§ RIFORMA DELLE ISTITUZIONI

FEDERALISMO DELLA SPESA




Franco Reviglio



E' stato correttamente osservato che il protagonismo di Bossi è il frutto residuale della paralisi mostrata dalle forze politiche di fronte al problema istituzionale, che presenta aspetti assai più ampi e complessi delle questioni dibattute della forma di governo e del semipresidenzialismo. I ceti produttivi chiedono una riforma dell'intervento istituzionale dello Stato che ne riduca gli eccessi, nella spesa pubblica e nel fisco, nel centralismo, nella regolazione burocratica e nei monopoli pubblici. Sinora non hanno trovato una risposta adeguata alla propria domanda.
Non aiuta molto a soddisfare la domanda sociale di cambiamento istituzionale il dibattito sulla riforma dell'esistente sistema maggioritario "spurio" e sulla forma di governo che si svolge tra gli addetti ai lavori secondo tempi e rituali incomprensibili al più e comunque con prospettive di realizzazione incerte e lontane nel tempo. I tempi delle riforme istituzionali sono tecnicamente lunghi e non possono essere abbreviati, se non altro per le procedure di tipo costituzionale talora necessarie. Un vero cambiamento istituzionale non può venire da singole innovazioni attuate con gradualismo, ma soltanto da cambiamenti radicali nella forma e nelle regole di funzionamento dello Stato, che portino a rifondare un nuovo e duraturo patto di identità e di solidarietà nazionale. Ma le innovazioni anticipatrici dovrebbero esser presentate come tali, riportandole in modo chiaro al progetto strategico sul quale le forze politiche della Bicamerale dovrebbero discutere e pronunciarsi. Le questioni sembrano essere sostanzialmente due, certo non indipendenti l'una dall'altra.
La prima questione è la riforma del sistema politico per passare dal maggioritario "spurio" a un sistema che garantisca la formazione di salde maggioranze e istituzioni forti, capaci di gestire il cambiamento superando i costi e le difficoltà che esso comporta.
La seconda questione è l'Introduzione del federalismo, vale a dire di una coraggiosa redistribuzione delle competenze di governo dal livello centrale a quello decentrato, accompagnata da una piena responsabilità fiscale, necessaria per rendere efficiente il controllo democratico della spesa pubblica e nello stesso tempo per rifondare un patto di solidarietà nazionale.
Un incisivo controllo della finanza pubblica richiede entrambe le riforme, perché solo con il completamento della riforma del sistema politico le scelte sulle grandi questioni economiche possono diventare univoche e tempestive, e perché solo grazie all'affidamento istituzionale di una maggiore autonomia politica e fiscale alle autorità decentrate rispetto al centralismo statale si può correggere l'eccesso di statalismo e di irresponsabilità. Purtroppo, la parola "federalismo" è priva di contenuto specifico ed è usata spesso a sproposito. Ne risente il dibattito tra le forze politiche che spesso utilizzano l'espressione secondo il loro interesse contingente, senza rendere visibili le proprie scelte.
Ma quali sono i termini delle scelte possibili? Tre sono le questioni aperte su cui ci si deve confrontare. La prima questione è definire quali funzioni e quindi quale quota della spesa pubblica debba essere attribuita alle amministrazioni decentrate. La seconda questione è decidere come e in quale misura le spese debbano essere coperte mediante l'attribuzione di tributi propri. Infine, si deve stabilire in quale misura e con quali meccanismi si debbano attivare trasferimenti perequativi tra le amministrazioni ricche e quelle più povere per compensare la minore capacità fiscale delle seconde.
Oggi la spesa pubblica delle amministrazioni decentrate raggiunge circa un quarto dell'intera spesa pubblica (13% del PII rispetto a 52%). Un obiettivo ragionevole sarebbe quello di aumentarla sino al 40%, portandola al 20% del Pil, con un trasferimento di funzioni dallo Stato pari a circa 120 mila miliardi. La responsabilità delle funzioni trasferite dovrebbe essere piena, per eliminare i fenomeni di formazione di disavanzi occulti che continuano a prodursi nella spesa sanitaria e per trasporti pubblici. Le nuove funzioni trasferite dovrebbero comprendere la finanza locale, l'assistenza, l'istruzione, i trasporti e gli interventi in campo economico. E dovrebbero essere accompagnate da risorse corrispondenti alla spesa già effettuata dallo Stato stabilite in quote di partecipazione a entrate erariali.
La quota dei tributi propri è oggi eccessivamente bassa per un esercizio efficace della responsabilità. Essa raggiunge il 60% della spesa, ma, se si escludono i contributi e le tasse sanitarie che sono riscosse dallo Stato, la quota si dimezza. Il trasferimento delle risorse apre la questione dei modi con cui accrescere il grado di autonomia tributaria allo scopo di attuare i principi di responsabilità e perequazione. La quota da raggiungere è necessariamente il risultato di un compromesso politico, perché dimensiona l'impatto dell'intervento perequativo.
Oltre che in una quota eccessiva, i trasferimenti sono stabiliti in modo poco trasparente e sulla base di criteri ampiamente arbitrari, basati sull'esperienza storica.
Sussistono grandi discriminazioni di trattamento tra le Regioni che non si riferiscono a oggettive situazioni di reddito. Alcune Regioni a statuto speciale godono di situazioni di privilegio difficilmente giustificabili. Il vincolo di destinazione spesso esistente irrigidisce e deresponsabilizza le scelte delle amministrazioni.
La questione della dimensione dei trasferimenti è politica e legata a quella del livello dei servizi pubblici che si deve assicurare in tutto il territorio nazionale. Le scelte da assumere spaziano tra gli estremi "eguali servizi in tutto il territorio nazionale" e "in ogni Regione solo servizi che quella Regione può finanziare". In ogni caso, il sistema esistente dei trasferimenti deve essere rivisto per restaurare il criterio di eguaglianza e di capacità contributiva, rimuovere le distribuzioni erratiche e Incentivare lo sforzo fiscale e la responsabilità degli enti decentrati. La soluzione da ricercare rappresenta un inevitabile compromesso di solidarietà contro la rottura dell'unità nazionale.
Su queste condizioni il dibattito politico è inadeguato, spezzettato e parziale. Non può essere considerata una risposta adeguata l'introduzione di una forte semplificazione nell'azione della Pubblica amministrazione e l'introduzione di un nuovo tributo a favore delle Regioni (ma sempre gestito dallo Stato), in sostituzione di un gruppo di balzelli minori. Queste riforme, sia pure opportune, non rispondono alla domanda collettiva di federalismo, anche se vengono presentate come sue forme di attuazione.
Poiché queste riforme non vengono inquadrate in un disegno chiaro dei termini in cui si intende risolvere la questione della rifondazione dello Stato attraverso il federalismo, esse non possono essere giustificate come fattori di anticipazione del grande progetto che richiede tempi più lunghi per essere definito. La mancanza di chiarezza e di visibilità del progetto di federalismo peraltro si estende alla maggior parte delle forze politiche. Di conseguenza, la risposta alla domanda di snellimento dello Stato è insufficiente e inadeguata nella sua impostazione. Il cittadino che richiede le riforme istituzionali non riceve segnali programmatici o di manovre anticipatrici che lo rassicurino. E neppure è aiutato dal quadro proclamato di stabilità politica.
Le difficoltà a disegnare il completamento dell'aggiustamento sul lato della spesa pubblica e il timore che le prossime leggi finanziarie non riescano a evitare operazioni cosmetiche o una tantum e nuovi inasprimenti fiscali finiscono per essere considerati un segno dell'incapacità dell'esistente sistema politico di gestire il necessario cambiamento, impedendo agli interessi particolari di bloccarlo.


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