§ ORIENTAMENTI ISTITUZIONALI: FEDERALISMO & GIUSTIZIA

IL RITORNO ALLE REGOLE DI CONTEA




Claudio Alemanno



Quale modello di Stato emergerà dalle macerie dello Stato piemontese? L'abilità degli eruditi di Corte sarà certamente pari alle loro strategie di potere. Tuttavia bisognerà pur fare i conti con la Storia.
Nel nostro Paese il dibattito sulle autonomie locali ha sempre avuto un po' di Mazzini (prevalenti simpatie per la concezione unitaria dello Stato) ed un po' di Cattaneo (maggiore propensione per l'autonomia politica e la concezione federata dello Stato). Diffusa era anche l'opinione che per il Mezzogiorno ogni ipotesi di sviluppo dovesse rispettare la sua specificità affidandosi ad autonome competenze tecnico-amministrative.
Proprio Mazzini nell'ottobre 1860 invia a Napoli (la città era stata appena occupata dal garibaldini) due fidati giornalisti - Aurello Saffi e Filippo De Boni - con l'incarico di dare vita ad un nuovo giornale, portavoce della neonata "Associazione Unitaria Italiana". Nasce così Il Popolo d'Italia, che molti anni dopo seguirà ben altri percorsi sotto la direzione di Mussolini.
Il giornale raccoglie e amalgama le diverse anime della sinistra risorgimentale, compresi i federalisti repubblicani. Lo stesso Mazzini firma diversi articoli sulla questione delle autonomie locali riconoscendo l'importanza avuta dai liberi Comuni nelle vicende italiane. Il suo regionalismo è volto principalmente a salvaguardare l'identità culturale delle diverse aree geografiche.
Cavour invece ha del problema una sensibilità più orientata verso la salvaguardia degli interessi economici. Un suo discorso parlamentare (2 luglio 1850) è illuminante per la lucidità e l'impegno con cui, da liberale, persegue la "discentralizzazione" dello Stato.
Con accenti profetici afferma che "all'epoca in cui questa questione sarà portata al Parlamento si potrà facilmente dimostrare che dalla centralizzazione amministrativa nascono quasi tutti i mali della società moderna".
Dunque l'assetto federale dello Stato o il più modesto decentramento amministrativo disegnato dalla Carta Costituzionale del '47 hanno in Italia radici lontane. Questi modi di essere differenti della forma-Stato nulla hanno a che fare con l'unità nazionale che più propriamente attiene al fenomeno della identificazione popolare in una sintesi di valori comuni, nazionali appunto.
Tuttavia le fonti che attualmente ispirano e danno impulso all'azione della Lega, unico gruppo politico che con fare istrionesco ha trasferito il tema dalle biblioteche alle piazze, hanno matrici diverse e lontane dal dibattito che ha animato la storia risorgimentale e quella successiva. Ma ciò non costituisce sorpresa se già all'inizio del secolo Ugo Oietti faceva notare che "viviamo in un Paese di contemporanei, senza antenati né posteri perché senza memoria".
Forse la Lega non è un partito rivoluzionario (bontà degli altri). Forse è un partito che muovendosi nell'alveo della legalità costituzionale compie atti e fatti politici per porre un'ipoteca forte sui lavori della Commissione bicamerale o in altre sedi (bontà sua).
Occorre comunque riconoscere alla Lega la primogenitura, il merito di aver portato in mare aperto il dibattito sulla riforma dello Stato.
Il federalismo non è un feticcio da esorcizzare, ma un impianto costituzionale inteso come macchina per prendere decisioni politiche. Alternativa ovviamente all'attuale struttura centralista.
La tesi leghista di tenere distinto il concetto di Stato da quello di Nazione in modo da far emergere i valori culturali e gli interessi economici omogenei del Nord, dando ad essi capacità autonoma di gestione, non è né nuova né originale. Già nel 1985 Michael Hetcher nel suo Internal Colonialism Revisited elaborava la teoria delle moderne forme di colonialismo ancorate al concetto guida di una divisione "culturale" del lavoro. Seguendo il suo ragionamento, nelle nuove società industriali esisterebbe un gruppo sociale dominante cui fanno da corollario altri gruppi etnici periferici che finiscono per essere colonizzati. E' il caso dell'Irlanda, della Scozia, del Galles nei confronti della Gran Bretagna (in questi territori ci sono due lingue, gaelico e inglese, e due religioni, protestante e cattolica). Sullo stesso filone di pensiero si pone Anthony Mughan che arriva ad elaborare un progetto di revisione costituzionale per il Belgio, chiedendo maggiore autonomia per i fiamminghi (lingua tedesca) rispetto ai valloni (lingua francese), attuali detentori del potere dominante. Andando un po' indietro nel tempo si potrebbero citare anche le riflessioni di A. Lijphart sulla gestione di una democrazia nelle moderne società pluraliste.
L'idea guida che accomuna questi studi parte dal presupposto che le moderne democrazie sono composte da una pluralità di gruppi etnici, economicamente omogenei. Questi attualmente sono mortificati nelle loro potenzialità di sviluppo dalle entità statali cui appartengono e solo sulle ceneri dello statalismo possono acquisire maggiore autonomia (proprie scuole, propri tribunali, propri sindacati, proprie TV, ecc.). All'organizzazione sovraordinata (federale o confederale) vengono demandati compiti di tutela e di coordinamento.
Si rende in tal caso necessario un governo centrale con rappresentanze di singoli gruppi, un sistema proporzionale di ripartizione della spesa pubblica e un meccanismo di veti incrociati per consentire nelle decisioni più importanti la tutela dell'interesse generale e di quello dei singoli gruppi. Esempi più o meno riusciti di questo impianto costituzionale ci sono già (Canada, Malaysia, Sud Africa e, per restare in Europa, Belgio e Svizzera.
Questa ipotesi di lavoro non è agevolmente assimilabile dalla realtà italiana, caratterizzata a livello di Nazione da lingua e religione uniche e da insediamenti sociali dotati di microculture ben radicate che alimentano altrettanti sottosistemi economici ed amministrativi (leciti ed illeciti). L'esperienza storica dei Comuni e delle Repubbliche marinare avrà pur lasciato qualche segno! Nel quotidiano, un federalismo inteso come aggregazione di culture ed aree economiche omogenee esiste già e non si identifica necessariamente con l'attuale geografia regionale. Questo fenomeno è esploso con la crisi della grande industria di Stato che un tempo riusciva a dare respiro unitario e dimensione nazionale ad una molteplicità di interessi; del mondo del lavoro, della produzione, della finanza. Si pensi ai settori trainanti degli anni Sessanta, siderurgia e chimica, alla mobilità delle persone e dei flussi informativi che consentiva ad una moltitudine di soggetti operanti in aree territoriali diverse (Nord, Centro, Sud) l'acquisizione di aspettative ed interessi comuni.
La stessa contrattazione collettiva tendeva a promuovere istituti capaci di creare parità di condizioni su base nazionale.
I lavori delle attuali strutture trainanti (informatica e telecomunicazioni) sono più specialistici e comunque non hanno sufficiente capacità aggregante sotto il profilo sociale. Anche perché viene utilizzato un modello organizzativo più duttile, meno centralista e quindi più facile a produrre "economie di nicchia" all'interno di ciascun settore.
Il vuoto aperto dalla crisi della grande impresa si va colmando con la maggiore aggressività e autorevolezza della piccola e media impresa. Questa nuova realtà economica territoriale inevitabilmente accentua i fenomeni localistici con relativa domanda di maggiore autonomia decisionale. Bisogna quindi verificare se ai mutamenti intervenuti nei contenuti e nella distribuzione territoriale del potere economico corrispondano altrettanti mutamenti nella domanda politica. Se cioè viene privilegiata l'autodeterminazione rispetto al generale principio delle deleghe. Questa ricerca, condotta con referendum propositivi (art. 132 della Costituzione), con indagini sociologiche e quant'altro, non va confusa con l'aspettativa di decisioni per un ulteriore decentramento amministrativo. Sono fenomeni distinti che intrattengono sinergie ma sono portatori di istanze diverse (un esempio di federalismo in senso politico - oligopolio in senso economico - è già riscontrabile nel settore dell'editoria, TV e carta stampata).
Anche i partiti e i sindacati avrebbero interesse ad una verifica della volontà popolare sul tema, per qualificare meglio la loro capacità di rappresentanza in una società caratterizzata da rapidi e incisivi cambiamenti strutturali.
Se si va ad esaminare la struttura e la distribuzione territoriale del potere economico nei Paesi europei già dotati di costituzione federale (Svizzera, Belgio, Germania) si noterà un fenomeno singolare. A fronte di un sistema creditizio molto concentrato si ha un apparato industriale e di servizi che per organizzazione e numero di aziende presenta una distribuzione sul territorio più articolata ed equilibrata.
Tornando all'Italia, va precisato che il Paese culturalmente è cresciuto, non accetta più di essere dribblato quando è in gioco il mutamento dei suoi diritti fondamentali. La riforma elettorale, il rafforzamento dell'Esecutivo, la ricerca di percorsi semplificati nella dialettica Governo-Parlamento sono atti essenziali ma non esauriscono il tema delle nuove istanze politiche qualora venissero evidenziati precisi orientamenti federativi maggioritari. Nella tradizione americana Congresso e Presidenza sono rappresentati da maggioranze politiche di segno opposto. In questo modo l'elettorato ritiene di garantire meglio il freno e l'acceleratore del sistema, l'equilibrio tra i poteri e il controllo reciproco. La storia delle democrazie occidentali suggerisce che il momento elettorale sia tenuto distinto dai momenti successivi della sintesi politica. In Italia invece si respira un clima elettorale permanente che proprio dalle riforme attende una significativa battuta d'arresto per evitare nuove degenerazioni partitocratiche, confusione e sovrapposizione nei diversi ruoli istituzionali. Si avverte comunque la necessità di mutamenti articolati lungo l'arco dell'intero assetto istituzionale.
Lo impone il farraginoso impianto legislativo statale e regionale, l'inefficienza della Pubblica Amministrazione, la corruzione e l'emergenza criminale, l'anomala attività di supplenza istituzionale svolta dall'Autorità Giudiziaria, soprattutto nella zona grigia dei controlli amministrativi della vita economica. Un'indagine di falso in bilancio non può ricevere impulso soltanto dalla denuncia di un socio insoddisfatto o dalla solerte iniziativa di qualche Procura. Negli USA questo tipo di reato è raro perché funziona il deterrente dei controlli amministrativi, fiscali anzitutto.
Ma se è vero che l'Italia è tutto questo, se è vero che è il Paese occidentale con il più alto tasso' di statalismo cui si collega il più alto tasso di corruzione, bisogna impegnare le rinnovate sedi istituzionali per porre rimedio a questo primo, assillante problema.
Logica vuole che l'Italia di domani dovrà fare ricorso ad una drastica riduzione della sfera d'influenza del diritto pubblico, con conseguente affievolimento dei poteri e dei controlli ora attribuiti alla politica (un vero nodo gordiano per chi ora è in cattedra).
Il cittadino statunitense non conosce diritto e giustizia amministrativi. Egli vive e opera nelle sfere del diritto civile e penale, tenute peraltro distinte (non c'è la costituzione di parte civile nel processo penale).
La competenza del processo amministrativo è limitata all'esame dei provvedimenti disciplinari da adottare nei confronti di dipendenti pubblici o lavoratori autonomi autorizzati all'esercizio della professione (medici, avvocati, ecc.).
Il rinnovamento italiano non sarà più "flatus verbis" solo quando sulla logica del potere prevarrà la logica del buon senso. Ciò richiede una bonifica culturale ad ampio raggio e in particolare una nuova cultura giuridica non più soggiogata dal gusto estetico, dai condizionamenti accademici o dall'ossequio formale verso le camarille dominanti. Per produrre meccanismi legislativi atti a contenere gli spazi di potere e a gestire con poche leggi semplici e chiare (formula cara a Montesquieu) due realtà funzionalmente interrelate: l'Economia di Mercato e lo Stato di diritto.
Abbandonando la tradizionale tendenza al frazionamento dei concetti che alimenta figure giuridiche vaghe e indistinte, con "un color bruno che non è nero e il bianco more" (direbbe così il Sommo Poeta).
E' difficile ipotizzare il nuovo assetto istituzionale che uscirà dal cilindro dei politici. Certamente occorre uscire con urgenza dal modello colombiano del "plata y plomo" (denaro e piombo); da un patto sociale inquinato e inquinante, sorretto da segreti, ricatti, cospirazioni, pentimenti, delazioni, repressioni e sensi di colpa. Questa è l'altra faccia della corruzione, che Giolitti aveva già bollato con la cinica metafora: "Trovai un gobbo e non potevo vestirlo altrimenti che da gobbo". Fatalismo di bottega. Ieri come oggi la quotidianità degli italiani non si esprime con comportamenti indistintamente gobbi. Bisogna restituire al sistema i suoi limiti fisiologici e quindi trovare nuovi standard per l'etica, la morale, la deontologia professionale della classe dirigente (il rinnovamento esige anche il ricambio). Per costruire un nuovo patto sociale fondato sull'informazione e la prevenzione, fonti che vanno apprezzate e protette come beni giuridici primari (in questa direzione va il registro delle imprese telematico affidato alle Camere di Commercio che stenta ancora a trovare il giusto ritmo operativo). La trasparenza nella dialettica civile ed economica è il primo obiettivo da perseguire, il viatico per un nuovo modo di essere Stato e cittadini. Così recita l'oracolo della Speranza.
Naturalmente il sistema giudiziario (braccio operativo del rinnovamento), la sua organizzazione e il ruolo stesso dei suoi primi attori, giudici e avvocati, dovranno essere ripensati ponendo sotto osservazione una lunga lista di problemi: il riordino dei distretti giudiziari, l'utilizzazione ad ampio raggio del giudice monocratico, un più vasto e incisivo impiego delle giurie popolari (nei Paesi di tradizione democratica questo istituto è realmente popolare e popolato), la semplificazione dei processi e delle procedure, una definizione seria dei rapporti con la stampa, la revisione e il riordino dei codici e degli ordinamenti, l'attivazione di una vera cooperazione europea e internazionale.
Con l'esperienza del passato le novità in questo campo sono sempre arrivate usando la politica dei piccoli passi che non ha mai prodotto grandi risultati. Per l'ovvia ragione che il sistema non può recuperare efficienza se la montagna partorisce sempre topolini isolati, che corrono lungo corsie già ampiamente corrose. Si finisce per restare sempre in mezzo al guado. Come nel caso del processo penale, che dal suo esordio inquisitorio ha varcato il secolo andando sempre verso il sistema accusatorio senza raggiungerlo mai. E' illuminante in proposito la prefazione di Gian Domenico Pisapia al suo Lineamenti del nuovo processo penale e il più recente contributo di Daniel Sulez La Rivière - Il circolo mediatico giudiziario - sulle ragioni che in Francia renderebbero opportuna la separazione delle carriere tra PM e giudici.
In Italia intanto aumentano le sentenze della Corte Costituzionale che rilevano casi d'incompatibilità dei giudici, un segnale di chiaro significato politico.
Più grave ancora risulta essere la situazione del processo civile, dove la giustizia ritardata ha finito per produrre una giustizia delegata.
Comunque il "pacchetto" Giustizia è strettamente legato alle altre ipotesi di riforma istituzionale e va pensato a mente fredda, fuori dalle sedi dell'aristocrazia "wasp" predilette dai guastatori di professione.
Si avverte da tempo la necessità di un progetto organico, meglio se preceduto da un po' di pratica degli addetti ai lavori presso Ministeri e Tribunali anglosassoni per verificare sul campo altri metodi di lavoro consolidati lungo percorsi di antica e sicura militanza democratico -liberale (anche l'elezione dei giudici, che alle nostre orecchie acquista significato di anatema, soddisfa in fondo l'esigenza di un potere di controllo e di verifica esercitato direttamente dalla sovranità popolare).
Per trarre qualche insegnamento, non certo per sposare un modello "chiavi in mano". Non sarebbe compromesso l'orgoglio italico dal momento che la Gazzetta Ufficiale ospita da tempo la lingua inglese. E' utile e necessario tutto ciò che aiuta a sfatare miti demiurgici e riti partigiani e contribuisce a restituire l'Amministrazione della Giustizia alla sua originaria funzione di servizio gestito con il metodo costi-benefici. Così recita l'oracolo della Speranza.
L'organigramma delle nuove strutture giudiziarie dovrebbe anche considerare l'opportunità di istituire organi collegiali, composti da giudici ed avvocati, per monitorare costantemente l'efficienza e la qualità dei servizi resi al cittadino e proporre comuni progetti di perfezionamento normativo e organizzativo (il muro contro muro non giova a nessuno).
Nell'ambito della collaborazione internazionale si rende anche necessario seguire da vicino le vicende giudiziarie e di ordine pubblico di altri Paesi che in modo diretto o indiretto influenzano la vita civile della nostra comunità (Albania, ad esempio).
Sotto il profilo metodologico circolano autorevoli opinioni che vorrebbero affidare le proposte di riordino del sistema giudiziario ad un "tavolo tripartito" (maggioranza, opposizione, magistratura). Intanto, perché non "allargato" dando voce agli avvocati e ai cancellieri che avendo un contatto più diretto con i cittadini colgono tutte le sfumature dell'attuale disagio civile?
Tuttavia se questo "tavolo" non ha attitudini medianiche fruttuose, esprime solo un passaggio ulteriore della vocazione politica consociativa. E' vero che la legislazione "concordata" è una prassi da tempo utilizzata nel nostro Paese. Ma essa resta e deve restare evento patologico, proprio uno di quei fenomeni degenerativi che le riforme costituzionali dovrebbero eliminare.
Bisogna cercare sedi tecniche, con minore dipendenza politica.
Alla dialettica democratica si chiede invece un atto dovuto. Che dia voce legale ai valori emergenti nella società civile. Ma le ragioni della Politica sapranno entrare in sintonia con le ragioni della Società? L'oracolo della Speranza tace. E il logorio delle istituzioni continua.


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