Favoleria
è una parola che il vocabolario non registra. Ma il vocabolario
non è, necessariamente, il "luogo" di tutte le parole.
Sul vocabolario, e con le parole del vocabolario, si possono dire innumerevoli
cose; ma l'invenzione è di qua dal vocabolario, e il vocabolario
non è se non il deposito - prezioso, certo - dell'invenzione
linguistica: e non precede mai l'invenzione.
Favoleria è una parola che finirà in un vocabolario? Non
importa porsi un simile problema. Abbia o no il crisma di una qualche
futura registrazione, la parola costituisce l'intrigante titolo del
libro di Antonio Errico: Favolerie, appunto. (1)
Il titolo è parola-guida, offre un filo per seguire un percorso
possibile. Che è quello, innanzitutto, del piacere di sentir
narrare: perché questa scrittura ci fa avvertire la presenza
di una voce, quella del narratore, che desidera - mi sembra - più
che farsi leggere farsi ascoltare. Perché il fascino del favoleggiare
sta nella voce di chi narra e ci tiene legati al racconto con la forza
e gli artifici di una seduzione che solo la voce veramente conosce.
Ecco, dunque, alla soglia (la soglia-titolo) di queste favolerie, la
seducente ambiguità del testo si annuncia e, direi meglio, s'insinua
nella nostra mente con una duplice promessa: quella del "che cosa"
ci verrà narrato, e quella del "come" ci verrà
narrato.
1. Voci; e
"la voce"
Un primo segnale riguarda proprio il "come": la voce. Non
solo per il fatto che la prima persona domina quasi incontrastata
il territorio della narrazione ma proprio perché quella prima
persona si dispiega e si manifesta in una pronunzia in cui il segno
scritto è visibile supporto a una scrittura votata alla oralità.
Questa scrittura ha in sé, come una sorta di marchio distintivo,
la "necessità" d'essere detta. Lo si sente già
in apertura del primo racconto, I padri, nella struttura chiastica
del periodo iniziale: un'affermazione che, appena detta, ritorna su
se stessa in un gioco d'eco - gioco di "voce" -, in una
duplicità di rispecchiamento:
Ogni giorno
mi dicevano un nome, un nome ogni giorno. (2)
La duplicazione
non contribuisce ad un accrescimento d'informazione. Ribadisce quella
già data. Ma serve alla "voce" ad aggiustare, per
così dire, l'impostazione. E' il modo con cui la voce afferma
se stessa, si dispone protagonisticamente sulla scena del racconto.
E dirò qui, per inciso, quanto possa suggestionare, accanto
alla parola "figura", l'aggiunta di "voce" nella
dedica che l'autore premette al libro: "A mio padre ora figura
e voce di racconto". Ma si può trarre profitto da quella
"voce di racconto" per dare sostegno - di riaffermazione
- alla indispensabilità della "voce" per il clima
stesso di questi racconti. Qui la prima persona, il narrante, non
si confida a qualcuno: narra, e si narra, a una cerchia di persone
in ascolto.
La voce ha una sua centralità e una sua presenza entrambe autorevoli
e confidenti insieme. Il protagonista dei padri chiede a Turno di
portare con sé il suo scudo di corteccia; egli, voce che fila
il racconto di sé che gli uomini sempre raccontano a se stessi,
promette di "portare le storie". Ma le storie è la
voce che le dice; il narratore di storie non ha che quello strumento.
Non accenna a materiale scrittorio, tutto affida a un raccontare che
nasce dalle cose e si riversa sugli uomini e le cose: "il mare
mi porterà racconti nuovi che io racconterò quando tu
verrai. Come una volta ti racconterò, come le volte che ti
raccontavo al buio del giardino ... ". E, in Forse ora la pioggia,
Palinuro, al compagno che gli chiede che cosa racconti il mare notturno,
risponde:
Il mare non
ha tempo, non ha voce, [ ... ]. (3)
Voce e racconto,
intrinseci l'uno all'altro, non sono che dell'uomo. E se altro non
resta di quella che fu una presenza, resta la "voce": "Ogni
notte di lui mi tornava la voce" dice la protagonista di Canto
popolare. Ed è, anche questa, voce che narra:
Fiabe mi sembravano,
infinite. Di feste raccontava,
gioie e fiori.
Storie nuove ogni volta, mai sentite, ed ognuna aveva
segreti e porte chiuse da svelare e da aprire ... (4)
La voce non pretende
d'essere portatrice di verità; anzi, essenzialmente, è
strumento del racconto, della finzione-invenzione, come negli Indovini,
in cui gli uomini stessi, nel dire di Cassandra, sono una finzione,
di cui tuttavia l'unico dato percepibile e distintivo è costituito
proprio dalla voce:
Siamo una fantasia,
tu dici, una finzione. Sì, anche questo forse, o questo solo.
Ma la rassomiglianza tra la tua voce e l'angoscia che io sento nella
voce di colui che si tiene allo stesso arbusto tuo, mi dice che lo
stesso sangue marchiò le vostre vite nel tempo quando voi viveste.
(5)
E la voce che
dice il racconto di un eventuale domani oscuro o lieto, è la
voce di Sibilla la cui sentenza è rapita dal vento o si fa
voce di teatro, di una recita della vita tra l'imminenza di un dolore
certo e la costruita illusione di una promessa che non si realizzerà.
La voce consapevole di contribuire a una finzione, e alla quale ci
si affida come alla voce della verità, irride a se stessa e,
nel momento stesso, spreme la sua goccia di compassione sulla necessità
di mentire; e si colloca nello spazio scenico, là dove la finzione
è più apertamente ed inequivocabilmente dichiarata.
Ed è, ancora, il racconto degli Indovini:
Mi hanno chiamata
all'improvviso, mi hanno detto: tu sarai la voce della verità
del nostro dramma.
Io voce verità, signo', che dite? Sibilla, 'a parulara che
legge la mano abbascio 'o puorto, voce verità? io che dico
parole senza senso, leggere come 'o viento, pe' curiosità,
pe' medicamento? [ ... ]
L'indovino, o signori, è una voce di teatro [ ... ] Dice fiore
e sta pensando pietra; dice luce e invece pensa scuro; festa per lutto,
fortuna per miseria. E parla per campare. (6)
Anche la scrittura,
però, è "voce". Anche chi scrive, scrive -
si direbbe - per la voce; per trasmettere la propria voce, perché
la sua scrittura-voce duri nel tempo e dia testimonianza di un passaggio
sulla terra tenacemente insidiato dall'oblio. Per questo scrive Isabella
di Canzone d'inverno:
Lascio questa
scrittura a testimonio che son vissuta. Che della voce mia diventi
voce, e l'eco passi l'orizzonte e il mare [ ... ]. Che questa scrittura
mia sia la mia vita, che della mia storia diventi ricordanza che duri
per cento e cento anni. (7)
Il racconto, dunque,
anche quando si affida alla scrittura, resta dominio della voce, è
nella voce che trova la sua piena realizzazione. E ha l'ambizione
talvolta, come dice Giacomo di Nell'ora silenziosa di Maria, di farsi
portatore della voce divina:
E' impossibile
dire con parole di uomo
il miracolo della parola di Dio,
pronunciare l'indicibile, scrivere l'eco di una voce infinita.
(8)
Aggiunge Giacomo:
Non mi seduce
la gloria dello scriba.
Griderei questa storia se il mio grido potesse durare
per quanto dureranno le lettere impresse sul papiro. (9)
Ed è, questa,
la più evidente dichiarazione della modalità della scrittura
delle Favolerie. Più che la volontà di scrivere, la
volontà di dire: sollecitata e suggestionata dalla presenza
dell'ascoltante. Che cosa resta da fare al narratore che si accinga,
per l'impossibilità di avere sempre intorno a sé una
cerchia di ascoltatori, che cosa resta da fare per fermare una figura,
un suono, e dolcezza dolore incantesimo, e vita e morte, e realtà
e immaginazione fuse e confuse da uno scambio continuo? Che cosa resta
da fare nel tentativo, ahimé! di fermare quanto è vorticosa
vita e fluenza del dire nella fissità della parola scritta?
"Basta solo trascrivere le voci": la risposta è nel
corsivo che chiude il libro con un riassuntivo poemetto in prosa e
forse gli contende un po' della sua grazia e del suo incanto per la
preoccupazione di convogliare, stringendole in una sigla unitaria,
le due parti di cui si compone il volume delle Favolerie. Nella paginetta
finale, sull'onda melodica delle parole, affiora qualche residuo didascalico;
e così affiora in un racconto, Il sogno di Gustave, in cui
la costruzione appare più faticata e la pagina perde a tratti
quella aerea leggerezza che ne è, quasi sempre, la cifra distintiva
e necessaria.
2. Favolerie
"cum figuris"
Se la voce è una, la più importante a me pare, polarità
del libro, l'altra è la "figura". Favolerie è
un libro di "figure"; e questo soprattutto nei racconti
della prima sezione. E intenderei "figura", con una approssimazione,
un po' come l'intende l'esegesi biblica quando assegna il ruolo di
"figure" di Cristo o della Vergine o della Chiesa a personaggi
dell'Antico Testamento. Con una approssimazione; perché mentre
le "figure" vetero-testamentarie trovano compimento e si
inverano compiutamente nella storia cristiana, le "figure"
attratte nelle pagine dei racconti di Antonio Errico sono destinate
a perpetuare la loro perfettibilità indefinitamente. Le "figure"
nel disegno divino giungono a compiutezza e perfezione; nella storia
dell'uomo esse sono archetipi le copie dei quali, per una modificazione
continua dello stampo che le forma, conservano le linee dell'originale
ma sono connotate soprattutto dalle alterazioni di una subìta
metamorfosi.
Un esempio è la Cassandra degli Indovini la cui incarnazione
più recente è, nel racconto, quella di un'indovina dei
nostri giorni che alla verità crudele cui è fatalmente
votata la figlia dell'antico Priamo ha sostituito la menzogna necessaria
e rassicurante. La "figura" ha subito una modificazione
profonda, lungo il percorso che va dalla verità inevitabile
a una verità che si può costruire sulle attese del richiedente:
dalla inesorabile fatalità del destino agli aggiustamenti e
alle risorse del "mestiere". Dice la maga napoletana:
Certo che così
è più facile parlare [e vuol dire: nella finzione del
teatro]. Quando però uno arriva e si siede di fronte a te col
batticuore e tu devi dirgli che dice la sua mano, allora è
diverso. Perché la sua mano suda e gli tremano le labbra e
tu devi indovinare che cosa lui si aspetta che tu dici. Qui si vede
il mestiere, signori, a questo punto: quando devi indovinare che si
aspetta una creatura. (10)
Sembrerebbe, dalla
"tragica" figura di Cassandra alla "comica" (nel
senso che appartiene a una più modesta quotidianità)
figura della maga di mestiere, un percorso di degrado della "figura".
Invece è altro; è il riconoscimento di un necessario
adattarsi nelle maglie di una realtà in cui il tragico è
talmente quotidiano da perdere la sua grandezza, la sua immanità,
nella ripetizione di una cronaca dove tutto è livellato e la
confusione è tale da non consentire più distinzioni.
Così, in Elissa degli specchi, la folle protagonista è
l'estrema - e momentanea - incarnazione di Didone in una vicenda che
si ripete nel tempo: ripetizione dell'amore e del tradimento, dell'abbandono
e della morte; il tutto giocato sul filo di una finzione che raccorda
passato e presente, memoria personale e memoria letteraria. E si parte
dalla figura di donna che si specchia, figura canonica della tradizione
letteraria e della secolare iconografia. L'operazione di restauro
che la donna compie davanti allo specchio è davanti a uno specchio
metaforico che si compie. La nuova Elissa si specchia nello stesso
specchio in cui tante sue sorelle letterarie si sono specchiate, lo
specchio della letteratura:
Ora sono qui,
mi vedi: cambio ogni mese il colore dei capelli, faccio impacchi d'edera
alle borse degli occhi - nascondo così le rughe di millenni
- costruisco barchette di carta e immagino che un mare furioso le
travolga.
Mi vedi. Adesso bevo: poi vomito: poi vomito i versi del tuo poeta,
la tua pietas, il tuo orgoglio, la tua ipocrisia, i tuoi dei, i miei
rimpianti. Vomito le menzogne con cui hanno eretto statue al tuo destino,
quella immagine di eroe che hai lasciato, il disordine che lasciavi
nella stanza, l'alito pesante, la tua maschera virtuosa. (11)
Il passo fornisce
utili indicazioni sul trattamento della "figura" nelle pagine
di Errico; che è, quasi sempre, trattamento di cui è
fatta responsabile la voce narrante: qui quella della cadente Elissa
che, allo specchio, combatte contro l'impietosità del tempo,
ridicola e toccante come la stagionata signora ricordata nelle pirandelliane
pagine dell'Umorismo illusa d'una non più recuperabile gioventù.
Ma che ne è stato di Enea? Ha lasciato dietro di sé
(e un poeta si è incaricato di magnificare la menzogna) una
immagine di eroe, là dove la donna che lo conobbe ne ricorda
l'intimità un po' sgradevole, e il profilo ipocrita: la "maschera
virtuosa".
C'è, evidente, un processo di abbassamento che finisce per
mostrarsi a chi legge sul verso delle carte della letteratura o della
storia. Ed è talvolta la "figura" stessa, in una
delle sue reincarnazioni, a provvedere a quel processo di abbassamento,
in note di un'ironia divertita e amara, impastata della consapevolezza
della inanità delle rappresentazioni magnificatrici.
Turno, nel racconto Il generale Turno, chiede con insistenza ad Enea
da che parte stia ora che è lui l'assediatore e il persecutore,
lui che pure ebbe esperienza d'assedio e di persecuzione e di esilio
doloroso; e Turno si fa, quasi, cronista di guerra, di una guerra
che è recente e antica insieme, insanguinata cronaca d'oggi
e sanguinosa memoria del passato, poiché, come afferma, "Le
guerre in fondo si somigliano tutte, basta averne conosciuta una sola".
Ebbene, Turno considera il suo esser "figura" con il distacco
di chi vede le cose da una distanza che consente la rinuncia ad ogni
orpello e chiede, implicitamente, d'essere restituito alla propria
originaria verità, liberato dalle stratificazioni che su quella
verità si sono accumulate.
Riflette Turno:
Quanto tempo
è passato. In certi giorni, in certe notti, ho l'impressione
di essere - come dire - una statua funeraria che qualcuno ha innalzato
in questa città a memoria di una gloria o di un sogno, una
di quelle statue a grandezza naturale che ornano i parchi. Sarà
per questo che mi chiamano generale Turno. Sarà per la leggenda
di combattente fiero che mi porto dietro, quella leggenda che mi pesa
più di quanto pesa a un guerriero ferito l'armatura ...
(12)
La "figura"
ha fagocitato la persona, l'ha spogliata della sua concretezza, ha
lasciato unica eredità un nome: ma un nome gravato dall'impegno
di costituire un modello. Così come la "figura" divora
la persona, la scrittura, a sua volta, divora il personaggio, costretto
(per così dire) a reincarnarsi secondo modalità diverse.
La "figura" è il fantasma che alimenta se stesso
con i figli che genera, con le sue innumerevoli incarnazioni. Della
vita che fu, reale o immaginaria, goduta o patita entro una dimensione
storica o nella nicchia di una leggenda, resta il segno in un nome
che si trasmette, quale unica inesauribile eredità, e trasmette
la forza vittoriosa della propria utilizzabilità. Ulisse -
è un esempio - vive della forza del suo nome piuttosto che
di quella del suo essere costituito in archetipo; tanto è vero
che dove il nome resta uguale la figura subisce una variegata serie
di adattamenti: da Omero a Dante, da Pascoli a D'Annunzio a Gozzano
a Joyce.
Nome e ricordo fanno lo stesso percorso; là dove la "figura"
svicola, s'infratta, va per deviazioni, nome e ricordo corrono lungo
un itinerario lineare. E gioverebbe soffermarsi sulla frequenza di
parole come nome, ricordo, memoria. Cassandra sente, di sé,
d'essere (e chiede se anche Calcante lo sia) "un nome senza storia";
però è al nome che si affida il ricordo e quando tutto
sarà vano e la metamorfosi avrà cominciato il processo
continuo di elaborazione della "figura", il nome resterà
un riferimento fermo nel tempo. Così viene predetto a Cassandra:
Adoreranno
il tuo nome o lo malediranno. E tu vivrai per sempre, maledetta, adorata,
senza essere vissuta mai davvero. (13)
E' al nome - che
si può consegnare e alla "voce" e alla "scrittura"
- è al nome che si affida il resistere a un tempo che sopraffà
la persona e altera di continuo la "figura".
3. Sull'orlo
dell'oblio
Non è, come può apparire, una rivisitazione del mito
che Errico si propone; non la volontà di rinarrare, attualizzandoli,
episodi e figure stretti nella trama di una cultura che è la
cultura europea, d'una poesia elaboratrice di archetipi divenuti di
comune riferimento. Dei grandi eventi narrati dagli antichi poeti
restano, come sfondo, immagini stereotipe: e il nome dei protagonisti
di storie non è se non un nome, dimenticata spesso dai protagonisti
stessi l'occasione dentro la quale il nome assurse alla memorabilità.
Ne sono consapevoli i protagonisti del Nostoi:
Ci restano a volte soltanto visioni tremanti, un riflesso di fiamme
morenti, memorie esitanti.
Così riusciamo a sopravvivere, lupi solivaghi, figure marginali
lasciate in una trama a sentinella di un bivacco abbandonato, dilazioni
del caso nel crepuscolo ombroso di una leggenda che nemmeno conosciamo.
(14)
Sono anni - o secoli? non so se anche a te succede qualche volta che
il tempo si riavvolga dentro la memoria, si faccia groviglio grumo
intrico - che tento di capire se i nostri nomi abbiano una storia,
se sfuggano allo scuro che si spande nelle avventure degli uomini
o se siano già precipitati in quell'abisso che non conosce
fondo, che è mistero, vuoto, silenzio, estraneità a
ogni luogo. (15)
Mi chiedo spesso se il nome che mi resta come unica scaglia di memoria
non sia un'invenzione degli dei, un modo di consolarmi. [ ... ] Ma
forse hai ragione tu: non siamo mai esistiti. O siamo stati riflessi
di una luce, fantasie di poeti folli, immagini di un sogno, maschere
di un teatro. (16)
Il mito, nella sua possibilità di trasmettersi dentro una sorta
di orizzonte immutabile, è un territorio della certezza: è
quel che è. Attualizzarlo vuol dire rileggerlo senza negarlo.
Nel Nostoi mitico è l'involucro, la lista degli attori, il
nome che - però - è sempre "rappresentato"
sull'orlo dell'oblio. E qui il mito come tale risulta sconosciuto
o negato. C'è, se mai, la realtà perenne di una umanità
che si maschera e si abbellisce, e si vuole eroica e grande là
dove non può non riconoscersi se non debole e misera, attaccata
a certezze precarie, desiderosa di ricostruire come propria una memoria
il cui possesso le è negato. Di là dalla suggestione
del nome, il mito qui si dissolve nella musica stessa del nome assunto
a significarlo e reinventarlo. Sotto la trama dei grandi eventi affiora,
crudele e disperata, l'ineroica realtà quotidiana.
4. Un libro
di fantasmi; e la scrittura-personaggio
Favolerie è un libro di fantasmi poetici, di immagini e ombre
ora trattate come cosa salda, ora dispiegate nella loro qualità
di evanescenti presenze. Suggestiona il collocarsi di quei fantasmi
e di quelle presenze entro la dimensione di un possibile onirico,
dove tutto quel che accade è, insieme, improbabile e perfettamente
plausibile. Il tempo si allarga e si stringe intorno agli avvenimenti;
un tempo scivola sull'altro in raccostamenti imprevedibili; il passato
si continua naturalmente nel presente, o, forse, passato e presente
sono determinazioni sfuggenti, senza rigidezze: indicatori convenzionali.
Non c'è che un presente, infatti, ch'è quello della
scrittura, e la scrittura mescola tempi e persone; non assicura se
non della sua presenza. Della sua presenza, verrebbe di dire, di personaggio.
L'unico, in un certo senso. Perché la scrittura del personaggio
altro non è, in fondo, se non la scrittura che si fa personaggio:
unica protagonista. E' per questo che Gustave può inseguire
il sogno di scrivere un libro sul nulla. Ma quel libro è solo
il sogno di una scrittura possibile, il personaggio-scrittura messo
in scena nel suo stato potenziale.
Non potenziale ma realizzata è invece la scrittura di Antonio
Errico. Dei cui tratti vorrei fermare qui qualche caratteristica.
Scrittura lirica, esaltata dalle strutture di prosa ritmica, quasi
obbediente alle leggi di un cursus attestato su una preminente scansione
di endecasillabo: ed è, questo, rilievo facile e percepibile
ad apertura del volume. Mi limiterò ad alcuni esempi:
Si alzava il
fuoco fino alle alte volte, / correva come serpe nelle stanze. La
storia ormai è finita, è già passata / con il
vento di ieri cancellando / la voce, oscurando i miei orizzonti...
(17)
Sarebbe vana fatica
dedicarsi al gioco di tagliare in misura di versi una prosa che non
vuole per nulla ed in nulla imitare il verso ma darsi propri ritmo
e misura in vista di un risultato: conservare una sorta di riconoscibile
cadenza popolare entro la raffinatezza e del vocabolario e del ritmo
della frase. E la stessa tessitura linguistica si adatta a questa
esigenza là dove la parola sembra perdere peso e significato
propri e corrispondere alla volontà di farsi musicale suggestione.
E questo accade là dove forme di accumulazione verbale non
dipendono da necessità comunicativa ma mirano a creare una
sorta di effetto ipnotico, un canto che torna, suadente ed insistente,
su se stesso. E basti almeno un brevissimo esempio da La caccia:
Lei è
quello che sembra, lei è sembianza diversa del falso e del
vero, non ha volto, ma sembra: lei sembra ogni volto sbiadito, trascorso,
travolto; è memoria e scordanza, allusione e sbiadenza.
(18)
E all'effetto
lirico di questa prosa concorre la ricerca di assonanze, di rime interne,
il ricorso frequente all'anafora, la ripetizione che conferisce alla
frase un effetto di eco musicale.
Istintiva e costruita insieme, la scrittura di Antonio Errico fa percepire
soprattutto l'incanto che da essa scaturisce; dissimula l'insidia
che vi si può annidare: cioè quella di farsi maniera
prima ancora d'aver finito di essere compiutamente "scrittura".
Un'insidia che in queste pagine di Favolerie si coglie qua e là,
ma è agilmente scansata. Prevale, di questa scrittura, l'incanto,
la forza di suggestione. E, di essa, sotto la tessitura melodica,
il sottaciuto, il taciuto, il non detto, l'insinuato, il suggerito.
Cioè lo spazio riservato al lettore. O, se si vuole e per tornare
al punto dal quale sono partite queste sparse annotazioni, all'ascoltatore
che la voce del narratore seduce ed intriga nel suo splendido gioco.
NOTE
1) A. ERRICO, Favolerie, Lecce, Piero Manni, 1996.
2) Ibid., p. 9.
3 )Ibid., p. 57.
4) Ibid., p. 104.
5) Ibid., pp. 48-49.
6) Ibid., pp. 50-51.
7) Ibid., p. 122,
8) Ibid., p. 88.
9) Ibid.
10) Ibid., p. 50.
11) Ibid., p. 19.
12) Ibid., p. 37.
13) Ibid., pp. 49-50.
14) Ibid., p. 10.
15) Ibid., p. 35.
16) Ibid., p. 47.
17) Ibid., pp. 42, 25.
18) Ibid., p. 82.