§ LE DUE ITALIE

CUI PRODEST




Luca De Caro



Nel momento in cui tutti fanno i conti in casa, incalzati dai dannatissimi parametri maastrichtiani, e presentano bilanci ipocritamente "aggiustati" (come in Francia, dove si mettono fuori bilancio i passivi dell'industria automobilistica protetta per far quadrare le cifre) o aggiornati alla rinfusa (come in Italia, dove negli ultimi dieci anni le "manovre aggiuntive" hanno sottratto alle tasche dei soliti noti, quelli che pagano le tasse, qualcosa come 500 mila miliardi di lire), una domanda non può essere elusa. Ed è questa: a chi converrebbe una "Padania verde"? Se l'Italia si divide in due, al modo dell'ex Cecoslovacchia, chi ci guadagnerebbe, gli agricoltori del Nord o quelli del Sud? Domanda, ovviamente, futuribile, da ufficio previsioni e studi. Ma, tanto per mettere le mani avanti, alla Confagricoltura hanno provato a metter nero su bianco qualche ipotesi, e le sorprese non sono mancate. La scissione penalizzerebbe soprattutto i produttori dell'Italia settentrionale, perché riceverebbero meno quattrini da Bruxelles e perché, con ogni probabilità, vedrebbero assottigliarsi - a tutto vantaggio delle forti agricolture dell'Europa continentale - le esportazioni padane, che oggi si dirigono in grandissima parte verso le regioni meridionali della penisola.
Punto di partenza dell'ipotesi complessiva, le dichiarazioni dei cosiddetti "economisti della Lega", secondo i quali la divisione in due dell'Italia attribuirebbe alla futura moneta padana un valore di cambio più alto rispetto a quello attuale. Ed è vero. Ma questo significa innanzitutto aiuti comunitari meno cospicui. Lo sanno bene gli agricoltori per averlo sperimentato in quattro anni di mercati valutari turbolenti. Tuttavia, è opportuno spiegarlo agli studiosi di economia valligiana, tanto quanto ai non addetti ai lavori.
I sostegni comunitari per i vari prodotti agricoli sono stabiliti in Ecu e una svalutazione o una rivalutazione vuol dire semplicemente ricevere più denaro o meno denaro in moneta nazionale. Facciamo un esempio: se un premio è di 100 Ecu per ettaro, si ottengono 200.011 lire con un cambio a 2.011 (quello del febbraio 1995, con la lira ancora debole), ma solo 190.730 con un cambio a 1.973 (quello di fine '96, con una lira più in salute). Per gli increduli a oltranza e per i miracolati dall'ottimismo, va ricordato che il tasso di cambio agricolo viene adeguato periodicamente a quello giornalmente registrato dai mercati valutari.
Dal settembre '92, dopo l'uscita dal Sistema monetario europeo, la debolezza della nostra moneta ha dato una mano agli agricoltori italiani che, per questa via, hanno visto addolciti gli effetti di una politica comunitaria tendente sempre più al risparmio: sono anni che gli aiuti verdi restano inchiodati sullo stesso valore. Adesso, con una lira che si va rafforzando, succede esattamente l'opposto. Ed è certo che lo stesso fenomeno si verificherà con una moneta della cosiddetta "Padania" rafforzata, cioè più apprezzata della lira attuale. Al Sud, invece, il valore della moneta dovrebbe scendere rispetto ad oggi e soprattutto rispetto alla lira padana, e di conseguenza i produttori riceveranno finanziamenti più ricchi.


Qualche cifra. Gli agricoltori delle regioni padane potrebbero rimetterei nel settore dei seminativi tra i 366 e i 548 miliardi l'anno, secondo che la rivalutazione della "lira settentrionale" sia del 20 o del 30 per cento. Un discorso analogo può essere fatto per altri comparti, a cominciare da quello zootecnico.
Avere meno sussidi significa costi di produzione più alti. E anche se nel conto venissero messi i vantaggi della probabile minore spesa per le materie prime d'importazione (come la plastica e i carburanti), l'esperienza degli ultimi anni fa supporre che non sarebbero lo stesso sufficienti a far pendere la bilancia verso il segno positivo. In altri termini: i prodotti agricoli e zootecnici del Nord diventeranno molto più cari, e questo, unito alle campagne promozionali dei prodotti locali del Sud (tipo "Consumate prodotti della vostra regione, contribuirete ad arricchirla e a crearvi posti di lavoro": che non è male), comporterà il crollo delle richieste da parte delle regioni del Sud. Magari a vantaggio di altri Paesi, che già oggi sono diretti concorrenti in alcune produzioni dell'Italia del Nord. Ma questo gli esperti di economie valligiane non lo sanno, o fingono di non saperlo.


E ora, sulla base di esperienze positive fatte in aree depresse europee, un'altra domanda: perché non deve essere possibile costituire nel Mezzogiorno quelle "zone franche" che sono state la fortuna di alcuni Paesi continentali a basso indice di sviluppo economico, come ad esempio l'Irlanda? Ancora oggi, infatti, da noi ci sono notevoli resistenze a creare queste zone in territori ben definiti della Puglia, della Campania, della Sicilia. Si straparla di "patto per il lavoro" nel Sud. Ebbene, il Mezzogiorno deve diventare una delle aree in cui sia conveniente investire, al pari di altre zone europee. Ma è bene intendersi subito: se si facesse una politica di incentivazione uguale per tutto il territorio nazionale, si metterebbero fuori gioco proprio le regioni più deboli, ossia quelle meridionali, perpetuando inganni socio-economici ben noti alla storia del nostro Paese.
In Irlanda, le "free zones" sono due: quella di Shannon e quella di Dublino. Shannon, definita "zona libera", venne istituita in prossimità di un aeroporto per sviluppare il commercio aereo internazionale. In quell'area, peraltro molto limitata, sono localizzate oltre cento imprese multinazionali, che occupano più di 13 mila addetti. Gli investimenti negli ultimi sei anni hanno superato i cinquemila miliardi di lire. E il tasso di esportazione si è notevolmente accresciuto, toccando il 21 per cento. Le attività svolte, prevalentemente nel settore aeronautico, sono di tipo manifatturiero, ma anche di servizi, soprattutto finanziari. Le aziende che si insediano in questo territorio godono di numerose agevolazioni. Lo Stato, infatti, predispone tutte le infrastrutture, materiali e immateriali, indispensabili per gli insediamenti.
Sono previsti sussidi per i canoni di locazione. Ci sono contributi per la formazione del personale, che in alcuni casi raggiungono l'intero costo dei corsi, anche se seguiti all'estero. L'aspetto più interessante è che la tassazione sugli utili delle società non supera il 10 per cento, laddove l'aliquota normale si aggira attorno al 40 per cento.
C'è poi il 100% di ammortamento fiscale sull'impianto e sulle strutture. E si può godere dell'esenzione dall'Iva sull'importazione e l'acquisto di merci da altre società ubicate nella "zona franca". Per particolari disposizioni normative, anche di carattere internazionale, è facilitata la reintroduzione dei capitali nelle nazioni d'origine. Alternativamente, le imprese possono decidere di reinvestire i profitti di operazioni particolarmente vantaggiose. Sono concesse, infine, l'esenzione da dazi sulle merci importate per tutto il tempo in cui stazionano nell'area di Shannon e dal pagamento della ritenuta d'acconto sugli interessi pagati a non residenti. Le aziende che intendono ubicarsi in quest'area hanno bisogno di un'autorizzazione dei ministero dell'Industria irlandese, mentre le agevolazioni sono erogate dall"'lrish Development Authority", che negozia con chi vuole investire, tenendo conto sia della validità del progetto che dell'impatto occupazionale.
La durata delle agevolazioni è fino al 2005 per le finanziarie e al 2010 per le imprese manifatturiere. L'altra zona franca è quella dublinese, denominata "Customs House Docks Area": vi si sono stabilite multinazionali specializzate in attività finanziarie o assicurative. Anche in quest'area c'è un'aliquota ridotta al 10 per cento sugli utili.


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