Giustamente è
stato scritto che Cerrate, per il suo linguaggio estetico, rappresenta
il diverso nella cultura artistica locale sempre orientata verso Bisanzio.
La definizione, alquanto suggestiva, non colma tuttavia la lacunosità
derivante dalla scarsità di documenti sull'abbazia e sull'omonimo
casale. Pertanto, i contributi finora apparsi devono essere considerati
non esaustivi e con un largo margine di probabilità.
Per stile architettonico, l'abbazia di Cerrate è considerata
un'espressione del romanico, che nel Salento si manifestò con
forti impronte bizantine. Per tutto ciò che ha rappresentato,
è ritenuto un modello fra i più interessanti: in effetti,
non è difficile cogliervi, oltre ad un evidente valore storico
e artistico, una straordinaria sintesi culturale, un vivace richiamo
sprigionatosi all'interno delle sue mura dove si sono prodotti servizi
utili, sono nati incontri e scambi di idee, di interessi, di esperienze,
di tecniche, di operosità. Dove si è sviluppata, insomma,
una cultura.
Questo intervento tenta di precisare alcune definizioni acquisite
dalla storiografia locale e cela l'invito a riconsiderare (attraverso
una tesi di laurea?) Cerrate alla luce delle più recenti ottiche
di cui si avvale ormai la ricerca storica.

Un foltissimo mantello vegetale, la cosiddetta foresta di Lecce, che
oltre ad estendersi intorno alla città si dilatava per complessivi
200 km., fino a raggiungere la costa adriatica, probabilmente apparve
alla comunità monastica greca a cui si legano le vicende dell'abbazia
di Cerrate, in agro di Squinzano.
Tra i tipi vegetali presenti - oltre al leccio e alle tipiche essenze
che caratterizzano tuttora la macchia mediterranea - vi sarà
stato il cerro ("Quercus cerris"), varietà della
quercia, definita botanicamente pianta mesofila e "men comune",
ossia rara, per il Salento. Allora come ora preferisce areali di media
montagna, suolo non calcareo, terreno di media umidità ed esposizione
fresca. Se così è stato, ci troviamo quindi di fronte
ad uno stretto legame con la flora del luogo che ha contrassegnato
la toponomastica del casale identificato con Cerrate per la preponderanza,
appunto, dei cerri. Sarebbe interessante conoscere l'impiego che si
fece di quegli alberi, il cui legno è tradizionalmente usato
per la fabbricazione delle botti.
Tuttavia, per il fatto stesso che sia Goffredo di Conversano che l'arcivescovo
di Brindisi, intorno al 1100, esigevano la decima sulla caccia di
cervi e di cinghiali, può essere attendibile anche l'ipotesi
che nella suddetta foresta si praticasse abitualmente tale attività
venatoria. La precisazione di questo elemento varrebbe per fare piena
luce sull'episodio leggendario legato all'Abbazia sul quale si è
scritto e opinato non poco.
Un'ipotesi di esistenza del cervo nel Salento, sul suo carattere di
selvaggina abbastanza comune e, forse, sul suo uso alimentare, oltre
ai pittogrammi ritrovati nell'omonima grotta (Porto Badisco), è
riscontrabile sul mosaico pavimentale di Otranto, dov'è raffigurato
un cervo ferito (rispettivamente sia nella navata centrale che in
quella laterale sinistra) che, probabilmente, non ha un valore soltanto
simbolico.
Accanto alla vasta foresta di Cerrate e alla zona di bosco ceduo,
indicata col termine maccla (si ricorda quella di Calone), si deve
pensare alla coltura dell'olivo, inizialmente poco sviluppata se non
addirittura marginale, che diventa considerevole dal'XI secolo in
poi. "La pressoché unica menzione di alberi d'ulivo si
riferisce a quelli fatti impiantare dal conte di Lecce Tancredi, presso
Cerrate, su un terreno di sua proprietà" (De Leo).
Sarebbe interessante sapere da quali "vivai" Tancredi prese
gli alberelli per l'impianto dell'uliveto. In ogni caso, doveva sapere
a chi affidare il processo produttivo dell'olio e disporre di trappeti
dove lavorare e conservare il prodotto. Per la sua commercializzazione
non avrebbe guastato un buon sistema viario e possibilmente vicino.
Per soddisfare la prima necessità garantiva la costituzione
carsica del territorio salentino ricco di antri e grotte utilizzati
come frantoi (trappiti). Cerrate ne dispone di ampi. Nelle immediate
vicinanze dell'abbazia esisteva un reticolo viario che collegava i
centri costieri e quelli interni. Vi era poi la via Traiana, arteria
di grande comunicazione tra la penisola salentina e Taranto. Un percorso,
in particolare, collegava Gallipoli partendo da Squinzano.
Per quanto riguarda la commercializzazione, si ha notizia che nel
secolo XI l'olio pugliese veniva esportato a Costantinopoli, imbarcato
oltre che dai porti ufficiali di Brindisi, San Cataldo, Otranto e
Gallipoli, anche dai cosiddetti scari proibiti: porticcioli di imbarco
e di sbarco, molto più vicini ai centri di produzione olearia.
Uno scaro era a Casalabate, vicino all'abbazia di Cerrate.
Per l'assenza dei necessari documenti e di qualsiasi indagine archeologica,
si ignora quale relazione di continuità o di rottura vi sia
con un probabile precedente insediamento. Pertanto si azzardano alcune
ipotesi.
Il conte normanno a cui si attribuisce la fondazione di Cerrate (sul
suo nome vi è discordanza; per alcuni è Boemondo, per
altri è Accardo oppure Tancredi) trovò già in
loco una comunità di monaci greci. La zona si denominava già
Cerate o Cervate: "Sulla scorta di questi elementi (esistenza
dell'agiotoponimo, menzione di un egumeno [Paolo] e funzionamento
di uno scriptorium) è possibile attribuire la fondazione del
monastero ad un periodo precedente il 1133 e comunque, per lo meno,
al primo trentennio del XII secolo" (Poso).
In ogni caso rimane aperto il quesito circa la provenienza dei monaci:
"Si ha ragione di ritenere che a Nord di Lecce tra la via Traiana
e il mare, le masserie Nocita, Cerrate e, più verso Brindisi,
quella di Flaminio e di Villanova, siano state ville rustiche, nei
cui dintorni le grotte esistenti indicano la presenza di un insediamento
rupestre" (Poso).
Evidentemente, intorno all'XI secolo, si concretizzò la possibilità
di realizzare una struttura in pietra, un complesso abbaziale sia
pure modesto, in un punto favorevole della foresta di Lecce. Condizione
favorevole fu la presenza di un banco roccioso dal quale estrarre
la pietra e sul quale impiantare i corpi di fabbrica che non sarebbero
rimasti impaludati per la facile defluizione dell'acqua piovana. Nella
roccia esistente, inoltre, si sarebbero ricavati i trappeti.
Il conte normanno non fece altro che favorire la costruzione della
chiesa, anzi la ricostruzione in stile romanico... "sul finire
del XII secolo, restringendo il varco d'ingresso originario come risulta
dall'esame del muro di controfacciata, venne eseguito il portale con
la fascia decorativa a fogliami" (Bertelli).
E pure con l'ottica della ricostruzione bisogna leggere quel puzzle
di frammenti di teste, corpi e iscrizioni in greco pertinenti ad immagini
di santi che si trovano capovolte e accostate confusamente sulla parete
interna destra della chiesa.
Semmai c'è da chiedersi come mai i normanni furono tolleranti
verso il monachesimo greco più di quanto non si possa pensare.
Al momento del loro arrivo in Terra d'Otranto - verso la metà
dell'XI secolo - la popolazione locale era profondamente ellenizzata
e sotto l'influenza di Bisanzio. Lo spirito di tolleranza manifestato
dai normanni (la fondazione del monastero di Casole, presso Otranto,
è una prova) rientrava nel quadro di compromesso della loro
politica: agire per reciproche utilità. Non solo. Privi di
cultura o di stimoli culturali, i normanni furono affascinati dalla
superiorità bizantina e la favorirono.
Non dimostrarono particolari pregiudizi o ostilità verso i
monasteri greci che continuarono ad accogliere la vocazione e la preghiera
di uomini che, ritenuti comunemente santi, poteva sempre aiutare.
Sarebbe un errore pensare che monaci greci entrassero soltanto in
monasteri greci e monaci latini soltanto in quelli latini. Nei piccoli
monasteri - latini o greci, urbani o rurali - dipendenti giuridicamente
da monasteri benedettini non vi fu l'obbligo di abbandonare il rito
greco.
Ancora rimane da chiarire come mai (l'attuale) Salento rimase fedele
ad uno stile architettonico, strettamente locale, ma riecheggiante
il romanico (manifestazione del processo di latinizzazione), continuò
ad adottare decorazioni pittoriche bizantineggianti, come se queste
fossero destinate a fruitori diversi da quelli cui erano indirizzate
le architetture.
Si potranno mai chiarire questi ed altri quesiti? Intanto condividiamo
questa interpretazione della realtà del Salento medioevale:
" ... Variegata, duttile, talvolta contraddittoria, apparentemente
diversa nella sua continua ma risolta tensione tra Oriente e Occidente,
un diverso che è divenuto regola, pratica, tipo. Parlano latino
i costruttori delle cattedrali, dei monasteri greci e latini, delle
chiese private, greco i loro frescanti, i quali talvolta vengono dalla
stessa Grecia: l'incontro quotidiano e dialettico fra le due culture
costituisce il back-ground della cultura artistica del Salento medioevale,
il suo modello e i suoi modi di essere. Non si tratta di un incontro
casuale e superficiale tra due culture, tra due parlate in cui ognuno
parla la propria lingua per se stesso, ma di un'unica caleidoscopica
realtà, di un'unica lingua o almeno tale è il prodotto
finale" (Falla Castelfranchi).
Isolata dal resto dei fabbricati che la circondano, la chiesa (costruita
tra la fine dell'XI e gli inizi del XII secolo) ha forma di una piccola
basilica a tre navate. La principale è più alta rispetto
alle laterali, mentre quella di sinistra si raccorda con un portico
addossato nel XIII secolo. Navate e portico sono coperti da un tetto
spiovente.
La facciata monocuspidale è divisa in tre parti scandite da
archetti pensili - collegati tra loro da sottili colonnine - che si
replicano lungo i muri laterali ed anche sul retro che si gonfia per
la presenza delle tre absidi. Tra la cuspide e la prima linea di archetti
si apre un piccolo rosone. Al centro della navata principale vi è
la porta d'ingresso, decorata esternamente da un portale - sporgente
rispetto al piano della facciata - formato da un archivolto figurato
che, coi rispettivi pulvini di base, poggia sul dorso di due animali
col muso di maiale: oltre a protendersi verso l'esterno, torcono la
testa verso l'ideale visitatore quando varca la soglia. Questi simbolici
quadrupedi, a loro volta, sovrastano i singoli capitelli delle due
colonne laterali, il cui fogliame ospita una colomba. Originariamente
tali colonne nascevano dal dorso di due leoni stilofori per metà
inseriti nel muro. Oggi, insieme ai pilastri di rinforzo, gravano
su di un alto basamento aggiunto in uno dei restauri eseguiti per
sostenere la spinta laterale dell'archivolto. L'interesse artistico
è indirizzato ad esso, ossia ai sei conci che lo compongono.
Sulle singole raffigurazioni le interpretazioni non sono unanimi.
Secondo il De Giorgi, cominciando da destra, si trovano: S. Michele
Arcangelo, acefalo e con una lancia nella sinistra; il Battesimo di
Cristo; la Nascita, l'Adorazione dei Magi; la Visitazione di S. Elisabetta;
un monaco basiliano con la mano destra poggiata sul petto e quella
sinistra che afferra il cingolo della tonaca.
Per il Castromediano, le sei diverse sculture, da destra a sinistra,
rappresentano: un angelo (l'Innocenza?), mutilato; un sacerdote che
immerge un fanciullo nella fonte (il battesimo di rito greco); un
altro sacerdote col capo chino in atto di ascoltare (la confessione
auricolare); un gruppo di tre sacerdoti che reggono vasi sacri; un
uomo e una donna con colomba (il matrimonio); una figura cinta col
cilicio (la Penitenza?).
Teodoro Pellegrino concorda col De Giorgi, mentre per Elia le scene
raffigurano "l'Annunciazione, costituita da due figure nella
parte bassa dell'arco: a sin. si decifra una figura femminile, che
ha in mano la conocchia e il fuso per filare; a destra, nella zona
simmetrica dell'arco, l'Arcangelo Gabriele, a cui attualmente manca
la testa". Seguono le scene della Visitazione, dei Re Magi, del
Natale e, probabilmente, della Fuga in Egitto.
Bertelli esce elegantemente dalla controversa identificazione definendo
le sculture "relative a momenti della Natività" e
sostiene che sul finire del XII secolo il varco d'ingresso originario
del portale si sarebbe ristretto, esaminando bene il muro di controfacciata.
Ci pare non secondario segnalare che nell'archivolto, così
come lo vediamo oggi, si manifestano evidenti discordanze nell'impaginazione
delle scene. Se la lettura comincia da destra (ma, anche se fosse,
da sinistra) il Battesimo si svolge prima che Cristo sia nato e l'Adorazione
dei Magi precede la visita che Elisabetta fa alla Madonna. Questa
confusione di progressione ciclica e compositiva fa pensare ad una
possibile distrazione verificatasi quando, per restringere il varco
d'ingresso originario, fu probabilmente necessario smontare il portale.
E quindi il rimontaggio è stato eseguito da uno scalpellino
poco edotto sul ciclo cristologico.
Sulla interpretazione delle figure o delle singole scene, di oggettiva
difficile lettura... sono possibili le varianti citate. Invece sull'Arcangelo
va fatta una precisazione, se si accetta che le sculture raffigurano
scene cristologiche: Gabriele è l'Annunciatore per eccellenza;
rivela a Maria l'imminente nascita di Gesù con le parole "Io
ti saluto o piena di grazia, il Signore è con te, tu sei benedetta
fra le donne".
Non può confondersi con l'Arcangelo Michele, condottiero delle
milizie celesti e colui che scacciò gli angeli ribelli. Sotto
l'archivolto si apre la porta d'ingresso incorniciata da una decorazione
minuta ed elegante, costituita da una doppia fascia a motivi fogliari,
derivati o dal mondo orientale, precisamente siriano, oppure introdotti
dai Crociati che li diffusero in Puglia e anche in Francia.
In seguito alle intemperie invernali di qualche anno fa, l'intonaco
distaccatosi a sinistra della facciata ha messo in luce un'iscrizione
greca su sette righi, incisi su di un concio, all'altezza di circa
due metri e mezzo dal piano di calpestio.
Poco più sotto all'iscrizione vi sono altre lettere più
piccole (come anche sul lato destro della facciata) e alcuni graffiti
raffiguranti imbarcazioni. Secondo D. Kemper, che per prima ha scoperto
l'iscrizione, si tratta di un epitaffio di undici versi a dodici sillabe
con una data alla fine, molto confusa nella forma e nel contenuto.
Sul lato settentrionale della chiesa, verso la metà del XIII
secolo, fu aggiunto il portico - chissà per quale funzione
- costituito da 24 colonne, il cui fusto alterna la forma cilindrica
a quella ottagonale. Estremamente interessanti i capitelli, diversi
gli uni dagli altri, in cui prevale il gusto del fantastico e del
mostruoso. Un repertorio zoomorfico costituito da centauri, mostri
marini, draghi il cui significato sfugge a noi uomini moderni.
L'interno della chiesa è composto da tre navate divise rispettivamente
da cinque colonne: due addossate alla controfacciata e tre libere.
Sul fusto di una di esse appare un'insolita incisione, non ancora
decifrata.
Non vi sono né cupola, né arco basilicale, né
transetto, né coro; è un'iconografia occidentale un
po' singolare. La copertura delle navate è a capriate, che
reggono un cannicciato a vista, sul quale poggiano le tegole.
Degli elementi esistenti, i più interessanti sono il ciborio
e gli affreschi. Il primo, sorretto da quattro colonne e da altrettanti
capitelli, ha l'architrave incisa da due iscrizioni che riportano
il nome dell'autore dell'opera e il committente (ossia il maestro
Tafuro e l'egumeno Simeone), nonché la data di esecuzione secondo
il computo bizantino 6777, corrispondente al 1269.
Gli affreschi sopravvissuti si trovano nelle tre absidi, nei sottarchi
e sulle pareti; costituiscono infatti la fase più antica della
decorazione pittorica dell'abbazia, e sono fortemente intrisi di moduli
comneni. Si adeguano, insomma, alle tendenze principali della pittura
monumentale della Macedonia nell'ultimo quarto del XII secolo.
Nel cilindro dell'abside principale sono raffigurati cinque santi
in posizione frontale con il libro in mano. Il primo da destra è
S. Giovanni Crisostomo. Il catino è invece occupato dall'Ascensione
- spazio privilegiato nella gerarchia delle immagini - secondo i più
autentici canoni iconografici bizantini. L'abituale citazione in greco
accompagna la scena.
Nell'intradosso delle arcate compaiono immagini di santi, probabilmente
monaci e profeti - ancora da riconoscere pienamente - che si avvicendano
secondo lo schema di due figure a corpo intero e due a mezzo busto.
La parete laterale sinistra conserva immagini di santi di elevata
qualità e sulla parete d'ingresso, a sinistra, si distende
una tenuissima koimesis rigorosamente bizantina. Del puzzle della
parete di destra si è già detto: testimonianze tra le
più alte della pittura bizantina nel Salento. "Gli affreschi
di Cerrate, che meritano una ben più profonda esegesi, occupano
dunque un posto di rilievo non solo all'interno della produzione pittorica
bizantina del Salento, ma anche nel più ampio quadro della
pittura bizantina propriamente detta. La remota elegante bellezza
degli affreschi dell'abside, dei suoi partiti decorativi che, in particolare
nel loro rapporto con le immagini dei diaconi e con i capitelli vegetali
su colonne, costituiscono un episodio notevole per la qualità
della materia pittorica e la perizia nell'inventare e reinventare
accordi e passaggi da un'abside all'altra, tutto questo ed altro ancora
non è facile esprimere. Da dove venissero poi le maestranze,
se, come si dice, non solo locali, sembra a questo punto un non-problema.
L'esistenza di tali affreschi in Salento di per sé sigilla
e garantisce la qualità della cultura artistica di quest'area
nel Medioevo" (Castelfranchi).
Nell'atrio esterno, a pochissima distanza dalla chiesa, è il
pozzo sormontato da quattro colonne che reggono un'architrave incisa
dalla seguente iscrizione: "Ad comunem totius hujus aridae regionis
utilitatem nec non ad venatorum et viatorum comodium Xenodochii Incurabilium
et suburbani ruris procurator Iacobus De Leone Canuensis cisternam
et fontem hunc miro artifitio incidere et construere curavit. Ano
MDLXXXV".
Sull'architrave troneggia una scultura raffigurante un tritone a cavallo
di un delfino e, nel mezzo, è scolpita l'arma dei De Leone,
rappresentata da un leone rampante coronato. Sull'altro lato vi sono
le iniziali S.M.D.P. e si riferiscono alla Santa Casa degli Incurabili
di Napoli che la ebbe in dono (con bolla papale del 1531).
Sulla vera del pozzo, oltre alle iniziali e allo stemma, è
scolpita una sirena e, sui lati corti, due mascheroni.
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