nell'animo di quell'Augusto, oh valore e virtù
in quel novello Cesare. Al pari del grande condottiero che sbarro
il passo a Vercingetorige ed ai Galli suoi soccorritori, il nostro
Imperatore eresse una doppia barriera, costituita non di aguzze palizzate,
di baluardi, di uncini ferrati, ma di acute intuizioni che gli valsero
il rispetto e l'ammirazione degli arabi, e di forza e risolutezza
che costrinsero Gregorio aduna precipitosa ritirata.
Era necessario conquistare i Luoghi Santi, ma le poche forze che Federico
aveva a disposizione, ché l'esercito si era ridotto di molto
per la contesa tra lui ed il papa, costrinsero l'Imperatore a tentare
di raggiungere un accordo con il Sultano, soluzione a lui congeniale,
favorito dalla conoscenza della cultura degli arabi e della loro lingua,
ed in virtù del fascino che si irradiava dalla sua persona.
La vittoria si imponeva. Dovevo far risaltare al cospetto del mondo
le mie ragioni, e rendere chiara ed evidente la mia innocenza ed il
danno subito da me e dall'Impero. Era necessario mettere definitivamente
a tacere quel papa che col denaro che avrebbe dovuto servire a quanti
partivano crociati, assoldava mercenari per combattere contro di me
in tutti quei modi che egli solo conosceva. Dovevo conquistare Gerusalemme
possedimento di Al-Kamil, sultano d'Egitto, signore di un potente
regno.
Ambasciatori e inviati mi avevano recato messaggi e notizie; conoscevo
molto di lui, delle sue inclinazioni e delle sue virtù, che
erano numerose.
Amava la caccia e nelle assolate terre d'Oriente lanciava i suoi saettanti
falchi a ghermire le astute gru. Anche i falconieri più esperti
avrebbero molto imparato nella sua corte. Si dilettava ad addestrare
i veloci ghepardi nell'insidiare le timide gazzelle e nelle sue regge
crescevano levrieri agili e scattanti.
Trascorreva le notti, dopo la calura del torrido giorno, nelle tende
fuori le mura d'elle sue fortezze circondato da saggi con i quali
discorreva sulle leggi che regolano il mondo e sulla natura delle
cose. Poeti e menestrelli vivevano ammirati e incoraggiati presso
di lui, egli stesso poeta.
Sapevo che agili artigiani costruivano per lui meccanismi strani e
meravigliosi, automi straordinari che si muovevano spinti dalla forza
dei metalli forgiati a molla per eseguire mirabili movimenti. Fra
questi destava grande meraviglia un cavallo, alto quanto un uomo,
dipinto con colori e toni naturali, che aveva per occhi pietre preziose
e le froge e la bocca che parevano vere.
Conoscevo infine l'animo grande e generoso, il cuore giusto e magnanimo,
il coraggio e la forza che suscitavano ammirazione nei sudditi e timore
nei nemici.
Anche AI-Kamil era molto informato su Federico. I suoi storici paragonavano
il nostro Imperatore ad Alessandro, in quanto a gloria e potenza.
Ma Al-Kamil sapeva anche che Federico era costretto a conquistare
Gerusalemme, che la sua stessa esistenza dipendeva dalla riuscita
degli avvenimenti in Terrasanta. Sapeva che il papa aveva invaso il
suo Regno e che le forze di cui disponeva erano scarse. Per queste
ragioni, il Sultano dopo un formale scambio di missive e di ambasciatori,
non si diede pena per concludere l'accordo.
Federico fu costretto all'attesa. Confidò a noi più
tardi che aveva pianto per lo scoramento e per lo sdegno, ma che aveva
celato questi moti del cuore dietro una apparente serenità,
per non trasmettere lo sconforto a chi gli stava accanto e per evitare
che i suoi nemici, i monaci, i Templari e le spie del papa, che da
ogni parte lo circondavano, ne avessero a giubilare. Ma seppe presto
fronteggiare questa situazione concludendo un proficuo trattato con
Al-Kamil. Si avverava così l'antica profezia che voleva che
fosse un potente signore dell'Occidente colui che avrebbe liberato
Gerusalemme.
Saladino aveva affermato che i re si riuniscono solo dopo la conclusione
di un accordo in quanto non è conveniente farsi guerra dopo
essersi conosciuti e dopo essersi seduti alla stessa mensa. Al-Kamil
si attenne a questa regola inviando presso di me l'emiro Fahr-ed-Din,
incaricato di portare avanti la trattativa, che sembrava però
non dovesse mai terminare.
Ritenni, col trascorrere di inutili giorni, che sarebbe stato più
proficuo adattare il mio agire ai comportamenti dei miei avversari,
e nel farlo iniziai a sentirmi maggiormente a mio agio, che l'istinto
cresce con l'abbandono Ritrovai la mia tranquillità e il piacere
di discorrere con un vivace ed intelligente interlocutore, quale era
Fahr-ed-Din.
Una sera, dissertando di cose futili ed irrilevanti per alcuni, citai
questo passo che racconta delle rondini e che molto mi diletta:
"Mi dici, amico, che non cambieresti la tua vita con quella di
una rondine. Mentre stai girovagando senza un istante di tregua da
un affanno all'altro, insisti nel considerare che questo piccolo essere
non possiede la potenza del leone, la forza dell'elefante, la capacità
di rinascere della fenice, l'aggressività della tigre, la furbizia
della volpe.
E aggiungi che è fuggevole ed inconsistente, che non si fa
notare se non per i suoi stridii. per le sue monotone giravolte nel
cielo estivo. E poi, quasi a voler chiudere per sempre l'argomento
come vano e noioso, affermi con sarcasmo che ha una vita breve. Siediti
accanto a me, dimentica per un istante le tue faccende, regalati un
momento di quiete ed io, povero stolto, ti racconterò le meravigliose
avventure di questo felice uccellino e cercherò di mutare la
tua certezza".
Fahr-ed-Din apprezzò molto questa storia che gli ricordò
un proverbio caro ad Al-Kamil:
"Non disprezzare il piccolo nelle contese, ché anche un
moscerino può danneggiare la pupilla di un leone".
Fahr-ed-Din proclamava che l'altissimo Dio gli aveva concesso la grazia
ineffabile di servire i sovrani più savi del mondo. Riferiva
all'uno e all'altro quanto poteva essere utile, per favorire la conoscenza
reciproca, per avvicinarli. E così giorno dopo giorno, sulla
tela di interessi che egli andava abilmente tessendo fra i due lontani
sovrani, transitarono messaggi di distensione e di stima. E certo
a Federico piacque molto il proverbio di Al-Kamil, e quest'ultimo
apprezzò il brano sulle rondini, che accrebbe in lui la simpatia
e l'ammirazione per l'Imperatore.
Di tono e contenuto diverso, le missive ufficiali, lette pubblicamente
dai messi dei due schieramenti, parlavano di guerra: in esse Al-Kamil
aveva scritto che mai avrebbe consegnato Gerusalemme, sede di culto
per l'Islam, e che era pronto a difendere i suoi possedimenti con
le frecce degli arcieri e le cariche dei cavalieri. Federico gli aveva
risposto che al sovrano del Sacro Romano Impero non era dato tollerare
che il Santo Sepolcro non fosse sotto la propria tutela, che si preparava
ad invadere il sultanato e a distruggere le città con la potenza
del proprio esercito.
Per allontanare tale sciagura Al-Kamil proclamò che non gli
rimaneva altra via che cedere, ma pretese che i luoghi sacri dell'Islam
fossero accessibili ai musulmani. Federico accettò volentieri
questa condizione. In tal modo l'Imperatore aveva riconquistato per
i cristiani Gerusalemme e le terre in cui visse Nostro Signore. Poteva
ora celebrare la vittoria, poteva ora lanciare proclami al mondo e
dimostrare a tutti quanto false e perfide fossero state le azioni
di Gregorio.
I bagliori di mille fiaccole si riflettevano come luminosi raggi solari
sulle variopinte vetrate della chiesa del Sepolcro nella sera in cui
celebrai la Liberazione. Al pari del ringraziamento al Santo Jacobo
a Compostella descritto dai pellegrini, gli osanna e i canti di lode
risuonavano lungo le navate e tutta la chiesa si illuminava come il
sole in un giorno chiaro.
Non avevano partecipato i seguaci del papa, il quale aveva interdetto
l'ingresso alla città agli armati. Ma i cavalieri germanici
e quelli del mio Regno, insieme ai miei armati saraceni e ai rabbini
della città, erano lì, certo ognuno di essi che l'unico
Signore che tutti accomuna aveva voluto riunire il Suo popolo per
la Sua maggior gloria.
Così mi rivolsi a loro:
"S'allietino ed esultino in Dio i retti di cuore, perché
Egli si compiace del suo popolo quando dice Beati i pacifici. Lodiamo
anche noi colui che lodano gli angeli. Il Signore Iddio stesso rinnova
nel nostro secolo i miracoli che fece nel tempo antico. Egli non sempre
procede con carri e cavalli ed eserciti poderosi, affinché
risplenda al mondo la sua potenza, ma, come ora, manifesta la Sua
gloria attraverso un schiera esigua di uomini, affinché tutte
le genti vedano che Egli è terribile nella Sua signoria, glorioso
nella Sua maestà, miracoloso nei Suoi disegni sopra i figli
dell'uomo. Perché in pochi giorni, grazie alla Sua forza più
che al nostro valore, si è felicemente compiuta quell'opera
che nei tempi andati molti principi e vari potenti del mondo né
per folle di genti che avessero, né per timore che incutessero,
né per altro, furono in grado di compiere".
Riferirono coloro che assistettero a quella celebrazione che mirabili
parole uscirono dalle labbra dell'Imperatore e, portate in alto quasi
sospinte da un vento celestiale fino alle volte delle navate e dei
tabernacoli, ricaddero come una benefica pioggia di fervore e di serenità
sulle anime delle moltitudini che si assiepavano tra le colonne di
quel sacro Tempio. Vi fu chi cadde in ginocchio sulle levigate pietre,
chi pianse le lacrime che aveva racchiuse nel suo cuore da lungo tempo,
chi si sciolse in un lungo abbraccio con il vicino, chi impresse commosso
nella sua mente quella visione per non dimenticarla mai più
e per poterla tramandare a chi lì non era.
Non meno rapiti degli altri accanto a Federico restavano immoti e
raggianti Berardo di Castacca ed Ermanno di Salza, che tanto avevano
trepidato con lui e che ora assistevano all'ascesa di Federico sull'altare
ove egli prese la corona di Gerusalemme e se la pose sul capo tra
il tripudio e la gioia di tutti.
Rimasi ancora pochi giorni a Gerusalemme, ché gravi incombenze
mi attendevano nel Regno. Vidi la costruzione del culto musulmano,
chiamata la moschea della Pietra, la cui forma ottagonale mi stupì
e mi piacque. Il cadì mi inviò sollecitamente un disegno,
accompagnato da queste righe:
"Sorge, o potente Signore, sorge su questo foglio, la geometrica
pianta della inclita sede della Venerazione, delineata con le sue
più accurate misure che la sua situazione e la maggior cura
possibile ha permesso di eseguire. Effigiata nel presente disegno
ardisco inviartela come dimostrazione dei geometrici studi di coloro
che hanno reso aggraziata e grande questa città. Studi che
potrebbero rendere bella e gradevole qualunque città o qualsiasi
altro luogo ove la tua Magnificenza designasse nuovamente applicarli".
Ero sicuro anch'io che quella forma avrebbe reso gradevole qualunque
luogo, ma nessuno avrebbe acquistato la solennità delle alture
della Puglia ove sorge l'Edificio ottagonale, ora terminato.
Preoccupato per la sorte del mio amato Regno partii da Acri e arrivai
a Brindisi il 10 giugno del 1229. Da quel porto risalii la costa,
diretto verso Foggia per riordinare il mio esercito. Temevo un agguato
da parte dei nemici, i cavalieri del Tempio, primi fra tutti, che
mi avrebbero insidiato presso le numerose città costiere ove
i loro velieri, tornati dalla Palestina, avevano sbarcato emissari
ed armati approfittando del disorientamento generale che vi regnava.
Mi fu suggerito perciò dai comandanti delle mie scorte di dirigere
il nostro cammino verso l'interno, protetti dalle colline ombrose
che in quel tratto di terra corrono parallele alla costa.
Ritenni ragionevole questa precauzione e perciò mutammo il
nostro percorso. Nel pomeriggio giungemmo a Cisternino, la cui sagoma
si stagliava dall'alto del lungo colle su cui sorge. Accettai volentieri
l'invito, rivoltomi da Giovanni dallo Parco, a riparare nella rocca,
per cui mi inoltrai sul sentiero che si snoda tra olivi e vigneti.
Sceso da cavallo, fui accolto con un inchino dal mio ospite, uomo
vigoroso e giovanile, che mi diede il benvenuto mettendo a mia disposizione
il borgo intero.
Dietro di lui vi erano delle giovani donzelle tra cui spiccava colei
che suscitò in me grande ammirazione. In una veste candida
Ilaria si presentò semplice e amabile. La sua persona aggiungeva
luce al tramonto e non ebbi occhi se non per lei che, avvedutasi dei
miei sguardi, arrossiva dolcemente.
Quando mi porse i freschi teli di lino per detergermi della polvere
ebbi modo di contemplare da presso quella soave creatura ed avvertire
la fragranza che emanava dalla sua persona. Tutto in lei profondeva
leggiadria, i suoi capelli biondi legati in delicate trecce ornate
di fermagli, la sua bocca piccola e vermiglia che prometteva delizie
senza fine, la sua chiara pelle che si mostrava dalla casta scollatura
della veste.
Quella sera durante la cena, mentre un paggio cantava intonate strofe,
rimasi ancora in compagnia di Ilaria, e compresi, dai miei sguardi
ricambiati, che ella conosceva il mio amore.
A tarda ora mi ritirai nella dimora che mi era stata approntata, ma
non riuscivo ad acquietarmi. Udivo i canti amorosi dei paggi e dei
servitori ed in me si accendeva la passione per quegli occhi che avevo
inseguito tutta la giornata e che mi avevano corrisposto anch'essi.
Quella notte agii come un giovinetto per la prima volta innamorato;
furtivamente la cercai e giunsi ove ella dormiva angelica. La luna
piena faceva filtrare i suoi tenui raggi tra le feritoie della finestra
ma la stanza pareva illuminata ancor più dal viso di Ilaria
che dalla lattiginosa luce dell'astro notturno, e rimasi lì
fermo non so quanto a lungo a contemplarla. Respirava con leggerezza
e le sue palpebre tremavano per un sogno in cui sperai ci fossi anch'io.
Ad un tratto aprì gli occhi e, come se stesse ancora sognando,
mi raccontò di un ameno giardino con belle fontane e fiori
profumati, in cui uccelli variopinti volavano tra le foglie dei frondosi
alberi. Pensai ai giardini della Palestina e le parlai delle terre
d'Oriente e delle sue meraviglie. Ilaria mi ascoltava rapita; ad un
tratto vidi i suoi occhi farsi più profondi e mentre cadevo
in quel vago abisso la presi tra le braccia e la baciai dolcemente
sulla bocca.
La notte trascorse veloce; alle prime luci del mattino dovetti lasciarla
e uscii sulle mura. La vallata tutta intorno si mostrava dolce e verde,
incorniciata da bianchi borghi. Il sole si levava trionfante quando
udii un suono di pietra battuta provenire dalla vicina chiesa. Incuriosito
vi entrai e nella luce solare scorsi un artigiano che con perizia
scolpiva foglie di acanto e frutti nella bianca pietra di un capitello
vicino all'altare. Si rese conto della mia presenza e, stupito, scese
dall'impalcatura per venirsi a prostrare ai miei piedi. Quando mi
domandò se avessi ordini per lui mi tornò alla mente
il viso di Ilaria e gli comandai allora di completare il capitello
con i nostri volti. Compiaciuto si mise subito all'opera, e per un
tratto osservai il suo lavoro, ma presto tornai alla rocca ove il
mio seguito mi cercava preoccupato.
Così era Federico; se, mentre si recava ad un incontro cruciale,
incontrava per via un uomo dotto si fermava a parlare a lungo con
lui dei suoi molteplici interessi, e dimenticava all'istante gli affanni;
che se poi si trattava di animali o di caccia, avrebbe tralasciato
qualunque incombenza fosse anche di vitale importanza. Non si allontanò
forse a lanciare i suoi girifalchi mentre era in corso l'assedio di
Parma e lasciò sguarnito il suo accampamento che fu attaccato
dagli abitanti di quella città e depredato e distrutto?
Ma quella volta gli avvenimenti che seguirono furono favorevoli. Col
passare dei giorni le schiere dell'Imperatore si fecero sempre più
numerose. I cavalieri germani che avevano partecipato alla Crociata
si ritrovarono, come per miracolo divino, in Puglia, ove una tempesta
li aveva sospinti con le loro navi, e si unirono a Federico, insieme
a tutti coloro che erano stati ingannati dai falsi messaggi che avevano
annunciato la morte dell'Imperatore in Palestina. In breve i mercenari
di Gregorio fuggirono oltre il confine del Regno e Federico più
potente che mai poteva proclamarsi Imperatore del Sacro Romano Impero,
Re di Sicilia e di Gerusalemme, sempre vincitore.
Gregorio invece era furibondo: la sua azione nata per contrastare
la potenza di Federico era naufragata miseramente. Per di più
si era coperto di infamia dinanzi al mondo intero che si domandava
scandalizzato come mai il papa non revocasse ancora la scomunica a
quel grande Imperatore, che, dopo anni di sconfitte ed insuccessi
da parte degli eserciti crociati, aveva finalmente restituito la Terra
Santa al culto dei cristiani.
Trascorsero mesi prima che il papa si decidesse a togliergli la scomunica.
Ermanno di Salza, fedele all'Imperatore e al Papa, innumerevoli volte
si recò dall'uno e dall'altro per conciliare le opposte posizioni.
Federico fu paziente e generoso nell'accogliere le richieste di Gregorio,
tutte quelle che egli pretese, nel restituire perfino ai Templari
i beni che aveva loro confiscato.
Infine Gregorio si decise a riammettere Federico nella comunità
dei credenti. I due potenti del mondo per suggellare l'accordo si
incontrarono ad Anagni.
Il borgo di Anagni, alto sulla pianura, appariva solitario. Sommessi
vocii di sentinelle e lontani nitriti di cavalli facevano intuire
che le mura e le vie tortuose erano sorvegliate dagli armati delle
due parti che si fronteggiavano ostili, ma legati all'ordine ferreo
di non pregiudicare la conclusione dell'accordo.
Mi avvicinavo con Ermanno all'ingresso del palazzo papale quando,
nel sollevare lo sguardo verso una finestra, scorsi il volto di un
vecchio dallo sguardo volitivo e penetrante che mi fissava e che subito
si ritrasse dietro una pesante cortina. Gregorio, impaziente, mi attendeva.
Ci incontrammo in una sala ricca di affreschi raffiguranti fiori,
oche e uccelli appaiati. Mi venne incontro grave e sollecito insieme,
con uno sguardo indagatore e scrutatore, come se avesse voluto soppesare
in un solo attimo il mio valore. Mi diressi interessato anch'io verso
di lui, il terzo papa che incontravo e che avrei visto solo quella
volta, lui, il mio avversario, lui, il mio nemico mortale che fino
a poco tempo prima aveva giurato di perdermi.
Ma in quel mattino, dopo un attimo di immota titubanza, ci avvicinammo
come attratti dalla forza delle nostre anime, e mentre lui mi chiamava
diletto figlio ci baciammo con levità sulle guance.
Per qualche tempo il Sacerdote avrebbe convissuto con l'Augusto, il
sole non avrebbe eclissato la luna, la grandezza apostolica non avrebbe
offuscato la maestà del mondo.
(3- continua)
|