§ LEGALITA' O SOLIDARIETA'?

VICTOR HUGO CITTADINO DI SCHENGEN




Luigi Compagna



A differenza di quanto capitò alla miseria un secolo e mezzo addietro, l'immigrazione in Europa non ha ancora incontrato il suo Victor Hugo. Nel senso che, al pari di allora per la miseria, oggi per l'immigrazione sarebbe necessario attribuire al vocabolo un significato che vada al di là di quello convenzionale; affinché una politica, non solo una morale, sia pensabile e realizzabile: nelle sue priorità e nelle sue compatibilità, nei suoi obiettivi e nei suoi ambiti.
Fino agli anni '50 del secolo scorso, nel linguaggio quotidiano, anche colto, "miserabile" si accompagnava al concetto di criminale, di pericoloso emarginato destinato presto o tardi a subire i rigori della giustizia. Ed ecco che Hugo, pur seduto sui banchi dei deputati conservatori, il 17 luglio del 1849 all'Assemblea legislativa affermava: " ... La sofferenza non può scomparire, la miseria deve scomparire. Vi saranno sempre degli infelici, ma può darsi che non vi siano più dei miserabili ... ".
L'intervento di Hugo, seguito - come prevedibile e come documentato dal resoconto della seduta - da "approvazione a sinistra; risate ironiche su parecchi banchi", segnava il capovolgimento semantico della parola "miserabile". Non la si applicava ormai tanto al paria di una ordinata società di benpensanti, quanto allo svantaggiato da questo stesso ordinamento sociale. Si intendeva richiamare l'attenzione su "esseri degni di compassione", non già di unanime riprovazione.
Stato di diritto e Stato sociale erano invitati ad allargare i propri confini l'uno verso l'altro. Toccava ad entrambi sradicare certe ingiustizie della Giustizia, correggere l'inefficienza di un sistema penale che precludeva ogni spiraglio di speranza al reinserimento del delinquente nella società, respingere la severità disumana di sanzioni e divieti in grado di trasformare gli uomini in belve.
Soprattutto, per Hugo, legalità e solidarietà non potevano neppure immaginarsi l'una a scapito dell'altra, ma dovevano insieme indurre a concrete scelte politiche, per loro natura più ardue e più complesse dell'enunciazione dei buoni sentimenti. Nel gennaio del 1850, Hugo non avrebbe esitato, ad esempio, a sostenere: "L'insegnamento elementare e obbligatorio è il diritto del bambino, che è ancor più sacro di quello di suo padre".
C'era più socialità e meno retorica della socialità, o se si vuole più visione politica e meno alchimia letteraria, nell'enfasi appassionata di Hugo di quanta sembra animare tante facili e superficiali contrapposizioni odierne fra "legalità" e "solidarietà" in tema di immigrazione. Quando, ed è quel che si registra spesso in Italia, la prima viene intesa essenzialmente come un "bastone" e la seconda essenzialmente come una "predica", si perde decisamente ogni diritto a dolersi di un'Europa che starebbe per voltare le spalle agli accordi di Schengen sulla libera circolazione delle persone, a cui fra l'altro il nostro Paese non è stato ancora in grado di adeguarsi.
L'Europa ha conosciuto in questi ultimi due anni l'attacco del terrorismo islamico alla Francia, il fondato sospetto che il Belgio ne fosse base di partenza, la pressione crescente dell'immigrazione clandestina in Germania, Italia, Regno Unito, le diffidenze sempre più accentuate fra Stati nazionali riluttanti ad una politica comune dei visti, un'atmosfera velenosa di deplorevoli furbizie nello scaricare sugli altri le proprie inadempienze. Schengen, che aveva del resto carattere di accordo intergovernativo, estraneo alle competenze dell'esecutivo comunitario, rischia di vanificarsi. Sarebbe un delitto, o peggio un errore, annoterebbe un Talleyrand del nostro tempo.
E' impossibile serrare i cancelli della fortezza europea. E così pure pretendere di tener immune da immigrazioni extra-comunitarie la guarnigione italiana, col sottinteso di deviare altrove l'immigrazione dal Nord dell'Africa. Quel che è possibile ed è irrinunciabile è una seria programmazione dei flussi migratori, la quale deve avere parametri e riferimenti europei, anche per poter essere a sua volta concertata con i Paesi di provenienza degli immigrati.
Se qualcuno viene a dire che di costoro l'Europa non ha bisogno, questo qualcuno della storia e dell'identità dell'Europa moderna non ha capito davvero nulla. E' almeno da un cinquantennio che le nuove fanterie del lavoro, alla catena di montaggio, ma non solo a questa, hanno ridisegnato il profilo del nostro continente. Per quanto inelegante possa essere l'immagine, la stessa fatidica locomotiva tedesca non sarebbe certo in grado di fare a meno di alcuni milioni di immigrati mediterranei (oggi soprattutto turchi, ieri soprattutto italiani) alle caldaie.
Se prima di Hugo la miseria era in Europa "la cosa senza nome", l'immigrazione pare oggi evocare un fantasma che si aggira fra false speranze e vere disperazioni. Tutti lo vorrebbero esorcizzare. Alla destra piacerebbe alzare un muro contro gli stranieri indesiderati, degradando la patria a barriera del proprio egoismo; e c'è chi indulge al razzismo più insulso. Alla sinistra piacerebbe esaltare come modello multiculturale il più caotico ed irresponsabile dir di si a tutti, senza limitazioni; e spesso ci si esibisce in anti-razzismi facili quanto vacui. Da destra e da sinistra, talora con opposti estremismi, il problema tende ad essere sempre un altro, magari di altri.
E non c'è dubbio che esista un diritto degli individui dei Paesi più poveri ad immigrare nei Paesi più ricchi. Ma è altrettanto certo che a tale diritto corrisponda pure - per antico eppur tuttora moderno liberalismo della nozion di Stato - il diritto/dovere di sottoporlo a restrizioni, nelle forme ovviamente dello Stato di diritto, ma senza abdicazioni. Anche perché l'ingresso in un moderno Stato democratico, con il suo corredo di diritti civili, politici, sociali, è atto che implica oneri, adempimenti, integrazioni con chi in quello Stato già ci stava. Né è improprio tener conto dei costi che qualcuno deve sostenere fino a che l'immigrato non diventi a pieno titolo anche un contribuente. Il rifiuto ai nuovi arrivati del dischiudersi, sia pure graduale, di una simile prospettiva sarebbe moralmente odioso e giuridicamente insostenibile.
Presa sul serio, oggi la nozion di Stato è inseparabile dalla nozion d'Europa. Il cosiddetto "terzo pilastro" del trattato di Maastricht, quello inerente ai temi della giustizia e degli affari interni, e la nostrana legge Martelli erano due lati della stessa medaglia dei primissimi anni '90. Quella
medaglia alla fine del '95 si è ammaccata sul fronte francese ed è stata indecorosa l'eco che ne è rimbalzata sul fronte italiano, a proposito di un decreto legge, con accenti dialettali di protagonismi pretenziosi eppur inverosimili. Del resto, Chirac non aveva prospettato alla Francia ferita dagli attentati il riparo di una nuova Maginot, dichiarando alla tv: "Per quel che ci riguarda, Schengen può aspettare"?
Viene in mente anche qui Hugo, subito consapevole del carattere internazionale della "miseria" e della circolazione de I Miserabili ben oltre le frontiere della Francia del Secondo Impero. All'editore della prima traduzione italiana del suo romanzo, Daelli, egli scriveva: "Questo libro, I Miserabili, è il vostro specchio non meno di quanto sia il nostro. Gli specchi, questi dicitori di verità, sono odiati, ed è semplicissimo: ciò non impedisce loro di essere utili ... ".
La società multietnica oggi è una sollecitazione tanto ricorrente, quanto insufficiente. Nei fatti la convivenza permanente tra immigrati e indigeni può assumere almeno tre volti. Il primo è l'assimilazione: gli immigrati imparano a perfezione la lingua, adottando in pieno i costumi di dove vivono e dopo qualche anno nessuno li distingue più dai locali. Ben diverso è il volto dell'integrazione: gli immigrati si impegnano a rispettare nella sfera pubblica un insieme determinato di norme fondamentali del Paese dove hanno trovato accoglienza, mentre nella sfera privata mantengono lingua, costumi, religione d'origine e sono aiutati dallo Stato a difendere tale loro diversità culturale. Ma è possibile pure un terzo volto, quello vistosamente radicato negli Stati Uniti: gruppi etnici distinti si redistribuiscono in zone distinte del territorio, nelle città come nelle regioni, e dentro tali enclaves territoriali l'adesione agli obblighi dello Stato nazionale non è la più sentita.
Fra questi tre volti a nessuno è lecito teorizzare in astratto, fuor di storia e geografia vissute, quale sia maggiormente capace di assicurare la convivenza più accettabile fra immigrati e residenti. Dei cento e più gruppi etnici che ormai abitano i maggiori Paesi dell'Europa ve ne sono di propensi al primo, al secondo e al terzo volto.
"Ma - ha notato opportunamente Luciano Gallino - il Paese che li ospita una sua preferenza deve per forza esprimerla, articolata e flessibile per quanto possa essere. E per esprimerla deve fare scelte complicate sulla nozione stessa di cittadinanza, che cosa siginifichi nel XXI secolo essere uno Stato-nazione, il punto a cui si può arrivare, nella necessaria e proficua apertura ad altre identità culturali, senza rischiare di perdere moralmente la propria".
Ecco dove le ragioni della nozion di Stato non possono che incontrare quelle della nozion d'Europa. Sarebbe velleitario presumere che vi sia in Europa un Paese in condizioni di far da sé, con la propria identità, la propria legislazione, la propria politica: faccia da sé a colpi di "bastone" o faccia da sé con le "prediche", esso sarebbe ugualmente assai poco credibile. Fuoriuscite unilaterali dallo spirito, ben più importante della lettera, degli accordi di Schengen non risolvono nulla e aggravano tutto. Lo si dica, però, alla Francia con quello spirito di amicizia, di solidarietà, di europeismo, che negli ultimi tempi non si è molto avvertito nei confronti della "sorella latina". Dignità d'Europa richiede che alla nazione di Victor Hugo si sappia parlare con umiltà.
Quanto al cui prodest elettorale, nell'accezione più prosaica del termine, che si lega ad ogni legislazione e ad ogni politica di respiro europeo in tema di immigrazione, da esso non ci si può far ricattare. Ma non se ne può neanche prescindere. Le regioni mediterranee della Francia, ad esempio, più esposte, insieme all'area parigina, a massicci movimenti migratori dal Nordafrica (e quindi anche alle sanguinose ripercussioni della guerra civile algerina), hanno prodotto nelle ultime tornate elettorali un'esplosione di consensi al Fronte nazionale di Le Pen. La presenza di una popolazione magrebina, che in molti casi, da Tolone a Marsiglia, supera ampiamente il 10% e si dedica ad attività commerciali di tipo marginale o residuale, ha provocato fortissime tensioni nelle città della costa. La protesta ha coinvolto soprattutto gli ambienti più esposti alla disoccupazione, le periferie urbane e i quartieri degradati del centro cittadino e delle zone portuali, dove maggiormente si era concentrata l'immigrazione. In queste regioni l'elettorato ha finito col premiare l'estrema destra, che cavalcava la protesta e coltivava malumori intrisi di xenofobia.
Di fronte a casi come questi, che senso ha che la sinistra continui a bollare come manifestazione di razzismo l'esigenza - europea non meno che nazionale - di un contenimento del numero degli immigrati? Né le sguaiate strumentalizzazioni della destra assolvono mai la sinistra dal suo malintendere "legalità" e "solidarietà". La motivazione niente affatto razzista di una ragionevole regolazione dei flussi in entrata riposa su valori ed argomenti pienamente democratici e nitidamente liberali. Non troppo distanti dalla tradizione etico-politica di Hugo, li si possono dedurre nei nostri anni '90 dalla vocazione filosofico - sociologica, assai meno imputabile di conservatorismo, del francofortese Habermas. Non si tratta della necessità di tutelare sotto il profilo etnico o culturale "una comunità di destino", si leggeva nella relazione presentata qualche tempo fa alla Cee da Habermas, percorsa da strali più che acuminati contro lo "sciovinismo del benessere"; piuttosto, "legittime restrizioni al diritto di immigrazione" per Habermas vanno spiegate con "l'esigenza di evitare conflitti e problemi che, per la loro entità, sarebbero in grado di rappresentare una seria minaccia all'ordine pubblico o alla riproduzione economica della società". Insomma, anche nel lessico di Habermas sono l'ordine pubblico e la capacità di assorbimento economico a rivendicare limitazioni al regime di "porte aperte" a tutti da parte di tutti, di cui a sinistra ci si atteggia a fautori tanto generosi quanto sostanzialmente cinici.
La verità è che i dati di fatto non sono né di destra né di sinistra. E così quelli di diritto. Decisivi, al riguardo, quelli che emergono da una sentenza del 13 luglio 1995 della Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo sul ricorso di un cittadino algerino. Val la pena richiamarla.
Vi si rilevava, in via di principio, come l'espulsione di cittadini stranieri fosse di per sé misura compatibile con la Convenzione europea sui diritti dell'uomo, in particolare con riferimento alla finalità della prevenzione del crimine e della sicurezza in generale. Infatti, stando alla Corte di Strasburgo, è compito degli Stati mantenere l'ordine pubblico attraverso il controllo, in base ad un principio di diritto internazionale riconosciuto - nonché alle convenzioni specifiche, come ad esempio quella di Schengen - e senza pregiudizio degli obblighi derivanti da accordi internazionali, dell'ingresso e del soggiorno degli stranieri. Sicché nell'esercizio di tale diritto ben può essere ricompreso quello di ordinare l'espulsione di quelli che si sono resi responsabili di reati. Naturalmente, veniva ricordato dalla Corte europea, tali decisioni, per non esser confliggenti con l'art. 8 della Convenzione sui diritti dell'uomo, devono rispondere ed essere proporzionate alle finalità di una società democratica.
Non sul terreno della giurisdizione, ma su quello della legislazione, addirittura della legislazione costituzionale, principi generali analoghi prevalsero fra il '92 e il '94 nella sofferta discussione tedesca sull'Asylfrage. La discussione, in un Paese che si avviava ad avere cinque milioni di immigrati, avrebbe potuto davvero risultare lacerante per forze politiche arroccate nelle loro certezze nazionali, dimentiche di nozion d'Europa e conseguenti responsabilità. Da destra, in seno alla Cdu, sì ventilò un'azzardata procedura dì emergenza che avrebbe sospeso la normalità costituzionale. Ma Khol più intelligentemente preferì la strada di un accordo con la Spd, la quale in un difficile congresso straordinario ebbe a definire i termini dell'intesa sulla modifica dell'art. 16 della Costituzione.
La Germania è arrivata così a darsi un'equa normativa sul diritto d'asilo, insieme a una rigorosa sorveglianza contro l'immigrazione clandestina. Hugo, ma anche Habermas. A suo modo, per rifarsi al titolo del libro di Dahrendorf, una specie di quadratura del cerchio: possibile grazie al fatto che a destra Khol si mostrò statista capace di pensare ed agire in europeo, nell'interesse della Germania in Europa e dell'Europa in Germania, ed a sinistra la socialdemocrazia si rammentò di essere stata a suo tempo a Bad Godesberg, alla ricerca di un equilibrato raccordo fra "solidarietà" e "legalità". La massa critica di rifugiati da Est e di immigrati da Sud aveva innescato in Germania un'incalzante urgenza di riscrivere la legislazione precedente, la quale consentiva di restare sul suolo tedesco fino a quattro o cinque anni: il tempo necessario ai tribunali dei Laender di dare una risposta definitiva alla richiesta di asilo; ma anche un tempo in grado di alimentare i mille rivoli della clandestinità, attratti dal "miraggio" della Germania. Ora, la legge federale si è fatta assai più attenta, meno impacciata e più veloce nel conseguire il suo intento. Chi cerca asilo deve provenire da un Paese dove corre effettivi pericoli di natura politica o personale. Sono i tribunali tedeschi ad accertarne la sussistenza. In tutti gli altri casi c'è il rimpatrio; e il rimpatrio è inoltre previsto per cessazione del pericolo, nonché per i cittadini stranieri che abbiano commesso reati e abbiano finito di scontare la pena. Introdotta in un Paese che nel '93 aveva visto oltre 322 mila domande di asilo e dove le vicende dell'ex Jugoslavia hanno fatto arrivare oltre 400 mila profughi, nessun europeo di buon senso e di buon gusto oserebbe considerare "razzista" simile procedura. Il che vale pure per la dottrina del burden sharing ("suddivisione del carico").
Tale dottrina non può dirsi tedesca, perché essa indica agli altri europei, appunto, quel sistema di distribuzione degli immigrati, che vengono, se non proprio smistati, indirizzati nei vari Laender, per evitare che l'80% di essi si concentri nella regione da tutti più ambita, la Baviera. Ma tale dottrina in pari misura non può non dirsi europea: esportato a livello comunitario, tramite direttiva, tramite accordo intergovernativo, tramite quel che si voglia e si possa, il modello tedesco evoca una "germanizzazione" dell'Europa non solo accettabile, ma pienamente auspicabile. Se ne gioverebbe lo spirito di Schengen, nel quale le passioni di Hugo si ritrovano negli argomenti di Habermas, lo Stato sociale abita nello Stato di diritto, la "legalità" non è arcigno presidio di egoismo, né la "solidarietà" mera ostentazione di altruismo.
In questo quadro, l'Italia sembra paralizzata da opposti giustificazionismi che servono a coprire inerzie politiche ed opacità amministrative del nostro Stato nazionale, non meno che del nostro europeismo. Contrastare l'immigrazione clandestina significa dotarsi di una effettiva politica di accoglienza. L'esperienza dei Paesi che prima del nostro hanno affrontato il problema lo dimostra. Sulla via dell'Italia in Europa e dell'Europa in Italia, Schengen non può aspettare. Hugo ad honorem può considerarsi cittadino di Schengen. Di sé, dopo I Miserabili, diceva di voler essere "patriota dell'umanità": una formula, forse, lontana, dalla sensibilità del nostro Manzoni, al quale è comunque amaro che si dia del "padano".
Ragion d'Italia e ragion d'Europa escludono si possa pensare ed agire, se non da cittadini di Schengen: ancor più ed ancor meglio che nella stessa legge Martelli. Per un Paese come il nostro, si tratta di non essere indegni del proprio Risorgimento: non meno che di passato, nel solco di Hugo e di Manzoni, legalità e solidarietà sono riferimenti carichi di avvenire.


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