§ IL CORSIVO

FEDERALISMO?




Aldo Bello



Forse pochi sanno che il Po è uno dei fiumi più navigabili d'Europa. Quanto il Danubio, il Reno, il Rodano, il Tamigi. Ma sono almeno quarant'anni che si dice di volerne fare un'autostrada d'acqua, e da quarant'anni non se ne fa niente. Intanto, il Reno è diventato un fiume operaio, un canale collega il Meno al Danubio passando per un'altura di 406 metri, i sistemi della Mosa, della Mosella, del Rodano e della Senna si sono integrati col sistema di trasporti su autoroutes francesi, i porti di Rotterdam e di Londra hanno i docks su imponenti e moderni bacini fluviali.
Niente di tutto questo per il "dio Po". Perché? Si racconta: lo impediscono le corporazioni degli agrari, degli allevatori e degli autotrasportatori, detentrici di massicci pacchetti di voti; la burocrazia ha una forza di resistenza imperforabile; l'esecuzione di lavori pubblici (di generale e vitale utilità) in Italia si misura in termini di secoli. Ma le Regioni non erano nate per rendere più snello e veloce ogni iter burocratico; per realizzare localmente le strutture primarie che lo Stato centrale trascurava; per far diventare più dinamici i sistemi di economie territoriali, i reticoli di servizi, i modelli di protezione civile e sociale? Allora: che cosa è accaduto? E' accaduto semplicemente questo: che alle burocrazie dello Stato, delle province e dei comuni si è sommata quella delle Regioni. In totale, quattro livelli che sono uno lo specchio dell'altro. Quattro centralismi incapsulati in un'unica paralizzante matrioska, con competenze incrociate, con fiscalità moltiplicate e sovrapposte, con apparati burosauri incomunicanti. Credevamo di essere cittadini di una Repubblica. In realtà ci sentiamo sempre più sudditi di una tetrarchia kafkiana.
Ora si discute di federalismo, e pare che proprio tutte le forze politiche, sulla spinta della Lega per l'Indipendenza di un ectoplasma geografico che chiamano Padania, si siano convertite al federalismo, ritenendolo la panacea del coacervo di emergenze (e di sofferenze) che assillano /a nostra esistenza. Solo qualche voce isolata si è fatta carico di chiedere: ma non è che si profilo una quinta burocrazia? Non è che si sta lavorando ad un'altra riforma all'italiana? No!, rispondono dalle anse del Po i secessionisti. E citano Cattaneo, il federalismo predicato da Cattaneo, l'Italia disegnata da Cattaneo. Senza mai aver letto Cattaneo. Soprattutto, senza mai aver letto.
Il pensiero di Cattaneo impone alcune precisazioni. Questo teorico del federalismo dettò le sue condizioni come risolutrici di una situazione internazionale, ma riferita anche ai problemi dello Stato nazionale. Il federalismo all'interno degli Stati nazionali e la Federazione Europea costituirono i poli attorno ai quali ruotò il suo programma politico-economico. Cattaneo ritenne opportuno concepire, in simultanea con la concezione di un'Europa federata, la trasformazione dell'unità nazionale in un insieme di organismi che si sarebbero dovuti configurare essi stessi come una sorta di Stato federale. In altri termini, agli Stati Uniti d'Europa affiancò gli Stati Uniti d'Italia. Un esempio concreto. In una con la nascita del Parlamento europeo dotato di poteri politici e istituzionali sovranazionali, si sarebbe potuta concepire la trasformazione di uno Stato unitario in uno Stato federale. Ciò poteva accadere in Francia come in Italia mentre la Germania, già organizzata prima della sua unità in un pulviscolo di Stati - come la Federazione Renana - possedeva in sé e nella sua vicenda storica una configurazione vicina a quella di uno Stato decentrato. Il che significava, in sintesi, che alla Federazione Europea, cioè a un gruppo di Stati nazionali che volontariamente rinunciassero a una parte della loro sovranità per dar luogo a una Federazione, avrebbe potuto far riscontro un maggior decentramento politico ed economico francese o italiano. Ma questo discorso "interno" presuppose di regola nell'autore del Politecnico la formazione di un potere politico sovranazionale, oppure le fu contemporaneo, ma non lo precedette. Esso, pertanto, poteva nascere all'atto della fondazione dello Stato sovranazionale federale, o immediatamente dopo, ma non lo anticipava e non costituì in assoluto un programma da realizzare isolatamente. Dunque: chi colga nel concetto di federazione cattaneana soltanto l'espediente politico per raggiungere di fatto la liberazione dell'Italia dallo straniero, non può comprendere il rapporto che attraversò il pensiero del protagonista delle Cinque Giornate di Milano tra la ricordata formula degli Stati Uniti d'Italia e quella degli Stati Uniti d'Europa. E quasi nulla è in grado di comprendere del federalismo di Cattaneo chi lo utilizzi come un espediente dì fuga solitaria, come un grimaldello per scardinare l'unità di una nazione, senza prima aver costituito quella del Vecchio Continente.
Allora va chiarito, una volta per tutte, che per questo gran lombardo la federazione non fu solo un mezzo per governare, o solo la soluzione per tentare costernanti salti all'indietro: al contrario, essa mirò a far avanzare economicamente e socialmente il popolo e, soprattutto, tese a dar corpo all'unica possibilità teorica della libertà, come tale applicabile a situazioni differenti, alla italiana come alla francese, e ovviamente a quella europea, a livelli insomma che da un punto di vista strettamente politico e diplomatico avrebbero potuto apparire fra loro contrastanti, mentre si rivelavano complementari, conciliandosi perfettamente con una concezione in sostanza libertaria.
In Giuseppe Ferrari, invece, il federalismo assunse un significato risolutamente polemico, rivolto contro le angustie del nazionalismo. Con intenti rivoluzionari, egli sostenne che il principio di nazionalità era un peso gettato dai partiti politici sulla bilancia per far trionfare i reazionari in base a "pretese ragioni della storia". E qui si avvertono palesemente gli echi del pensiero di Proudhon. Nella sua requisitoria Ferrari rimproverò fra l'altro agli Stati italiani il timore di somigliare ai Paesi esteri e di misurarsi con loro. Un timore che diventava quasi sempre un pretesto per rimaner chiusi nell'ignoranza e nell'oscurantismo e per dar luogo ad una sorta di provincialismo politico e culturale senza riscontro altrove. L'Italia, quindi, doveva impegnarsi nella rivoluzione per conseguire congrue riforme che la inserissero nel concerto dei popoli liberi e la associassero alla grande opera della libertà europea, affrancandola dai contatti con sovrani retrivi e con governi ancorati a una concezione feudale della politica.
Come la maggior parte dei pensatori aderenti alla corrente democratico-repubblicana e radicale, Ferrari fu nemico del decentramento amministrativo e parteggiò per un'indipendenza anti-unitaria e anti-napoleonica. Questo atteggiamento lo portò ad assumere posizioni nettamente contrarie rispetto a quelle di Mazzini, del quale biasimò l'eccessivo unitarismo destinato a gravitare verso la soluzione monarchica. Il federalismo e il decentramento economico e politico più coraggioso erano invece per Ferrari gli strumenti idonei a condurre verso la libertà, cioè verso la repubblica, a sua volta atta a realizzare una più ampia e completa forma di federazione libertaria.
Nel tentativo di superare ogni polemica, Giovanni Bovio asserì: "L'unità è monarchica, la sola federazione è repubblicana. Tutti i voti degli unitari possono essere adempiuti dalla monarchia, l'ideale dei repubblicani dalla Federazione di Stati". E, formulando un giudizio su Cattaneo e Ferrari, coneluse, sulla base di una riflessione sugli eventi passati e sulla verifica di molteplici processi di elaborazione ideologica: "Sino a quando l'Italia sentirà il beneficio e l'impegno dell'unità e le nazioni divise si leveranno a ricomporsi, in ogni lingua risuoneranno venerati i nomi di Mazzini e di Garibaldi; quando la giusta autonomia delle regioni, dei municipi e degli Stati nazionali si leverà a protestare contro qualunque tipo di accentramento, ricorderà subito i nomi di Cattaneo e di Ferrari. Quando infine il popolo sentirà il bisogno di darsi assetto nelle libertà federaliste e repubblicane ricorderà ciò che pensarono, dissero e operarono Mazzini, Garibaldi, Cattaneo e Ferrari".
In questo modo Bovio semplificò forse eccessivamente questioni politiche e ideologiche molto più complesse. Infatti, nonostante la passione risorgimentale e ogni tipo di simpatia per i repubblicani del secolo scorso, è difficile mettere sullo stesso piano esperienze culturali e programmatiche diverse e persino contrastanti come quelle che facevano capo a Mazzini, a Cattaneo e a Ferrari: sebbene le discrasie fra il primo e gli altri due emergano con maggiore evidenza, anche fra l'autore delle Interdizioni israelitiche e il Ferrari è poco agevole parlare in termini di identità. Ferrari, oltre tutto, ebbe un piglio radicalmente anti-nazionale che in alcuni momenti andò ben oltre le soluzioni federalisticamente articolate. E in ciò gli fu contiguo Giuseppe Montanelli, il quale avrebbe voluto trasformare lo Stato in una società particolare, "ordinata alla soddisfazione di alcuni, ma non di tutti i bisogni dell'umanità". Così si espresse, pensando addirittura a un futuro possibile del continente europeo: " Verrà un tempo in cui parrà strano che gli uomini s'ordinassero per province [ ... ]. I sapienti si legheranno coi sapienti, i commercianti coi commercianti, gli artigiani con gli artigiani, i credenti con i credenti nella stessa fede, e l'unità democratica umana nascerà dal libero intrecciamento delle attività, sarà effetto d'analisi e non di sintesi, di partizione e non di cumulazione [ ... ]".
Accadde, al contrario, che l'Italia, attuando il processo di unificazione, tenne d'occhio, sì, l'esperienza francese, ma non quella rivoluzionaria e dei giacobini, bensì quella che aveva fatto capo all'esperienza napoleonica. Il che significò imitarne l'accentramento nazionalista, eludendo l'idea libertaria proudhoniana. In altri termini, nacque uno Stato articolato non secondo le autonomie regionali (e sia pure delle Regioni disegnate dal dito di un funzionario sabaudo per fini puramente amministrativi e fiscali), ma secondo le province e le prefetture saldamente ancorate a Roma.
Il centralismo totalizzante dello Stato italiano viene soprattutto da lì, ma anche dal protezionismo che abbatté quel che di buono era stato fatto nel Regno di Napoli; dalla guerra civile (una strage eufemisticamente definita "lotta al brigantaggio meridionale") che seguì all'unità nazionale e dalla vera e propria "riconquista" del Sud; dalla necessità di far pagare a tutti gli italiani l'immenso debito che il Piemonte aveva contratto soprattutto con i banchieri e con gli speculatori francesi; dal bisogno di controllare i sommovimenti socialisti del primo dopoguerra mondiale; dall'ideologia mussoliniana che seguì; dal tipo di ricostruzione del Paese attuato nel secondo dopoguerra; e infine dal sistema bloccato dal doppio antagonismo della seconda metà del '900: quello interno fra forze cattoliche e marxiste; e quello internazionale, con una lunga guerra fredda che in certi momenti critici rischiò di esplodere in conflitto finale. Questo secolo XX, iniziato nel 1914 a Sarajevo e culminato nel 1989 sulle macerie del Muro di Berlino, per quel che ci riguarda da vicino ha messo a nudo l'intima fragilità delle, Italie geo-politiche (quelle che confinano fra loro e quelle che si fronteggiano per campanili), che pure con l'arte e con la cultura hanno illuminato, insieme, il mondo.
E' in questo contesto che riemerge il bisogno di federalismo, e di federalismo cattaneano: che coinvolga la penisola, ma nella sua totalità e in un progetto federale continentale che sia, al più, coevo. Al di fuori di questa il processo simultaneità non c'è alcuna realistica prospettiva di un'Europa degli eguali.
Parlando di, Europa, uno degli ispiratori del "Manifesto di Ventotene", Altiero Spinelli, metteva subito in guardia: attenti al rischio di confondere gli intenti culturali con quelli politici, conferendo spessore a movimenti e personaggi difficilmente riconducibili alla realtà, ai problemi e alle aspirazioni dei nostri tempi, quindi al federalismo. Meno parlate dell'Europa di Carlo Magno - ammoniva -, meglio è, perché col federalismo e con l'unione del continente Carlo Magno non ha quasi nulla a che vedere.
Niente di più vero. Anche se proprio durante l'età medioevale "Europa" fu termine che ebbe valenza mitologica e geografica, e per interi secoli parve destinato a sparire, per essere sostituito dal concetto di Cristianità occidentale, o di Occidente cristiano. Eppure, sostiene Ludovico Gatto riecheggiando Federico Chabod fu nell'Età di Mezzo che quelli che un giorno si sarebbero chiamati "europei" cominciarono a intuire, sia pure in modo vago, frainnientario e non programmato, che era possibile unirsi in vista del raggiungimento di comuni, significativi obiettivi.
Fu soprattutto quando, nel 1200, si fusero e confusero popoli, lingue e armi, contro cui si infransero le tribù asiatiche dei mongoli tartarici; fu quando, nel 1300 e nella prima metà del 1400, furono fermati i turchi che, caduta Costantinopoli, volevano portare le insegne della Mezzaluna fin nel cuore d'Europa; come era stato prima, quando si volle affrancare Gerusalemme dal dominio maomettano.
Bagliori, certo. Ma non trascurabili. Tanto da indurre Denis de Rougemont ad affermare lucidamente nel suo saggio Vingt-huit siècles d'Europe che l'unità del Vecchio Continente non poteva considerarsi una trovata dell'ultima ora, nata per finalità di carattere economico e politico contingente, ma rappresentava un ideale degli uomini migliori, perseguito da tempi lontani.
Sarebbe lungo percorrere la storia dell'idea d'Europa, anche sotto il solo profilo dell'unificazione federale. Ci basta accennare, con Chabod, che alla coscienza europea intesa come grande comunità spirituale da contrapporsi ai singoli Stati considerati come una sorta di "via che conduce al male" si può parlare fin dal XVIII secolo, con gli illuministi che tentarono di rappresentare una "Repubblica europea dei letterati", e con la Rivoluzione dell'89 che fece esplodere un sentimento di comunità continentale e un desiderio di azione politica tesa a un fine sovranazionale e unitario.
Henri Pirenne aveva osservato che la battaglia di Bouvines del 1215, nel cui ambito si erano contrapposti il blocco franco-romano-svevo e quello anglo-guelfo, aveva costituito la prima guerra europea, vale a dire il conflitto di un sistema di nazioni contro un altro sistema di nazioni. Da allora, gli europei si erano uniti tra loro per combattersi meglio. Insegnino la guerra dei Cento anni, quelle tra Carlo V e Francesco I, le campagne militari dei secoli XVII e XVIII...
Con la fine del '700 il discorso fu diverso. Proprio quando i sovrani occidentali preparavano una coalizione contro la Francia, Saint-Just sostenne che il vero problema era quello di mutare aspetto e anima dei governi europei: la Francia avrebbe dovuto opporre a chi la circondava il genio della libertà, sicché la libertà altrui divenisse garanzia di quella francese.
Non è che le guerre si allontanarono dall'orizzonte europeo. Vennero Napoleone, la Restaurazione, l'Ottocento del trionfo dei concetti di libertà e di nazionalità, il nostro secolo più tragico che grande.
Ma vennero anche, alla fine, la "Carta" di Ventotene, che entrò nell'ideologia democratica europea dopo esser penetrata in quella italiana attraversata dal pensiero di Croce, di Einaudi e di Martino; poi l'Europa dei Sei; poi ancora l'Europa sempre più allargata; infine l'Europa di oggi, che è quella di Maastricht, che ha stravolto il colore del cielo e della terra: perché l'Europa dell'integrazione economica ha eclissato l'Europa federalista, dando vita ad ipotesi metaprogettuali di separazioni dalle Capitali, di scissioni microregionali, di abbandoni di territori "arretrati", e di altri rozzi provincialismi che puntano a dissociare la propria dalle sorti altrui e ad entrare nell'Europa dell'euro, la moneta unica, mandando in soffitta l'autentica sfida che ha rappresentato, e rappresenta, l'originaria idea federalista europea. La quale tendeva a creare un'unione composita e originale che facesse giustizia di vecchie impostazioni, egoismi e privilegi; che fosse capace di imprimere vigore ad un nuovo processo economico; sì, ma soprattutto culturale e di crescita umana; che fosse in grado di assicurare la circolazione democratica delle idee. Che abbattesse, e non costruisse mai più, ghetti e muri.
Allora oggi è necessario porre con franchezza ai secessionisti italiani questa domanda: -Vogliono l'Europa degli europei - e di tutta la loro cultura e la loro storia -, oppure quella della Germania di Theo Waigel? -. E' un dilemma al quale non possono sfuggire. E anche se la risposta è scontata, vogliamo ugualmente riferire quel che sta accadendo in questi ultimi tempi.
Il dato di fondo non è, o non sembra oggettivamente essere, com'è stato scritto, quello della necessità di fissare alcuni parametri comuni per far compiere un deciso balzo in avanti alla "costruzione dell'Europa", ma quello di quali parametri stabilire, che è cosa del tutto diversa. Ora, è evidente che i criteri sono quelli voluti - e imposti - dalla Germania, attraverso il suo uomo forte, il ministro (non a caso) delle Finanze, appunto, Waigel. Il quale, addirittura, "stancatosi della sua stessa creatura, ha cominciato a chiederne la sostituzione, o almeno la correzione", con un'altra creatura, più rigida, cioè con la firma di un Patto di Stabilità che rende ancora più restrittivi i termini già fissati. Il rispetto del Patto dovrà essere affidato, come ha ingiunto "in modo autoritativo " Waigel, alla futura Banca unica centrale. Questa nuova torchiatura, sebbene in realtà miri a rassicurare i tedeschi che non vedono di buon occhio l'abbandono del marco, è giustificata ufficialmente con la "sfida della globalizzazione": con la resistenza alla crescente competizione industriale degli Stati Uniti e delle economie emergenti. Ma era, è, questo, il fine dell'unificazione europea? Non era, non è, quello di proteggere la nostra complessiva identità nei suoi vari aspetti, dall'integrità politica e territoriale alla personalità culturale (del tutto diversa, lo si voglia o no, da quella americana), alla specifica sensibilità sociale? Ridurre l'Europa a un blocco antagonista dell'America o dell'Estremo Oriente sul piano esclusivamente economico, nel cono d'ombra di regole dettate da un capitalismo selvaggio, è pura apostasia. E' come se, per conservare la propria vita, gli europei rinunciassero ad ogni ragione per viverla. Anche svendendo i propri antichi, e nobilissimi, valori.
Se proprio dobbiamo parlare di quattrini, cioè di puri e semplici strumenti economici che ci rapportano all'Europa, va subito messo in rilievo il fenomeno che ci riguarda direttamente e storicamente. Che è questo: da noi i governi che si sono succeduti a ritmi altrove inconsueti, anche quelli che si sono dichiarati europeisti senza condizioni, in realtà hanno mirato più alla propria durata che alla qualità della loro azione politica e di politica economica. Perciò siamo ancora, o più che mai, un Paese che vive al di sopra delle proprie possibilità; che raramente ha avuto una visione complessiva dei problemi interni, e di conseguenza non ha predisposto progetti organici di sviluppo o piani di riequilibrio delle finanze o sistemi di utilizzazione ottimale delle risorse; che sconta le pesanti responsabilità di quel male oscuro che ha colpito a lungo la società e che risponde al nome di trasformismo; e che assiste, quasi impotente, a pericolose degenerazioni istituzionali.
Tutto questo, e altro ancora, ci mettono - nella prospettiva europea, e sia pure dell'Europa integrata soltanto economicamente - sul livello della Grecia, e insieme con questo Paese, fuori dal concerto dei rimanenti tredici partners, i quali hanno attuato rigorose politiche di riordinamento dei propri conti, hanno rinnovato le classi dirigenti, abolito i boiardi di Stato, compresso l'illegalità politica ed economica, limitato le influenze nefaste di lobbies e corporazioni, tenuto a freno le smodate ambizioni di gruppi privati, messo in moto meccanismi propulsivi dell'economia e della società. Questo è il problema di fondo: non è che altrove, in Europa, non ci siano problemi, e anche rilevanti,- è che in Italia sembriamo riassumerli tutti, aggravandoli al di là di ogni misura, dopo mezzo secolo di blocco politico e sociale, durante il quale abbiamo fatto grandi cose, ma abbiamo prodotto anche danni forse irreparabili: che dobbiamo affrontare rifondando società, politica, istituzioni, senza presumere di poterli esorcizzare con riti posticci, celtici o bizantini che si voglia rifilare.
Ci sono porti delle nebbie, sul navigabilissimo e mal navigato Po, che adesso si ergono come accanite frontiere, città turrite, trincee murate, fra terre incomunicanti. Lì si è arenato, o è naufragato, il pensiero gramsciano secondo cui cultura e politica dovevano essere contemporanee. E' accidentale e di respiro corto quest'oscuramento delle coscienze, della ragione, dei sentimenti? Il feticcio che e il "dio Po", il vitello d'oro adorato fra acque contaminate dalle melme ego-economicistiche dei nobili decaduti e dei neo-ricchi abbandonerà il campo alle antiche magie, ai sortilegi incombenti che accomunavano fiumi, laghi, campagne, ciminiere; alla malia dei luoghi, dei climi, delle atmosfere che segnavano i temperamenti e i linguaggi? E ritroverò mai più i pescatori che alla confluenza del Mincio immissario offrivano pani di riso alla pilota e ruvide grappe; il libraio-rigattiere che distillava poesie fra i mantovani Portici del Broletto; il barcaiolo piacentino che issava i lucci a malincuore perché erano anarchiche creature del fiume; l'operaio pavese che coltivava fiori da portare al sacrario di San Martino il giorno dei morti; l'immigrato a Casale Monferrato che non aveva più le toppe ai calzoni; il giovane regista pugliese che vedeva nella "sua" Torino la città più verticale d'Italia?
Sono calate altre nebbie, dal Monviso alla Valle Padana. A banchi, almeno per ora: ma maligni, come le secche a pelo d'onda nei solari mari meridionali, e tanti, in uno Stivale disegnato più o meno dentro tredici meridiani e altrettanti paralleli. Sicché la risalita è insidiosa, e una volta raggiunti ghiareti e golene questo Po incute timore, induce a scrutarlo da lontano, a costo di perdere il contatto con la sua variegata e nuda terrestrità. Il sospetto è che tra una sponda e l'altra si stiano insinuando un senso di sfiducia, risentimenti che rischiano di mutare in rancori, desideri di divaricazione in derive opposte. Dovremo rileggere Bacchelli come un Tolstoi o un Reymont, esaltatori di virtù native e paesane, o come uno Zola o un Hugo, autori di grandiose narrazioni ambientate in una geografia senza determinazioni, una geografia di puro tono) Lo dovremo sentire straniero, figlio di un Mekong subalpino solcato da grotteschi fantasmi di sampan?
Nord e Sud hanno vissuto dapprima una storia accanto all'altra, poi una storia dentro l'altra. Due storie parallele e complementari che a volte si sono incontrate, e spesso confuse. Forse mai perfettamente fuse. Di qui l'infelicità, perché un'identità non può che essere nello stesso tempo diritto e verso dell'altra, altrimenti è moneta senza conio, a valore zero. Ora abbiamo, contigua, la terza storia, simultaneamente nostra e continentale. Ma ancora una volta sarà il Po a dirci quale direzione prenderemo, sboccando in Europa o confluendo nel Reno. Allo stato delle cose, siamo ancora ai giorni della Sibilla. All'ambiguo messaggio che nello stesso momento minaccia e rinfranca. Chissà. Non ha scritto Bukowski, proprio nelle sue Storie di ordinaria follia, che "nessuno perde l'anima del tutto ... "?


Banca Popolare Pugliese
Tutti i diritti riservati © 2000