§ SANTA MARIA DI CERRATE

LA STORIA NASCOSTA




Rossella Barletta



Giustamente è stato scritto che Cerrate, per il suo linguaggio estetico, rappresenta il diverso nella cultura artistica locale sempre orientata verso Bisanzio. La definizione, alquanto suggestiva, non colma tuttavia la lacunosità derivante dalla scarsità di documenti sull'abbazia e sull'omonimo casale. Pertanto, i contributi finora apparsi devono essere considerati non esaustivi e con un largo margine di probabilità.
Per stile architettonico, l'abbazia di Cerrate è considerata un'espressione del romanico, che nel Salento si manifestò con forti impronte bizantine. Per tutto ciò che ha rappresentato, è ritenuto un modello fra i più interessanti: in effetti, non è difficile cogliervi, oltre ad un evidente valore storico e artistico, una straordinaria sintesi culturale, un vivace richiamo sprigionatosi all'interno delle sue mura dove si sono prodotti servizi utili, sono nati incontri e scambi di idee, di interessi, di esperienze, di tecniche, di operosità. Dove si è sviluppata, insomma, una cultura.
Questo intervento tenta di precisare alcune definizioni acquisite dalla storiografia locale e cela l'invito a riconsiderare (attraverso una tesi di laurea?) Cerrate alla luce delle più recenti ottiche di cui si avvale ormai la ricerca storica.


Un foltissimo mantello vegetale, la cosiddetta foresta di Lecce, che oltre ad estendersi intorno alla città si dilatava per complessivi 200 km., fino a raggiungere la costa adriatica, probabilmente apparve alla comunità monastica greca a cui si legano le vicende dell'abbazia di Cerrate, in agro di Squinzano.
Tra i tipi vegetali presenti - oltre al leccio e alle tipiche essenze che caratterizzano tuttora la macchia mediterranea - vi sarà stato il cerro ("Quercus cerris"), varietà della quercia, definita botanicamente pianta mesofila e "men comune", ossia rara, per il Salento. Allora come ora preferisce areali di media montagna, suolo non calcareo, terreno di media umidità ed esposizione fresca. Se così è stato, ci troviamo quindi di fronte ad uno stretto legame con la flora del luogo che ha contrassegnato la toponomastica del casale identificato con Cerrate per la preponderanza, appunto, dei cerri. Sarebbe interessante conoscere l'impiego che si fece di quegli alberi, il cui legno è tradizionalmente usato per la fabbricazione delle botti.
Tuttavia, per il fatto stesso che sia Goffredo di Conversano che l'arcivescovo di Brindisi, intorno al 1100, esigevano la decima sulla caccia di cervi e di cinghiali, può essere attendibile anche l'ipotesi che nella suddetta foresta si praticasse abitualmente tale attività venatoria. La precisazione di questo elemento varrebbe per fare piena luce sull'episodio leggendario legato all'Abbazia sul quale si è scritto e opinato non poco.
Un'ipotesi di esistenza del cervo nel Salento, sul suo carattere di selvaggina abbastanza comune e, forse, sul suo uso alimentare, oltre ai pittogrammi ritrovati nell'omonima grotta (Porto Badisco), è riscontrabile sul mosaico pavimentale di Otranto, dov'è raffigurato un cervo ferito (rispettivamente sia nella navata centrale che in quella laterale sinistra) che, probabilmente, non ha un valore soltanto simbolico.
Accanto alla vasta foresta di Cerrate e alla zona di bosco ceduo, indicata col termine maccla (si ricorda quella di Calone), si deve pensare alla coltura dell'olivo, inizialmente poco sviluppata se non addirittura marginale, che diventa considerevole dal'XI secolo in poi. "La pressoché unica menzione di alberi d'ulivo si riferisce a quelli fatti impiantare dal conte di Lecce Tancredi, presso Cerrate, su un terreno di sua proprietà" (De Leo).
Sarebbe interessante sapere da quali "vivai" Tancredi prese gli alberelli per l'impianto dell'uliveto. In ogni caso, doveva sapere a chi affidare il processo produttivo dell'olio e disporre di trappeti dove lavorare e conservare il prodotto. Per la sua commercializzazione non avrebbe guastato un buon sistema viario e possibilmente vicino.
Per soddisfare la prima necessità garantiva la costituzione carsica del territorio salentino ricco di antri e grotte utilizzati come frantoi (trappiti). Cerrate ne dispone di ampi. Nelle immediate vicinanze dell'abbazia esisteva un reticolo viario che collegava i centri costieri e quelli interni. Vi era poi la via Traiana, arteria di grande comunicazione tra la penisola salentina e Taranto. Un percorso, in particolare, collegava Gallipoli partendo da Squinzano.
Per quanto riguarda la commercializzazione, si ha notizia che nel secolo XI l'olio pugliese veniva esportato a Costantinopoli, imbarcato oltre che dai porti ufficiali di Brindisi, San Cataldo, Otranto e Gallipoli, anche dai cosiddetti scari proibiti: porticcioli di imbarco e di sbarco, molto più vicini ai centri di produzione olearia. Uno scaro era a Casalabate, vicino all'abbazia di Cerrate.
Per l'assenza dei necessari documenti e di qualsiasi indagine archeologica, si ignora quale relazione di continuità o di rottura vi sia con un probabile precedente insediamento. Pertanto si azzardano alcune ipotesi.
Il conte normanno a cui si attribuisce la fondazione di Cerrate (sul suo nome vi è discordanza; per alcuni è Boemondo, per altri è Accardo oppure Tancredi) trovò già in loco una comunità di monaci greci. La zona si denominava già Cerate o Cervate: "Sulla scorta di questi elementi (esistenza dell'agiotoponimo, menzione di un egumeno [Paolo] e funzionamento di uno scriptorium) è possibile attribuire la fondazione del monastero ad un periodo precedente il 1133 e comunque, per lo meno, al primo trentennio del XII secolo" (Poso).
In ogni caso rimane aperto il quesito circa la provenienza dei monaci: "Si ha ragione di ritenere che a Nord di Lecce tra la via Traiana e il mare, le masserie Nocita, Cerrate e, più verso Brindisi, quella di Flaminio e di Villanova, siano state ville rustiche, nei cui dintorni le grotte esistenti indicano la presenza di un insediamento rupestre" (Poso).
Evidentemente, intorno all'XI secolo, si concretizzò la possibilità di realizzare una struttura in pietra, un complesso abbaziale sia pure modesto, in un punto favorevole della foresta di Lecce. Condizione favorevole fu la presenza di un banco roccioso dal quale estrarre la pietra e sul quale impiantare i corpi di fabbrica che non sarebbero rimasti impaludati per la facile defluizione dell'acqua piovana. Nella roccia esistente, inoltre, si sarebbero ricavati i trappeti.
Il conte normanno non fece altro che favorire la costruzione della chiesa, anzi la ricostruzione in stile romanico... "sul finire del XII secolo, restringendo il varco d'ingresso originario come risulta dall'esame del muro di controfacciata, venne eseguito il portale con la fascia decorativa a fogliami" (Bertelli).
E pure con l'ottica della ricostruzione bisogna leggere quel puzzle di frammenti di teste, corpi e iscrizioni in greco pertinenti ad immagini di santi che si trovano capovolte e accostate confusamente sulla parete interna destra della chiesa.
Semmai c'è da chiedersi come mai i normanni furono tolleranti verso il monachesimo greco più di quanto non si possa pensare. Al momento del loro arrivo in Terra d'Otranto - verso la metà dell'XI secolo - la popolazione locale era profondamente ellenizzata e sotto l'influenza di Bisanzio. Lo spirito di tolleranza manifestato dai normanni (la fondazione del monastero di Casole, presso Otranto, è una prova) rientrava nel quadro di compromesso della loro politica: agire per reciproche utilità. Non solo. Privi di cultura o di stimoli culturali, i normanni furono affascinati dalla superiorità bizantina e la favorirono.
Non dimostrarono particolari pregiudizi o ostilità verso i monasteri greci che continuarono ad accogliere la vocazione e la preghiera di uomini che, ritenuti comunemente santi, poteva sempre aiutare. Sarebbe un errore pensare che monaci greci entrassero soltanto in monasteri greci e monaci latini soltanto in quelli latini. Nei piccoli monasteri - latini o greci, urbani o rurali - dipendenti giuridicamente da monasteri benedettini non vi fu l'obbligo di abbandonare il rito greco.
Ancora rimane da chiarire come mai (l'attuale) Salento rimase fedele ad uno stile architettonico, strettamente locale, ma riecheggiante il romanico (manifestazione del processo di latinizzazione), continuò ad adottare decorazioni pittoriche bizantineggianti, come se queste fossero destinate a fruitori diversi da quelli cui erano indirizzate le architetture.
Si potranno mai chiarire questi ed altri quesiti? Intanto condividiamo questa interpretazione della realtà del Salento medioevale: " ... Variegata, duttile, talvolta contraddittoria, apparentemente diversa nella sua continua ma risolta tensione tra Oriente e Occidente, un diverso che è divenuto regola, pratica, tipo. Parlano latino i costruttori delle cattedrali, dei monasteri greci e latini, delle chiese private, greco i loro frescanti, i quali talvolta vengono dalla stessa Grecia: l'incontro quotidiano e dialettico fra le due culture costituisce il back-ground della cultura artistica del Salento medioevale, il suo modello e i suoi modi di essere. Non si tratta di un incontro casuale e superficiale tra due culture, tra due parlate in cui ognuno parla la propria lingua per se stesso, ma di un'unica caleidoscopica realtà, di un'unica lingua o almeno tale è il prodotto finale" (Falla Castelfranchi).
Isolata dal resto dei fabbricati che la circondano, la chiesa (costruita tra la fine dell'XI e gli inizi del XII secolo) ha forma di una piccola basilica a tre navate. La principale è più alta rispetto alle laterali, mentre quella di sinistra si raccorda con un portico addossato nel XIII secolo. Navate e portico sono coperti da un tetto spiovente.
La facciata monocuspidale è divisa in tre parti scandite da archetti pensili - collegati tra loro da sottili colonnine - che si replicano lungo i muri laterali ed anche sul retro che si gonfia per la presenza delle tre absidi. Tra la cuspide e la prima linea di archetti si apre un piccolo rosone. Al centro della navata principale vi è la porta d'ingresso, decorata esternamente da un portale - sporgente rispetto al piano della facciata - formato da un archivolto figurato che, coi rispettivi pulvini di base, poggia sul dorso di due animali col muso di maiale: oltre a protendersi verso l'esterno, torcono la testa verso l'ideale visitatore quando varca la soglia. Questi simbolici quadrupedi, a loro volta, sovrastano i singoli capitelli delle due colonne laterali, il cui fogliame ospita una colomba. Originariamente tali colonne nascevano dal dorso di due leoni stilofori per metà inseriti nel muro. Oggi, insieme ai pilastri di rinforzo, gravano su di un alto basamento aggiunto in uno dei restauri eseguiti per sostenere la spinta laterale dell'archivolto. L'interesse artistico è indirizzato ad esso, ossia ai sei conci che lo compongono.
Sulle singole raffigurazioni le interpretazioni non sono unanimi. Secondo il De Giorgi, cominciando da destra, si trovano: S. Michele Arcangelo, acefalo e con una lancia nella sinistra; il Battesimo di Cristo; la Nascita, l'Adorazione dei Magi; la Visitazione di S. Elisabetta; un monaco basiliano con la mano destra poggiata sul petto e quella sinistra che afferra il cingolo della tonaca.
Per il Castromediano, le sei diverse sculture, da destra a sinistra, rappresentano: un angelo (l'Innocenza?), mutilato; un sacerdote che immerge un fanciullo nella fonte (il battesimo di rito greco); un altro sacerdote col capo chino in atto di ascoltare (la confessione auricolare); un gruppo di tre sacerdoti che reggono vasi sacri; un uomo e una donna con colomba (il matrimonio); una figura cinta col cilicio (la Penitenza?).
Teodoro Pellegrino concorda col De Giorgi, mentre per Elia le scene raffigurano "l'Annunciazione, costituita da due figure nella parte bassa dell'arco: a sin. si decifra una figura femminile, che ha in mano la conocchia e il fuso per filare; a destra, nella zona simmetrica dell'arco, l'Arcangelo Gabriele, a cui attualmente manca la testa". Seguono le scene della Visitazione, dei Re Magi, del Natale e, probabilmente, della Fuga in Egitto.
Bertelli esce elegantemente dalla controversa identificazione definendo le sculture "relative a momenti della Natività" e sostiene che sul finire del XII secolo il varco d'ingresso originario del portale si sarebbe ristretto, esaminando bene il muro di controfacciata.
Ci pare non secondario segnalare che nell'archivolto, così come lo vediamo oggi, si manifestano evidenti discordanze nell'impaginazione delle scene. Se la lettura comincia da destra (ma, anche se fosse, da sinistra) il Battesimo si svolge prima che Cristo sia nato e l'Adorazione dei Magi precede la visita che Elisabetta fa alla Madonna. Questa confusione di progressione ciclica e compositiva fa pensare ad una possibile distrazione verificatasi quando, per restringere il varco d'ingresso originario, fu probabilmente necessario smontare il portale. E quindi il rimontaggio è stato eseguito da uno scalpellino poco edotto sul ciclo cristologico.
Sulla interpretazione delle figure o delle singole scene, di oggettiva difficile lettura... sono possibili le varianti citate. Invece sull'Arcangelo va fatta una precisazione, se si accetta che le sculture raffigurano scene cristologiche: Gabriele è l'Annunciatore per eccellenza; rivela a Maria l'imminente nascita di Gesù con le parole "Io ti saluto o piena di grazia, il Signore è con te, tu sei benedetta fra le donne".
Non può confondersi con l'Arcangelo Michele, condottiero delle milizie celesti e colui che scacciò gli angeli ribelli. Sotto l'archivolto si apre la porta d'ingresso incorniciata da una decorazione minuta ed elegante, costituita da una doppia fascia a motivi fogliari, derivati o dal mondo orientale, precisamente siriano, oppure introdotti dai Crociati che li diffusero in Puglia e anche in Francia.
In seguito alle intemperie invernali di qualche anno fa, l'intonaco distaccatosi a sinistra della facciata ha messo in luce un'iscrizione greca su sette righi, incisi su di un concio, all'altezza di circa due metri e mezzo dal piano di calpestio.
Poco più sotto all'iscrizione vi sono altre lettere più piccole (come anche sul lato destro della facciata) e alcuni graffiti raffiguranti imbarcazioni. Secondo D. Kemper, che per prima ha scoperto l'iscrizione, si tratta di un epitaffio di undici versi a dodici sillabe con una data alla fine, molto confusa nella forma e nel contenuto.
Sul lato settentrionale della chiesa, verso la metà del XIII secolo, fu aggiunto il portico - chissà per quale funzione - costituito da 24 colonne, il cui fusto alterna la forma cilindrica a quella ottagonale. Estremamente interessanti i capitelli, diversi gli uni dagli altri, in cui prevale il gusto del fantastico e del mostruoso. Un repertorio zoomorfico costituito da centauri, mostri marini, draghi il cui significato sfugge a noi uomini moderni.
L'interno della chiesa è composto da tre navate divise rispettivamente da cinque colonne: due addossate alla controfacciata e tre libere. Sul fusto di una di esse appare un'insolita incisione, non ancora decifrata.
Non vi sono né cupola, né arco basilicale, né transetto, né coro; è un'iconografia occidentale un po' singolare. La copertura delle navate è a capriate, che reggono un cannicciato a vista, sul quale poggiano le tegole.
Degli elementi esistenti, i più interessanti sono il ciborio e gli affreschi. Il primo, sorretto da quattro colonne e da altrettanti capitelli, ha l'architrave incisa da due iscrizioni che riportano il nome dell'autore dell'opera e il committente (ossia il maestro Tafuro e l'egumeno Simeone), nonché la data di esecuzione secondo il computo bizantino 6777, corrispondente al 1269.
Gli affreschi sopravvissuti si trovano nelle tre absidi, nei sottarchi e sulle pareti; costituiscono infatti la fase più antica della decorazione pittorica dell'abbazia, e sono fortemente intrisi di moduli comneni. Si adeguano, insomma, alle tendenze principali della pittura monumentale della Macedonia nell'ultimo quarto del XII secolo.
Nel cilindro dell'abside principale sono raffigurati cinque santi in posizione frontale con il libro in mano. Il primo da destra è S. Giovanni Crisostomo. Il catino è invece occupato dall'Ascensione - spazio privilegiato nella gerarchia delle immagini - secondo i più autentici canoni iconografici bizantini. L'abituale citazione in greco accompagna la scena.
Nell'intradosso delle arcate compaiono immagini di santi, probabilmente monaci e profeti - ancora da riconoscere pienamente - che si avvicendano secondo lo schema di due figure a corpo intero e due a mezzo busto.
La parete laterale sinistra conserva immagini di santi di elevata qualità e sulla parete d'ingresso, a sinistra, si distende una tenuissima koimesis rigorosamente bizantina. Del puzzle della parete di destra si è già detto: testimonianze tra le più alte della pittura bizantina nel Salento. "Gli affreschi di Cerrate, che meritano una ben più profonda esegesi, occupano dunque un posto di rilievo non solo all'interno della produzione pittorica bizantina del Salento, ma anche nel più ampio quadro della pittura bizantina propriamente detta. La remota elegante bellezza degli affreschi dell'abside, dei suoi partiti decorativi che, in particolare nel loro rapporto con le immagini dei diaconi e con i capitelli vegetali su colonne, costituiscono un episodio notevole per la qualità della materia pittorica e la perizia nell'inventare e reinventare accordi e passaggi da un'abside all'altra, tutto questo ed altro ancora non è facile esprimere. Da dove venissero poi le maestranze, se, come si dice, non solo locali, sembra a questo punto un non-problema. L'esistenza di tali affreschi in Salento di per sé sigilla e garantisce la qualità della cultura artistica di quest'area nel Medioevo" (Castelfranchi).
Nell'atrio esterno, a pochissima distanza dalla chiesa, è il pozzo sormontato da quattro colonne che reggono un'architrave incisa dalla seguente iscrizione: "Ad comunem totius hujus aridae regionis utilitatem nec non ad venatorum et viatorum comodium Xenodochii Incurabilium et suburbani ruris procurator Iacobus De Leone Canuensis cisternam et fontem hunc miro artifitio incidere et construere curavit. Ano MDLXXXV".
Sull'architrave troneggia una scultura raffigurante un tritone a cavallo di un delfino e, nel mezzo, è scolpita l'arma dei De Leone, rappresentata da un leone rampante coronato. Sull'altro lato vi sono le iniziali S.M.D.P. e si riferiscono alla Santa Casa degli Incurabili di Napoli che la ebbe in dono (con bolla papale del 1531).
Sulla vera del pozzo, oltre alle iniziali e allo stemma, è scolpita una sirena e, sui lati corti, due mascheroni.


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