§ MUSICA E CULTURA

BONIFICARE PER RINNOVARE




Sergio Bello



Con uno dei suoi ultimi, e maggiormente condivisibili provvedimenti, il governo Dini aveva stabilito che gli Enti Lirici potessero trasformarsi in Fondazioni, nelle quali era possibile l'ingresso di privati. Così, alle carenti risorse pubbliche, potevano supplire imprese e singoli cittadini vogliosi di legare il proprio nome alla musica e al bel canto. Si sarebbe potuto supporre che una decisione del genere, che rappresentava un adeguamento a quel che è del tutto normale all'estero, venisse accolta con generale soddisfazione.
Al contrario, provocò immediate minacce di scioperi, soprattutto da parte degli Enti più piccoli e meno famosi, i quali vedevano in forse la propria vita, perennemente quieta all'ombra del sussidio pubblico, spesso - come è stato scritto - assicurato da un "padrino" politico e si sentivano perduti di fronte all'idea di competere per ottenere fondi privati.
Perché tanta opposizione? Perché in realtà a cantanti, orchestrali, sarti, attrezzisti, pittori della scena, insomma a tutto il variegato mondo dello spettacolo lirico, va benissimo lo status quo, l'inserimento anche degli artisti in un ruolo da impiegato parastatale; va benissimo che la lirica si intrecci strettamente con la burocrazia, creando una rete soffocante, ma anche fortemente rassicurante. Va benissimo che, accanto a una scuola di Stato (secondo noi doverosissima), esista una, assai più discutibile, musica di Stato.
I mali della lirica sono stati posti in evidenza da Riccardo Chiaberge, giornalista del "Corriere della Sera". Nel suo libro Cervelli d'Italia. Scuola, scienza, cultura, le vere emergenze del paese, mostra che oltre il 70 per cento delle entrate degli Enti Lirici (per un totale di 641 miliardi di lire nel 1994) proviene dall'erario, mentre gli incassi coprono in media il 20% dei costi, con punte negative del 3% per Roma e del 2% per Cagliari. E che perfino la quota di pertinenza statale dei fondi dell'otto per mille è stata, in certi casi, dirottata dagli "scopi umanitari" al sostegno dei teatri.
Ecco un punto del corpo malato della società italiana in cui il governo, qualsiasi governo, nell'angosciosa ricerca di qualcosa da tagliare, dovrà affondare il bisturi. Non sarà un compito facile, neanche se la lirica ha veramente perso i suoi protettori politici, il che è tutto da verificare. La voce di gran lunga più significativa delle uscite è rappresentata infatti dagli stipendi. Stipendi "rigidi", da dipendente pubblico, bassi ma difesi da regolamenti macchinosi che impediscono la flessibilità delle prestazioni, gonfiati da voci aggiuntive come è ormai prassi delle amministrazioni "povere": l'indennità sinfonica, il riscatto riposo, l'indennità di lingua straniera per il coro. Chiedere a un violinista di ripassarsi la parte a casa, come è prassi in ogni parte del mondo, è assolutamente escluso e, di conseguenza, mentre nelle orchestre straniere bastano una o due prove, in Italia ne sono necessarie sei o sette. Ed è sufficiente l'assenza di un solo elettricista per far sospendere queste prove.
La macchinosità delle regole dà alle categorie dei dipendenti dei teatri lirici un potere di blocco e si traduce nella minaccia costante di agitazioni "selvagge". Di conseguenza, ogni "prima" può essere messa in forse da possibili scioperi. E' in questo clima che nel '95 maturò la "rivolta" di Muti, il quale, di fronte a uno sciopero "selvaggio" degli orchestrali (chiedevano aumenti retributivi e nuove assunzioni), diede "La Traviata" senza orchestra, accompagnando lui stesso i cantanti al pianoforte, tra le ovazioni del pubblico.
La mentalità "statale" della lirica impedisce un buono sfruttamento degli impianti. Il numero delle recite in Italia è sensibilmente inferiore a quello estero. Basti pensare che a Vienna la Staatsoper e la Volksoper, e a New York il Metropolitan lavorano tutti i giorni e spesso con più di uno spettacolo al giorno (pur accontentandosi, per una parte di queste rappresentazioni, di un repertorio fisso di gusto popolare), mentre in Italia il cartellone, sovente con tre-quattro spettacoli la settimana, può durare anche soltanto pochi mesi. Non fa meraviglia che al Metropolitan il contributo della vendita dei biglietti alle finanze della lirica sia del 53,5%.
I malanni della lirica si estendono ai Conservatori. Dall'inchiesta di Chiaberge emerge che molte scuole di musica, specie nel Sud, esistono solo sulla carta e il musicologo Quirino Principe gli ha dichiarato: "Nei nostri Conservatori vengono centinaia di insegnanti incolti, rozzi e nullafacenti, anche perché per quarant'anni, e cioè fino al 1990, non si sono indetti regolari concorsi a cattedra [ ... ]. In Calabria ci sono tre Conservatori e non si trova un accordatore di pianoforte in tutta la regione. Ci sono perfino direttori che suonano nei complessi rock".
Abbiamo trattato quest'esempio musicale in dettaglio per illustrare un argomento fondamentale: i tagli non sono un'operazione politico-ragionieristica, sono un fatto culturale. In altre parole, non si può tagliare la spesa pubblica senza rinnovare la mentalità del Paese; probabilmente, è vero anche il contrario: non si rinnova la mentalità del Paese senza tagliare la spesa pubblica.
La controprova viene da un altro importante comparto della cultura italiana, l'Università. E' stato sufficiente un accenno di riforma, dovuto all'allora ministro Ruberti, che aveva dato a Università e Dipartimenti universitari la facoltà di prendere qualche decisione autonoma circa le proprie finanze, compresa la possibilità di stipulare accordi con privati, per gridare alla "privatizzazione" dell'Università, facendo partire l'agitazione della Pantera, specie nelle Università più deboli sul piano della ricerca e quindi meno in grado di ottenere finanziamenti esterni.
Le conseguenze di questa cultura, "protetta" con sussidi pubblici dispensati senza particolare riguardo ai risultati, sono sotto gli occhi di tutti e si possono sintetizzare nel declino culturale italiano. Per rimanere nel campo della lirica, i grandi direttori e cantanti italiani sono molto più attivi all'estero che in Italia. E' appena il caso di ricordare l'esilio volontario di Benedetti Michelangeli; più recenti sono i casi di Abbado (per la maggior parte dell'anno dirige i Philarmoniker a Berlino), di Sinopoli (più a Dresda che a Milano), di Chailly (dirige l'orchestra del Concertgebouw di Amsterdam, dopo aver lasciato il Comunale di Bologna). E l'elenco potrebbe continuare.
Ugualmente, molti medici e scienziati di grido hanno lasciato ospedali e istituti di ricerca italiani, lamentando l'impossibilità di lavorarci, gli ostacoli burocratici, il blocco imposto da un mondo accademico che, specie in campo medico, appare ossificato e impervio al cambiamento, capace di perpetuarsi di padre in figlio. Si sono trasferiti all'estero, seguiti da moltissimi giovani laureati, dal momento che in Italia non si è creata una struttura credibile per l'istruzione post-laurea, indispensabile per la moderna ricerca scientifica.
Questa debolezza culturale si trasforma in debolezza di identità nazionale e costituisce uno dei retroterra sui quali si è costruito il consenso leghista. Chi ha visto il Salone del Libro di Torino ha potuto rendersi conto della ricchezza di titoli e del gran numero di case editrici: ma le opere di autori italiani quasi non hanno cittadinanza all'estero, così come poco conosciuti, apprezzati solo da ristrettissime fasce di appassionati, sono i film italiani. Gli oscar mancati de "Il postino" e i successi mancati al Festival di Cannes dovrebbero far meditare, al modo dei nostri spettacoli televisivi, che nessuna tv straniera acquista. Le manifestazioni culturali italiane sono ridotte al calcio e al design. Il che, francamente, è troppo poco, ma del tutto coerente col provincialismo dei media nazionali.


Banca Popolare Pugliese
Tutti i diritti riservati © 2000