§ DISCUSSIONI

CHE FACCIAMO DI QUESTO SUD




Franco Cardona



E' opinione diffusa, in una certa parte d'Italia, che il debito pubblico accumulato dal Paese sia da addebitarsi all'assistenzialismo del Sud. Un assistenzialismo avviato con gli anni Cinquanta (cioè con la Cassa per il Mezzogiorno) e cresciuto col sistema sociale (pensioni, ecc.): come se quest'ultimo fenomeno abbia riguardato solo il Sud, e non anche Torino e Milano e Udine e Venezia, tanto per citare un generico Nord subalpino, in nome e per conto dell'intera Italia settentrionale. Ma tant'è.
E' comunque il caso di mettere in chiaro un dato incontrovertibile: la dannazione del debito pubblico ha accompagnato tutta la storia dell'Italia unitaria, dal 1860 ai nostri giorni. La Destra Storica (1861-1876) inaugurò la stagione dorata di una nazione che stava nascendo tra infiniti problemi e grandi difficoltà. Furono i tempi di Spaventa e di Sella, di Minghetti e di Scialoja, presidenti di ministeri che ebbero il coraggio di istituire l'imposta di ricchezza mobile, di liquidare l'asse ecclesiastico, di imporre l'impopolare tassa sul macinato che colpiva alla fonte le classi più povere, soprattutto meridionali. Con i governi della Sinistra Storica (1876-1896), campeggiarono Depretis e Crispi. L'abolizione della tassa sul macinato, il balzello più odiato, fu uno dei collanti che tenne unita una Sinistra rissosa e molto meno sensibile all'imperativo del pareggio di bilancio. Anche perché nella sue cessione dei suoi numerosi governi Depretis dovette far fronte alla contraddizione di un Paese costituzionalmente debole, alle prese con gli interessi di potenti lobbles agrarie, industriali e militari, che spingevano per una politica protezionista all'interno ed espansionista verso l'esterno. L'aumento delle spese militari, la guerra commerciale con la Francia, la modernizzazione ferroviaria, la Triplice Alleanza, la sconfitta di Dogali e le avventure coloniali, le difficoltà finanziarie, crearono le condizioni malsane per l'avvento del blocco di potere guidato da Crispi: una nuova alleanza, ha scritto impietosamente lo storico Giampiero Carocci, tra megalomani, protezionisti, fornitori della marina e dell'esercito. Un coacervo di sanguisughe (attive nell'Italia industrializzata, dunque fuori dal Sud) alimentate dalla spesa pubblica all'ombra del trasformismo avviato da Depretis e assurto a sistema, in seguito, con Giolitti: una pratica che Rosario Romeo definì il peggior male storico del nostro Paese.
Fin qui, per sommi capi, giudizi e pregiudizi inveterati sul Sud, e sul debito pubblico. Ora, qualcosa sembra muoversi. Lo ha messo in rilievo Emanuele Macaluso, militante di lunga esperienza e meridionalista di punta della sinistra. Ha scritto: "Sono stato invitato a Treviso, dalla Cisl, a partecipare a una tavola rotonda sul tema "Che ne facciamo del Sud?"... La città... ha oggi un sindaco della Lega... Da anni né i sindacati, né i partiti... hanno avviato, al Nord, dibattiti politico - culturali su un tema cruciale - il Mezzogiorno oggi - che è, a mio avviso, il solo modo per capire le radici del fenomeno leghista. Si preferisce spesso il richiamo retorico all'unità nazionale o irridere al bossismo anziché riaprire con coraggio e onestà il discorso sul Sud. Un Sud che ormai a molti, anche a sinistra, appare "irredimibile", per dirla con Leonardo Sciascia".
Il fatto che in un'isola del "profondo Nord" si metta il dito sulla piaga e si discuta di che cosa fare del Sud, sostiene Macaluso, non può che rincuorare. In larghi strati popolari del Nord i luoghi comuni, la "cultura del bar", hanno finito col prevalere e la memoria storica è stata cancellata con grande superficialità. E non ci si riferisce alla storia di Silvio Pellico o dei Fratelli Bandiera, ma alle ragioni, alle cause per cui il Mezzogiorno è nelle condizioni in cui è ridotto. "E quali sono le responsabilità delle classi dirigenti del Sud (pesanti) e di quelle nazionali (pesantissime)? Soprattutto si tratta di sapere e di capire se, alle soglie del Duemila, l'unità nazionale così come oggi si configura è utile al Nord e al Sud; se è giusto e possibile dare basi nuove a questa unità. Cioè, quali le comuni convenienze? E quali progetti politico-istituzionali si possono delineare? In realtà, la crisi italiana non è databile al 1992, quando esplode tangentopoli e si consuma la storia dei partiti nazionali. Ha origini più lontane, va ricondotta al momento in cui le classi dirigenti e i partiti non hanno più un progetto politico in cui è prevedibile uno sviluppo del Nord e del Sud".
Oggi si può fare un'analisi oggettiva di quanto si è verificato. Negli anni '40-'50 quei progetti c'erano e furono anche uomini del Nord che si posero il problema del Sud (si pensi ad Ezio Vanoni e a Pasquale Saraceno, l'uno e l'altro lombardi). Nacquero la riforma agraria, l'intervento straordinario della Cassa per il Mezzogiorno, la liberalizzazione degli scambi: si trattò di una "politica centrista", criticata da sinistra, perché era ritenuta una politica nazionale funzionale alla ripresa capitalistica del Nord. Ma anche l'opposizione ebbe un suo progetto alternativo: si pensi al piano di lavoro del pugliese Di Vittorio e alle lotte per l'industrializzazione del Sud. Si condividano o meno i progetti del "centro" e della "sinistra", sta di fatto che ci fu un dibattito culturale forte, a Napoli, a Bari, a Palermo, come a Torino, a Milano, a Firenze. Dopo la crisi del centrismo, anche il centro-sinistra con Moro, Fanfani, Nenni, Lombardi, De Martino, si affacciò con progetti e riforme volti a riaprire un ciclo di sviluppo: per il Nord che conobbe il "miracolo", e per il Sud che doveva essere miracolato. E anche dall'opposizione vennero progetti nuovi: si pensi al convegno promosso dall'Istituto Gramsci, promosso da Giorgio Amendola. Ma il centrosinistra esaurì la sua spinta propulsiva nel 1968. E per il Sud si configurò una politica di .,pacchetti" donati per erigere quelle che Montanelli definì "cattedrali nel deserto", con una industrializzazione fatta anche "da affaristi alla Rovelli". E il successivo tentativo di Moro e di Berlinguer di preparare il terreno per una fase diversa e un rilancio della grande politica finì in via Caetani, dentro una Renault rossa. Dopo di allora - e questo è il punto - non c'è stato più un progetto politico, né a destra, né al centro, né a sinistra, in cui il conflitto sociale, politico e anche territoriale trovasse una sintesi. Da quei giorni ha prevalso l'esercizio del potere per il potere, l'opposizione per le opposizioni, con momenti di scontro anche duro, ma senza progetti politici.
E' maturata in questo modo una crisi non soltanto del sistema, ma della politica, e sono venuti meno tutti i centri di regolazione dei conflitti sociali e persino dell'unità nazionale. Il Nord è diventato sempre più Nord, il Sud sempre più Sud, perché non c'è stato più chi governasse l'esigenza di uno sviluppo accelerato di nuove forze produttive al Nord e un ripensamento e un riordino delle politiche meridionali, compresa la lotta ai cartelli del crimine organizzato, in modo da non rompere il "compromesso" nazionale. E' da qui che si deve ripartire per riaprire un discorso al Nord e al Sud, proprio mentre sembra che ci sia sete di capire e di fare per venir fuori dal vicolo cieco in cui il Paese (il Nord più il Sud) si è cacciato.
Si avverte una inversione di tendenza. Ma attenzione: siamo ancora lontani dalla formazione di una nuova coscienza e di una nuova classe dirigente in grado di riprogettare l'unità nazionale su basi moderne. Tuttavia, uno spiraglio si intravede, e sarebbe imperdonabile non cogliere l'occasione. Il Paese intero è tenuto insieme da un filo sottile, fragile: se si spezza, non ci saranno più due Italie, ma due Italie estranee una all'altra. E non è questo che, in fondo, si vuole.


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