§ UN LIBRO-CONFESSIONE DI FLORIO SANTINI

IL CUORE DEL VÁGERO




Augusto Buono Libero



We shall nit cease from exploration,
And the end of all our exploring
Will be to arrive where we started
And know the place for the first time.

T.S.Eliot


Il cuore non bruciò (sottotitolo "Sulle orme di Shelley" - Mauro Baroni editore, Viareggio-Lucca, 1995, pagg. 131) è l'ultima opera di Florio Santini, maestro della tecnica musiva.
Come è noto, l'autore toscano risiede ed opera nel Salento da diversi lustri (prima a Otranto, ora a Casamassella, con la seconda moglie asiatica, la colta, raffinata e deliziosa "Siou Wan", a cui è dedicato il libro) e non c'è ambiente culturale della Provincia, circoli o scuole di ogni ordine e grado, che non l'abbiano visto almeno una volta protagonista. Affabulatore straordinario, maestro dei simposi letterari, intellettuale anticonformista, scanzonato "adolescente", bohémien ultrasettantenne, "vàgero" o pensatore anarchico, geologo o archeologo del costume, panteista, e quindi, a modo suo, profondamente religioso, stavolta Santini si cimenta in un "romanzo".
Di rientro in patria dopo anni di operatore culturale per conto degli Affari Esteri, Santini vagheggia una casa sul mare, nel "Golfo dei Poeti" (La Spezia); andando "sulle orme di Shelley" trova una lettera apocrifa scritta il 27 agosto 1822, un mese e mezzo dopo il naufragio dell'imbarcazione "Ariel" con a bordo il poeta inglese e il suo amico Williams:

"Abbiamo bruciato i corpi di Shelley e di Williams sulla spiaggia, per poterli rimuovere e render loro regolare sepoltura. Non potete avere alcuna idea dello straordinario effetto d'una simile pira funeraria, su una spiaggia desolata, con le montagne per sfondo e il mare innanzi, e il singolare aspetto che il sale e l'incenso davano alla fiamma. Tutto di Shelley si consumò, tranne il suo cuore, che non volle prender la fiamma, ed è ora conservato nello spirito divino" (pag. 120).

Perché il cuore di Shelley non bruciò? Perché il cuore dei poeti non brucia, non si consuma. Ma Santini va più in là: neppure il cuore degli anarchici brucia "perché non muoiono interamente - mai del tutto - anzi, durano e incutono timori ai posteri" (pag. 38), ma "di tutti noi il cuore non brucerà, se, solo, sapremo vivere la vita come poesia: nel dolore e nella gioia, fino a farne un "romanzo"" (pag. 17, dalla prefazione di Gino Pisanò).
In realtà, Santini-Odisseo è depositario di una metafora che è il senso della nostra esistenza: "siamo noi stessi che, trasportati dall'audacia delle nostre menti e dai tremori del nostro cuore, siamo i soli artigiani di tutta la meraviglia e tutto il romanzesco del mondo".
Questo, in estrema sintesi, il senso e il messaggio del "romanzo" di Florio Santini e il nostro compito parrebbe esaurito. Ma una domanda ci intriga: perché Santini scrive da "sempre" lo stesso romanzo, che è la sua autobiografia? Scrivere, l'atto stesso dello scrivere è per lui una sfida perenne con la morte, "da cui solo ci si salva nel rito che è l'opera; così come avviene nelle mosse codificate e rituali del combattimento con il toro, che non è men vero per il fatto di riprodurre un rituale". Lo scrivere è darsi una ragione della propria esistenza, una costante esplorazione dell'eterno "altro" che è la propria autobiografia; è la lotta per l'opera contro la morte, nello spazio simbolico per eccellenza: il linguaggio. Se Santini smetterà di scrivere arriverà inevitabilmente la morte, perché il non scrivere è "già" la morte per ogni autentico "scriba".
Florio Santini è condannato a queste ballate eroiche: l'Africa, il Medio Oriente, l'Asia, San Francisco... è costretto a liberarsi del peso delle ombre, dei suoi segreti, della solitudine, per allontanare la morte. Colui che è dedito all'attesa di una redenzione è anche colui che sa descrivere la propria esistenza e mantenersi fedele all'eticità di tale compito. "Questa è infine la solitudine: avvolgersi nella rete dell'anima, farsi crisalide e attendersi la metamorfosi che non può mancare" (Strindberg).
Ci siamo dati una risposta sulle motivazioni che possono indurre lo scrittore toscano a scrivere e a scrivere "sempre" la sua autobiografia, ma ne siamo soddisfatti? Non ancora. A noi sembra di poter dire che Santini-Ulisse ha un "tarlo" che lo rode e lo lacera nell'intimo. No, non è solo il conflitto fede-ragione, sentimento tragico della vita, che accompagna ciascuno di noi, ma è come un mancamento della coscienza e della responsabilità verso gli altri (leggi prima famiglia) in un momento della sua vita, la consapevolezza che "gli altri" abbiano sofferto della sua "vocazione" al viaggio e all'esplorazione, del suo delirio di trasgressione e di anarchia. "In quelle notti d'un caldo afoso e ossessivo, una voce nel sonno sembrò sussurrarmi con insistenza: "Non voglio che alcun essere vivente debba soffrire"" (pag. 44). L'aver recato, per aver assecondato la propria natura, sofferenza agli "altri" non gli dà pace, lo induce a un atto di confessione-giustificazione non solo verso i lettori-umanità, ma soprattutto verso se stesso, e forse anche (non so se coscientemente) a un desiderio di espiazione irrisolto, continuamente rinviato, dilazionato.
Vi ricordate i Capitani di Conrad che hanno bisogno di prendere il largo per sentirsi uomini e quando stanno sulla costa è come se tradissero il richiamo della coscienza? Per Santini viaggiare in fondo non è altro - come dice Eliot - che ritornare al punto di partenza, dove non siamo mai stati. Ma se tutto questo suo "viaggiare" non fosse altro che "fuggire", anziché "esplorare"? L'autoironia e l'humour in realtà sono solo un tentativo di mascherare questo senso tragico della vita?
Il lettore si chiederà: che c'entra tutto ciò con il romanzo su Shelley? Ma chi conosce Santini o ha letto le precedenti sue opere sa già cosa troverà nel libro, in un qualsiasi suo libro: riflessioni, considerazioni, note di viaggio culturali, aneddoti, squarci di poesia, il tutto rigorosamente autobiografico. In tutti i suoi libri la componente etica-filosofica è almeno pari, se non superiore, a quella poetico-narrativa. Qui l'autore finge di doversi cimentare, per la prima volta, nella stesura di un romanzo: "Sulle orme di Shelley". Va a S. Terenzo, Lerici, rivisita Viareggio, si inventa un "alter-ego" testimone dei fatti, poi lascia da parte il tutto e parla di se stesso, delle sue esperienze di ex addetto culturale in Medio Oriente, in Africa, in Asia. Qualche squarcio di San Francisco e di Parigi, studi, notazioni, solitudine, frustrazioni, amori... anche di un romanzo di un'autrice albanese sull'amore non consumato... Insomma, per darvene un'idea, se Santini invece di tredici libri (o tredici tessere di mosaico, come li chiama lui) ne avesse scritti solo otto, potremmo parlare di un "8 e mezzo santiniano", sostituendo la parte psicologica e psicoanalitica del film di Fellini a quella più squisitamente letteraria e filosofica.
E' un romanzo nel romanzo, oppure un romanzo-non romanzo, dipende da come la vede il lettore. Comunque, un bel libro -confessione dell'inquietudine nascosta talora dietro un sorriso amaro. E' in qualche modo - come accennavo prima - una commedia tragica, in cui si fa una lucida analisi del destino dell'uomo e del suo riscatto mediante la poesia.
Le orme di Shelley non sono a caso, certamente. C'è il desiderio di Santini, come nel poeta inglese, di dare un senso tutto romantico di grandezza e di eroica disperazione alla sua esistenza.

"Tutti siamo scrittori; tutti potremmo riempire pagine di vita; tutti siamo personaggi dell'essere, trasformato in volere; in tutti noi urge un Prometeo, in tutti noi soffre un Titano. Di noi tutti, ripeto, il cuore non bruciò ... " (pag. 122).

Una volta i poeti "si nutrivano del proprio sangue e delle proprie lacrime". C'è anche questo nel libro di Florio Santini e, ancor più che il senso della libertà assoluta prometeica, c'è quello della bontà e della purezza nella disperazione. C'è il bisogno "etico" e, se vogliamo, cristiano degli Il altri" senza cui la nostra vita non avrebbe alcun senso. E' un bisogno umile: quello di "essere perdonato", più che di perdonare (un'anima espansa e libera come Santini non conosce l'odio, è sempre disposta al perdono) che lo nobilita. E' il nutrirsi di dubbi e di incertezze di una coscienza tormentata che non sa se il suo "peccato" sarà redento, che lo riscatta come uomo e come scrittore e dà senso e valore autentico alla sua opera.
C'è tutto questo nel suo libro e anche, più che in altri, l'anelito cristiano della speranza, della carità, della fratellanza, del perdono e del riscatto dell'umanità, nonostante tutti i "peccati" intesi come brutture, orrori e massacri che ogni giorno si compiono e di cui noi tutti siamo responsabili. Sì, possiamo dire che anche in quest'ultima sua tessera di mosaico, Florio Santini contribuisce a rivelarci la molteplice verità della vita.


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