§ EUROPA PROSSIMA VENTURA

RISCHIO MAASTRICHT




Francis J. Akerlof



Dalle recenti polemiche si può comprendere che è cominciata l'ultima fase della competizione per l'esame di maturità di Maastricht: ognuno fa per sé. Il trattato, che doveva essere un elemento unificante dell'Europa, è diventato un fattore di divisione tra i Paesi in gara per arrivare o non arrivare a una certa data all'ingresso nella moneta unica. Spesso si dimentica che il problema non è il passare l'esame, ma strutturare i sistemi-Paese in modo che possano far fronte alle sfide del mercato unificato.
Maastricht resta comunque un grande alibi per i governi, la grande scusa per chiedere alle popolazioni i sacrifici necessari al risanamento dei bilanci pubblici, risanamento che sarebbe stato necessario anche senza il trattato. i tagli di spesa previsti diventano anche una giustificazione per l'incapacità dei governi europei ad affrontare e risolvere il problema della disoccupazione - un problema vero e grave - unificante a livello europeo in quanto presente in tutti i Paesi in misura mai vista negli ultimi vent'anni, quasi che la disoccupazione fosse un altro prezzo da pagare per l'ingresso in Europa. Disoccupati per Maastricht, insomma, se non morti.
Quello che sta di fatto succedendo è che tutti noi stiamo facendo probabilmente i sacrifici sbagliati per entrare nell'Europa dei disoccupati.
Ancora una volta tutti i governi europei tentano di risolvere il problema della disoccupazione attraverso l'intervento pubblico con investimenti in infrastrutture e con il finanziamento territoriale degli insediamenti industriali veri o auspicati, non sempre utili. Sempre più l'aiuto ai molti "Mezzogiorni" d'Europa viene configurato come un contributo dei governi alla limitazione dei rischi degli imprenditori. Ciò è servito in passato, in una prospettiva keynesiana, per far partire il processo di sviluppo economico, che poi veniva tenuto in vita con le boccate d'ossigeno dell'inflazione. Oggi questa politica non è più possibile: i tempi dell'inflazione controllata sono terminati, le nostre economie si trovano in una fase di inflazione decrescente strutturale e pertanto gli investimenti in infrastrutture non servono allo sviluppo generalizzato dell'occupazione. Se il costo per un nuovo posto di lavoro è più alto per la collettività del sussidio di disoccupazione, resta chiaro il significato politico, ma sfugge quello economico.
L'Europa si sta tuttavia ostinando a tentare di risolvere il problema della disoccupazione insistendo nella creazione di posti di lavoro costosi e contemporaneamente non rinuncia a una politica di mantenimento, ovvero miglioramento del potere d'acquisto dei salari. In altri sistemi il problema della disoccupazione è stato risolto incoraggiando la creazione di posti di lavoro a basso investimento e con la progressiva diminuzione dei salari reali. Negli Stati Uniti i salari reali sono consistentemente diminuiti negli ultimi venti anni di circa il venti per cento.
Negli ultimi dieci anni l'industria americana ha perso centinaia di migliaia dì posti di lavoro, mentre in altri settori se ne creavano alcuni milioni. Il segreto è stato l'alleggerimento delle strutture e il basso costo del lavoro oltre alla sua natura di costo quasi totalmente variabile. Il risultato è una società altamente tecnologizzata con un alto tasso di emarginazione degli elementi socialmente deboli. Non è però dimostrato che per evitare conseguenze socialmente indesiderabili in Europa si debba preferire la sovvenzione al rischio imprenditoriale. Tutto concorre a dimostrare che in realtà noi non ci troviamo di fronte al problema della disoccupazione strutturale, bensì al problema del costo del lavoro e a un problema di inadeguatezza della struttura operativa della nostra società industriale rispetto alle esigenze della competizione globale che si sta profilando. Quando parliamo dì costo del lavoro non ci riferiamo a quanto costa l'ora lavorativa, bensì al costo globale del rapporto dì lavoro, includendovi anche il costo della rigidità degli orari e dei contratti con particolare riferimento alla rigidità del sistema per quanto riguarda la conservazione dei posti di lavoro.
"Il lavoro crea lavoro", questo dovrebbe essere lo slogan da contrapporre al demagogico "lavorare meno, lavorare tutti". Un barlume di speranza viene dalla Germania. Il governo Khol, dopo il fallimento del tentativo di risolvere il problema della diminuzione dei privilegi attraverso una soluzione concertata tra le parti sociali, ha fatto intervenire il Parlamento, elevando l'età pensionabile e diminuendo il pagamento per le giornate di malattia. Non sono stati provvedimenti rivoluzionari e neppure di vastissima portata, ma sicuramente un segnale nella direzione che la soluzione del problema della disoccupazione, ben presente al governo tedesco, non viene da una diminuzione delle ore lavorative, ma da una diminuzione dell'assenteismo e da un aumento della vita di lavoro.
Onestamente, non credo che questi provvedimenti bastino a risolvere i problemi sul tappeto: forse aiuteranno a mettere a posto formalmente gli indici richiesti dal trattato di Maastricht, ma non saranno sufficienti al rilancio delle attività imprenditoriali. I provvedimenti presi dal governo tedesco non risolvono, infatti, il problema del costo del lavoro, e questo sarà il vero nodo che dovrà essere sciolto da tutti i partecipanti all'Unione europea, perché una cosa è ben certa: una società di disoccupati con i bilanci a posto non ha futuro, così come non ha futuro una società con i bilanci in disordine.


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