§ CHE MONDO FA

SE IL SOLE TRAMONTA A ORIENTE




Leo Morabito



In certe favole, la bella incantatrice alla fine si rivela una vecchia rugosa. E in questi giorni, molti uomini d'affari europei e americani cominciano a chiedersi se l'Asia orientale, già bellissima giovinetta del capitalismo, non stia mostrando un po' troppe rughe, concordando con l'economista americano Paul Krugman, secondo il quale l'era di un'espansione tumultuosa basata su lavoro a buon mercato, tassi di cambio favorevoli e imitazione delle tecnologie altrui sta ormai volgendo al termine in gran parte dell'Estremo Oriente.
La tirannia dello spazio ci impedisce di dar conto in dettaglio di quello che succede in tutti i Paesi dell'area: dalla confusa e vitale ripresa delle Filippine, che sembrano uscite da un lungo tunnel di sottosviluppo, alla più ordinata ma forse non altrettanto vitale espansione del Pakistan; dalle promesse insperate del poverissimo Bangladesh a quelle forse troppo enfatizzate dell'ancor più povero Vietnam; da una Malaysia in bilico tra l'estrema modernità dei grattacieli di Kuala Lumpur e il fondamentalismo islamico che potrebbe compromettere un'espansione lungimirante, coraggiosa e lusinghiera, alla confusa Thailandia, in cui i militari si mescolano agli uomini d'affari in proporzioni pressoché equivalenti, al Myanmar (ex Birmania) dove prevalgono i primi, al Vietnam in cui i secondi proprio non ci sono, al Laos e alla Cambogia dove potrebbero esserci in futuro, se la guerriglia dei Khmer Rossi sarà finalmente cancellata.
Questa realtà magmatica è riconducibile, a nostro avviso, ad una sommaria ma significativa classificazione in quattro gruppi.
Nel primo vanno collocati gli Stati che hanno compiuto gran parte della transizione verso strutture economico-sociali tipiche dei Paesi avanzati e non sono soggetti, come Taiwan e Hong Kong, a rilevanti rischi esterni. E forse la sola Singapore vi appartiene a pieno diritto.
Il secondo gruppo è più folto: si tratta di quei Paesi che stanno passando dal dominio di una figura "paterna", da una più o meno benevola dittatura, almeno parzialmente favorevole allo sviluppo, a una situazione molto più articolata, con una molteplicità di voci. Il passaggio sembra ormai coinvolgere i Paesi che hanno perso, o stanno perdendo, i "vantaggi di posizione" legati ai bassi costi, all'inesistenza di forze sindacali e di protezioni sociali. Ne fanno parte Corea del Sud, Taiwan, Malaysia, Hong Kong, Filippine, India, Indonesia e Cina. Sono Paesi, fra l'altro, passati dall'imitazione all'innovazione.
Il terzo gruppo consiste di Paesi che vivono ancora la fase dei vantaggi competitivi in società largamente tradizionali (lavoro a basso costo, moneta a basso cambio, mercati locali ad alta protezione). Qui si collocano Pakistan, Bangladesh, Thailandia, Sri Lanka.
Infine, il quarto gruppo comprende gli "ultimi della classe", Paesi in cui l'avvicinamento all'economia di mercato è alle primissime fasi o non è stato ancora avviato. Sono Vietnam, Cambogia, Laos, Myanmar e Corea del Nord.
Rispetto alle "Tigri", così fenomenali da essere talvolta un fenomeno da baraccone, si sta passando a una realtà forse meno eccezionale, con più rischi, ma più matura e consapevole. Vediamo i casi più rilevanti.
Al primo posto nella lista dei Paesi "preoccupati" è la Cina, che ha subìto l'estate scorsa le più disastrose alluvioni di questo secolo nelle sue province centrali e meridionali. I raccolti perduti si stimano in circa ventimila miliardi di lire, un po' meno di metà della produzione agricola italiana, con effetti disastrosi sulle strutture e sulle infrastrutture rurali e un'accentuazione dell'immigrazione nelle città. Oltre alle tensioni territoriali e a quelle sociali derivanti da redditi fortemente divergenti, la Cina deve affrontare notevoli tensioni etniche per l'opposizione - talora violenta - dei tibetani a sud-ovest e degli juguri (circa 15 milioni di caucasici di religione islamica) ad ovest, nonché il problema imminente dell'annessione di Hong Kong.
Forme di paleosocialismo (spesso, peraltro, sorrette da grande intelligenza amministrativa) convivono a fatica con forme di capitalismo a volte avanzatissimo negli strumenti, ma anche rozzo, arrivista, legato alla speculazione edilizia. Il primo non esita a utilizzare il lavoro dei carcerati per conquistare i mercati esteri; il secondo non esita a copiare illegalmente il software americano. Il grande progetto di dotare la Cina di una struttura industriale "normale" si scontra con queste due "deviazioni". Non sembrano esserci problemi immediati, anche perché il forte calo del surplus commerciale è più che coperto dai flussi di capitali in entrata, l'inflazione è relativamente sotto controllo, la crescita della produzione industriale si è fatta meno affannosa. Non ci sono, però, sicurezze. E bisognerebbe consigliare a tutti gli operatori, cinesi ed esteri, un po' di moderazione negli obiettivi per non distruggere la straordinaria espansione cinese.
Ricordando, in questo, il detto di Confucio: "Chi si modera di rado si perde". Sarebbe assai preferibile una Cina che continua a svilupparsi al 6-8% per i prossimi decenni a una Cina troppo lanciata (10% annuo di sviluppo del Pil, come di recente), che poi rischia di schiantarsi.
Se per la Cina occorre citare Confucio, per Hong Kong è più appropriato Orazio: "Graecia capta ferum victorem coepit". Il vero interrogativo circa il prossimo passaggio della colonia britannica alla madrepatria naturale è se l'aggiunta al cocktail cinese di questo sofisticato centro finanziario, produttivo e intellettuale non sia tale da porre termine al precario equilibrio tra Pechino da un lato e Shanghai e Canton dall'altro.
Intanto, la congiuntura nel territorio non è eccezionale, ma potrebbe andare molto peggio. Il mondo degli affari sta superando la paura dell'abbraccio cinese, ma è presto per dire che, ad annessione avvenuta, non vi sarà crisi di rigetto. Il pragmatico mondo finanziario di Hong Kong ha però poco tempo per domande astratte: è quasi simbolico che, mentre gli inglesi sono riusciti a far accettare l'idea di un nuovo grande aeroporto, emblema tangibile del collegamento col capitalismo internazionale, i cinesi stiano costruendo una nuova ferrovia che collegherà direttamente questo territorio a Pechino.
L'Indonesia è balzata alla ribalta per i disordini estivi che hanno sconvolto la serenità della sua capitale. Se la politica cinese mostra nei volti dei suoi leaders tutte le rughe della gerontocrazia, quella indonesiana rivela delusioni anche più cocenti. Accreditata di un certo spirito illuministico capace di far transitare un Paese grande come mezza Europa, con 200 milioni di abitanti sparsi in più di diecimila isole, in realtà non sa distaccarsi dai tratti di un tradizionale dispotismo. Con i militari in eterno stato di allerta, Djakarta, che sembrava dover somigliare a Paesi piuttosto avanzati, come la Malaysia, in realtà si trova più simile al Myanmar, dove in barba al resto del mondo i generali continuano a fare il bello e il cattivo tempo, in una situazione di perdurante sottosviluppo.
E sarebbe un grande peccato se questo Paese, splendido e vario, non ce la facesse: secondo recenti statistiche, la distribuzione dei redditi non è più diseguale che nell'Occidente avanzato, la quota di popolazione sotto la soglia di povertà si è ridotta al 10%, sta nascendo una robusta classe imprenditoriale locale e vi sono buoni e solidi progetti di infrastrutture e di sviluppo. Tutte queste sono ragioni per un cauto ottimismo. Sull'altro piatto della bilancia vi è il pericolo che la minoranza cinese, da cui proviene la maggior parte degli imprenditori e dei finanzieri, impaurita dai disordini, sposti all'estero parte dei capitali, proprio quando l'espansione (oggi al 7,8%) sta creando per la prima volta tensioni sul mercato del lavoro.
Un secondo punto interrogativo è l'India, che ha alcuni problemi analoghi a quelli italiani, scossa com'è da interminabili storie di tangenti e di corruzioni nel campo delle forniture pubbliche. Quella delle imprese è una struttura che, nella relativa liberalizzazione degli ultimi anni, ha mostrato grandi segni di vitalità.
C'è chi teme che il garantismo statale, vecchia pianta dalle profondissime radici già nell'India britannica, possa bloccare uno sviluppo che autorizza comunque molte speranze. I giochi sono aperti.
Terzo interrogativo, quello della Corea del Sud, vale a dire il Paese in un certo senso più avanzato nella transizione economica verso il capitalismo, mentre in quella politica verso forme di governi "occidentali" è ancora in fase di stagnazione, voluta da leaders tradizionali, patriarcali e autoritari. E ciò determina condizioni non certo favorevoli per gli affari. L'economia rallenta vistosamente, avendo perso sui cambi parte del vantaggio competitivo verso Giappone e Stati Uniti, mentre il deficit commerciale aumenta e si delineano tensioni sul mercato del lavoro che fanno lievitare i costi. Per tutte queste ragioni le grandi imprese, sfidando le ire del governo, spostano all'estero gli impianti (come fecero venti o trent'anni fa i giapponesi, che spostarono i loro proprio in Corea del Sud), dislocandoli sin nell'Uzbekistan e nel Galles.
L'ultimo grande interrogativo riguarda Taiwan. Anche l'isola cinese ha effettuato una transizione dolorosa, anche se meno traumatica di quella coreana. Ha un'economia solida, con un apparato industriale proiettato sul futuro, spende in ricerca e sviluppo più dell'Italia e del Canada e sta aumentando vertiginosamente questa spesa. Proprio grazie a questi elementi sofisticati, riesce a far crescere il proprio attivo commerciale, mentre altri Paesi dell'area lo vedono ridursi in maniera anche vistosa.
Il punto debole di Taiwan sta a poche decine di miglia dalle sue coste occidentali e si chiama Repubblica popolare cinese. L'isola vive in un perenne clima di incertezza che, se da un lato stimola l'iniziativa e l'istinto di sopravvivenza, dall'altro aggiunge pesanti costi all'attività economica. Finché questo nodo non sarà risolto, non si potranno sciogliere le riserve.
li Paese che presenta tutti i vantaggi di Taiwan, senza essere penalizzato dagli inconvenienti politico-geografici, è Singapore. La sua popolazione è cinese, ma la Cina dista migliaia di chilometri. Per contro, il passato inglese, comprese le regole, le istituzioni e i codici commerciali, è vicino e presente.
Questa minuscola Svizzera asiatica è riuscita a compiere quasi in punta di piedi la transizione ad una nuova classe dirigente; mantiene un intenso controllo sociale ampio, che agli occidentali sembra oppressivo; con audaci strategie, sta proponendo i propri gruppi industriali e finanziari a livello planetario.
Concentrandosi nell'elettronica, sta passando all'avanguardia tecnologica in alcuni comparti. Con un'inflazione all'1,2% e un prodotto che si espande all'8-10%, sembra, a parità di ogni altra condizione, la miglior combinazione esistente di crescita e di sicurezza.


Banca Popolare Pugliese
Tutti i diritti riservati © 2000