§ RIVOLUZIONE INFORMATICA

NON SARA' LA FINE DEL LAVORO




Pam Woodall



La storia è ricca di profezie, secondo le quali le nuove macchine avrebbero prodotto disoccupazione di massa. I luddisti, in Gran Bretagna, nel secolo scorso, distruggevano i telai meccanici e i filatoi multipli che minacciavano di toglier loro i mezzi di sostentamento. Negli anni Trenta, l'automazione industriale era additata come la causa delle lunghe file di inoccupati. E ancora negli anni Quaranta, Norbert Wiener, uno dei pionieri dell'informatica, prevedeva che i computer avrebbero creato una disoccupazione così grande che la Crisi del '29 al confronto sarebbe sembrata una sciocchezza. Anche oggi i catastrofisti tornano a temere un futuro senza lavoro, a mano a mano che computer e robot si diffonderanno in modo capillare. E anche chi sarà abbastanza fortunato da conservare il suo impiego, aggiungono, dovrà far fronte all'insicurezza e a basse retribuzioni.
Ma se la storia è di qualche insegnamento, allora possiamo dire che i predicatori di sventura si sbagliano. Negli ultimi due secoli di grandi progressi tecnologici, l'occupazione e il reddito reale nei Paesi industrialmente avanzati sono cresciuti quasi continuamente.
E questo grazie al cambiamento tecnologico, e non suo malgrado. Non è un caso che gli Stati Uniti, il Paese tecnologicamente più avanzato nel mondo, abbiano uno dei più bassi tassi di disoccupazione dell'Ocse. Ma i moderni luddisti non demordono. Jeremy Rifkin, noto ambientalista e tecnofobo americano, sostiene nel suo libro La fine del lavoro che tre posti di lavoro su quattro - sia manuali che impiegatizi -potrebbero essere automatizzati negli Usa. E prevede che, verso la metà del prossimo secolo, centinaia di milioni di operai saranno lasciati del tutto inattivi.
Non c'è dubbio che milioni di posti di lavoro verranno distrutti dalla tecnologia, come d'altro canto è avvenuto negli ultimi due secoli. Ma nel passato queste perdite sono sempre state compensate da nuove attività, per cui l'occupazione nel suo complesso ha continuato ad aumentare, insieme con la crescita demografica. A mano a mano che vetturini e maniscalchi scomparivano, meccanici per auto e commessi viaggiatori prendevano il loro posto. La tecnologia ha cambiato i tipi di lavoro offerti, ma il loro volume ha continuato a crescere.
D'accordo, sostengono i nuovi luddisti, ma l'informatica è diversa dalle precedenti tecnologie, e le conseguenze sull'occupazione saranno anch'esse diverse. Le differenze principali col passato sono soprattutto tre:
1) L'informatica ha un impatto molto più pervasivo dell'energia a vapore o dell'elettricità; riguarda tutti i lavoratori, siano essi operai o impiegati, nel settore manifatturiero o in quello dei servizi. Rifkin si preoccupa in particolare della potenzialità manifestata dall'informatica di sostituire posti di lavoro nei servizi, la cui crescita ha creato un numero di posti di lavoro circa equivalente a tutti i nuovi impieghi creati negli ultimi cinquant'anni. I computer in grado di comprendere le parole hanno sostituito gli operatori telefonici. I bancomat hanno soppiantato i cassieri di banca. In alcuni alberghi, i sistemi elettronici nelle receptions, la casella telefonica e i controlli automatici dei pagamenti e delle partenze sono talmente collaudati che gli ospiti non hanno bisogno di parlare con nessuno. A mano a mano che le tecnologie per il riconoscimento della voce e dei caratteri a stampa progrediranno, molti milioni di posti di lavoro scompariranno, secondo Rifkin.
Le macchine intelligenti stanno invadendo anche il mondo delle professioni. I computer possono diagnosticare alcune malattie, mentre i robot oggi possono essere programmati per eseguire operazioni come l'impianto di protesi all'anca.
Sintetizzatori molto sofisticati possono svolgere il lavoro dei musicisti, e, con l'aiuto di computer intelligenti, per girare un film in molti casi potrebbero non essere più necessarie le star in carne ed ossa. Persino gli scrittori non possono più considerarsi indispensabili, sempre secondo Rifkin: nel 1993 è stato pubblicato un romanzo scritto da un computer, una torrida storia che, secondo alcuni commentatori, non era peggiore di tante altre prodotte da veri autori.
2) L'informatica è stata introdotta molto più rapidamente delle tecnologie precedenti, in parte a causa della rapida diminuzione dei suoi costi. E ciò lascia meno tempo per sostituire i posti di lavoro perduti e per riqualificare le persone.
3) Infine, la nuova tecnologia rende il lavoro più mobile. In alcuni servizi, sistemi sofisticati di telecomunicazioni hanno sostituito il contatto fisico con i clienti. Così le imprese possono trasferire attività (come l'elaborazione elettronica delle richieste di risarcimenti assicurativi) a Paesi con bassi salari all'altro capo del mondo. In questo senso, dicono i pessimisti, se è ben vero che l'informatica non distrugge soltanto posti di lavoro, ma ne crea altri, è però più probabile che questo processo di creazione avvenga nell'Asia orientale anziché nei ricchi Paesi industriali.
Un economista ortodosso potrebbe fornire una risposta di questo tipo: certo, una nuova macchina potrebbe ridurre la quantità di lavoro necessaria a produrre una data quantità di beni. Ma concludere che l'occupazione nel suo complesso diminuirà, significa soccombere alla fallacia della teoria della quantità fissa di lavoro: un'idea, da tempo smentita, secondo la quale il livello della produzione (quindi della manodopera) in un certo momento non è variabile. Vero è invece che la tecnologia di per sé dà impulso alla produzione e crea nuova domanda, sia aumentando la produttività - e quindi i redditi reali - sia consentendo lo sviluppo di nuovi prodotti. Videoregistratori, telefoni portatili, walkman e lenti a contatto non esistevano vent'anni fa. E le nuove industrie che li producono hanno creato nuova domanda e nuovi posti di lavoro.
Se la nuova tecnologia fosse impiegata soltanto per produrre in modo più efficiente beni già in commercio (invece che produrne di nuovi), allora l'occupazione potrebbe senz'altro diminuire nel breve periodo. Ma a lungo termine quest'accresciuta efficienza farebbe aumentare anche la domanda e l'occupazione.
L'introduzione di nuove tecnologie comporta solitamente un aumento degli investimenti, che crea anch'esso, a sua volta, più posti di lavoro nelle imprese produttrici di beni strumentali. Ma gli effetti sul reddito e sui prezzi sono ancora più importanti. Se la nuova tecnologia riduce i costi, ciò avrà necessariamente una di queste tre conseguenze: il prezzo del prodotto o del servizio in questione scenderà; i salari nell'industria che la impiega aumenteranno; oppure si avrà un incremento degli utili. Salari più elevati o prezzi più bassi accresceranno inoltre il potere d'acquisto dei consumatori e faranno lievitare la domanda, provocando così un aumento della produzione e dell'occupazione in altri settori dell'economia.
Questo, per quel che riguarda la teoria. Ma che cosa succede nella pratica? Identificare gli effetti immediati di risparmio di manodopera della nuova tecnologia è più facile che accertarne gli effetti compensativi sulla domanda. Studi compiuti dall'Ocse hanno trovato ben pochi elementi a sostegno della tesi che l'aumento della disoccupazione sia dovuto al cambiamento tecnologico.
Nell'industria manifatturiera, in generale, si è visto in effetti che essa ha distrutto molti posti di lavoro; ma Stati Uniti e Giappone - vale a dire i Paesi che hanno utilizzato di più i computer nelle industrie - stanno ottenendo i risultati migliori nella creazione di nuovi posti. Dal 1980 il numero degli occupati negli Stati Uniti è aumentato del 24 per cento, in Giappone del 17 per cento, mentre nell'Unione europea, in media, soltanto del 2 per cento. Questo sembra confermare che le nuove tecnologie hanno effetti positivi e non negativi per il lavoro. Più difficile è invece calcolare l'impatto dell'informatica sui servizi, anche se l'Ocse ha rilevato che negli anni Ottanta i posti di lavoro in questo settore sono cresciuti più rapidamente in quei Paesi che hanno investito di più nelle nuove tecnologie.
Sia la teoria sia l'esperienza, dunque, indicano che a lungo termine l'informatizzazione creerà almeno altrettanti posti di lavoro di quelli che sta distruggendo.
Tuttavia questo processo è tutt'altro che automatico, immediato e indolore. Vi sarà sempre uno scarto di tempo, infatti, fra la perdita dei vecchi posti di lavoro e la creazione di nuovi, così come una sfasatura fra le competenze richieste dalle vecchie e dalle nuove attività lavorative. Il calo dell'occupazione riguarderà soprattutto i meno qualificati, mentre nuove possibilità di lavoro si apriranno soltanto per chi avrà un buon livello d'istruzione e di competenza professionale.
Data la sua maggior capacità di diffusione, l'informatica potrebbe distruggere in effetti più posti di lavoro rispetto alle tecnologie del passato, ma proprio in virtù di questa sua stessa pervasività gli effetti compensativi di creazione di nuova domanda dovrebbero essere ancora più forti. Analogamente, se la diffusione dell'informatica è più rapida di quella delle tecnologie precedenti, dovrebbe anche produrre più rapidamente benefici. Il guaio è che, se la perdita di occupazione è più rapida e diffusa, la sfasatura temporale nel breve periodo potrebbe essere ancora più dolorosa rispetto alle precedenti rivoluzioni tecnologiche. Per quanto riguarda la terza preoccupazione dei luddisti - l'esportazione di posti di lavoro - è il caso di ricordare che, qualunque cosa dicano i pessimisti, non è scalzata la nozione di vantaggi competitivo.
Anzi, consentendo alle aziende di decentralizzare la produzione e di specializzarsi per Paese, essa consente di sfruttare in modo molto più ampio e più efficiente i vantaggi competitivi nazionali. Nell'arco di vent'anni, un'azienda-tipo può aprire una direzione a Londra e avere gli uffici a Pechino. Ma questo non demolisce la teoria economica, anzi dimostra quanto essa sia adattabile. Fino a quando i mercati saranno flessibili, il commercio - e l'innovazione tecnologica - non avranno effetti duraturi sul livello di occupazione, ma solo sulla struttura delle occupazioni. Fattore decisivo restano le differenze nel vantaggio competitivo basate sulle relative offerte di manodopera specializzata e non. Molti servizi esportati per via telematica dal Paesi poveri a quelli ricchi interessano attività a specializzazione relativamente bassa, come l'elaborazione dati o la programmazione di routine, mentre le economie ricche esportano servizi più sofisticati, come pacchetti di software e progettazioni di ingegneria.
L'informatica consente ai Paesi ricchi, ma anche a quelli in via di sviluppo, di esportare servizi che prima non potevano essere commercializzati. Grazie alle reti di comunicazione è possibile vendere a Paesi lontani consigli medici o istruzione.
Dunque, se l'informatica creerà una grande quantità di nuovi posti di lavoro, in quali settori si verificherà? Nessuno lo sa veramente. Molte delle specializzazioni oggi richieste - ad esempio, quella di esperto di particolari strumenti finanziari come i derivativi, o di istruttori per la fitness - non esistevano vent'anni fa. Verso la metà degli anni Settanta, quasi nessuno lavorava nel campo del software e oggi questo settore impiega circa dieci milioni di persone in tutto il mondo. L'Ufficio statistico del lavoro americano, che fornisce regolarmente previsioni sulle variazioni dei tipi di occupazione, stima che entro il 2005 si avrà una contrazione del 20-30 per cento degli impieghi per dattilografi, cassieri e operatori telefonici, contabili e metalmeccanici, agricoltori e bancari, rispetto al 1994. Le possibilità di occupazione per programmatori di computer, infermieri, personale sanitario domestico, insegnanti, pediatri, avvocati, cuochi, aumenteranno invece rapidamente. Come dovrebbero aumentare anche quelle per le guardie private e i poliziotti, a causa delle crescenti tensioni sociali. Nuovi posti si creeranno anche nell'industria multimediale, a mano a mano che nuovi tipi di servizi emergeranno dalla convergenza dei settori dell'entertainment, delle telecomunicazioni e dell'informatica. L'industria cinematografica americana, dal 1990 ad oggi, ha creato più posti di lavoro di quella automobilistica, farmaceutica e alberghiera messe insieme. E nuove possibilità si offriranno a manager nel settore dell'informazione e a specialisti nell'assistenza tecnica per Internet.
Ma anche se l'informatica creasse effettivamente altrettanti posti di lavoro di quelli che distrugge, non sarebbero impieghi veri e propri, dicono i pessimisti, ma lavoretti di basso livello, part-time, temporanei e mal pagati. Americani ed europei si sono ormai convinti che l'insicurezza del lavoro è diffusa, non soltanto fra gli operai, ma anche fra i colletti bianchi. E tuttavia, stranamente, vi sono poche prove che il lavoratore medio corra molti più rischi di perdere il posto rispetto ai tempi passati.
Intanto, anche nei bei tempi andati un lavoro per la vita era più un'eccezione che una regola. E poi anche il turnover nel mercato del lavoro non è aumentato sensibilmente. Negli Usa, il periodo medio in cui un uomo di mezza età resta alle dipendenze dello stesso datore di lavoro è in realtà aumentato lievemente. Invece la durata media per i più giovani e i più anziani è lievemente diminuita. Le statistiche ufficiali smentiscono anche la pretesa che la maggior parte dei nuovi posti siano di basso livello. Negli ultimi dieci anni, la crescita netta dell'occupazione nei servizi in America si è registrata prevalentemente nel settore delle attività professionali e manageriali ben retribuite. E anche nel Regno Unito non è affatto dimostrato che innovazione tecnologica e concorrenza creino grandi terremoti nel mercato del lavoro. La durata media dei periodi di lavoro presso la stessa azienda è scesa lievemente per gli uomini, ma per la fascia d'età compresa fra i 31 e i 45 anni è rimasta più o meno la stessa. Sono i più anziani, soprattutto se poco qualificati, e mal pagati, che hanno risentito del più rapido turnover.
Sicuramente, il part-time è aumentato nella maggior parte dei Paesi industriali, ma non più rapidamente, in quest'ultimo decennio, rispetto agli anni Sessanta e Settanta, e la principale forza propulsiva è stata la preferenza spesso espressa dalle donne per l'orario ridotto, non già un catastrofico rivolgimento del mercato del lavoro. Una indagine di "Employment Outllook" dell'Ocse contiene dati che indicano, contrariamente a quanto si pensa, che in gran parte dei Paesi non vi è stato alcun aumento significativo delle occupazioni temporanee. Le principali eccezioni sono Francia e Spagna, dove le imprese hanno fatto ricorso a contratti a termine per aggirare i rigidi vincoli delle leggi sulle assunzioni e i licenziamenti. La credenza diffusa che la qualità e la sicurezza di molte occupazioni sia diminuita è stata alimentata dalle allarmanti notizie sui licenziamenti di massa nelle grandi industrie cui i media hanno dato gran risalto, mentre l'aumento dei posti di lavoro nelle piccole imprese è passato generalmente inosservato. Alcuni lavoratori hanno senza dubbio trascorso un brutto periodo, ma ciò vale soprattutto per i meno qualificati; i rischi per i colletti bianchi sono stati fortemente esagerati. Ciò potrebbe indurre i cinici alla conclusione che il sentimento generale d'insicurezza sia dovuto alla perdita di posti di lavoro a vita (specie negli Usa), in due settori che hanno particolare risonanza: i media e le università.
Va detto anche, però, che la sicurezza non è necessariamente una buona cosa se significa rigidità nella struttura del mercato del lavoro. In un'economia sana, quest'ultima dovrebbe evolvere continuamente, con alcune industrie che si espandono e altre in declino. Gli effetti positivi che la nuova tecnologia può produrre sulla domanda supereranno le tendenze al risparmio di manodopera solo se è possibile trasferire liberamente risorse verso nuove industrie. I Paesi dove il mercato, compreso quello del lavoro, è flessibile (come gli Stati Uniti e la Gran Bretagna), saranno in grado di promuovere una transizione senza scosse da settori in declino ad altri in espansione; mentre l'Europa continentale si accorgerà a sue spese che i suoi mercati più rigidi, volti a proteggere l'occupazione, ne bloccheranno invece lo sviluppo.
Un rapporto del McKinsey Global Institute del 1994 concludeva che le barriere tariffarie e le rigidità del mercato del lavoro concorrono in egual misura a spiegare perché i posti di lavoro in Europa siano aumentati più lentamente che in America. Nel Vecchio Continente rigide regolamentazioni del mercato e restrizioni all'attività finanziaria hanno impedito lo sviluppo di nuove industrie e la creazione di nuovi posti di lavoro.
Per esempio, le normative imposte dai governi hanno rallentato lo sviluppo dei sistemi di comunicazione via cavo e della tv in molti Paesi, mentre pesanti restrizioni hanno intralciato la concorrenza impedendo la creazione di nuovi posti di lavoro nel campo dei servizi finanziari in Europa. Negli Usa è avvenuto il contrario: la perdita di posti nelle tradizionali attività bancarie (pagamenti, depositi, prestiti, ecc.) è stata tra le più pesanti, grazie anche alla rapida introduzione del bancomat.
Nonostante ciò, l'occupazione complessiva in questo settore è cresciuta a causa del boom di nuovi servizi finanziari.
Il rapporto McKinsey ne trae la conclusione che in molti servizi la regolamentazione del mercato dei prodotti sia un fattore più negativo per l'occupazione della rigidità del mercato del lavoro. Ma non sempre è così: nel caso dei lavori meno pagati, per esempio il commercio al dettaglio e l'edilizia, si fa notare che sono i salari minimi elevati a scoraggiare gli imprenditori dall'assumere manodopera non specializzata. In Francia e in Germania i salari medi nel settore del commercio sono più o meno uguali a quelli dell'industria manifatturiera, mentre in America sono inferiori di un terzo rispetto a quest'ultima. Non sorprende perciò che il numero di posti di lavoro nel commercio al dettaglio sia aumentato oltre Atlantico e diminuito in Francia e in Germania.
La rigidità del mercato dei prodotti e del lavoro è utilizzata spesso per proteggere l'occupazione, ma finisce per avere l'effetto opposto. La cosa peggiore che i governi possano fare è cercare di rallentare il processo di adeguamento tecnologico attraverso regolamentazioni, sussidi o protezionismi. In tal modo potranno anche risparmiare dolori a pochi, ma al prezzo di ridurre i livelli di vita e la crescita dell'occupazione nel resto del Paese.
Meglio sarebbe, invece, se facessero tutto il possibile per incoraggiare l'innovazione, intervenendo per alleviare le pene degli sfortunati che vengono colpiti. Elevando la professionalità della loro forza-lavoro, dovrebbero inoltre garantire che un numero sempre maggiore di persone possa trarre vantaggio dalle nuove opportunità che si prospettano. Informatica e globalizzazione favoriscono i più qualificati. Per gli altri, il futuro potrebbe essere effettivamente molto triste.


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