§ MEMORIE DEL SECOLO

VARIABILI CORPORATIVE




Gennaro Pistolese



Anche per le corporazioni o per il corporativismo - due fattori diversi, ma non per tutti chiaramente - c'è una medaglia, con un verso da una parte, ma non uno solo, bensì tanti, dall'altra. Perché? Per la semplice ragione che anche le enciclopedie e i vocabolari, facendo a meno di disturbare storia e dottrina, ci forniscono tanti significati e rilevanze molto lontani e forse contraddittori tra loro. I vocabolari, ad esempio, ci dicono che la corporazione è un complesso di persone che costituisce un corpo distinto nella società. Una categoria a sé stante, cioè - aggiungiamo noi -oppure un ordine professionale, talvolta pure una sorta di lobby, in Italia, sempre, con gli occhiali neri.
Ma gli stessi vocabolari scrupolosamente aggiungono che la corporazione è anche un organismo che riunisce i rappresentanti dei lavoratori e dei datori di lavoro di una determinata categoria. In questo caso forse si riferiscono solo al corporativismo fascista, che, a parte le peculiarità di cui esso si è vantato, ha una ben diversa storia alle sue spalle e, secondo alcuni, davanti a sé.
C'era stato, infatti, un associazionismo all'epoca dei Romani, erano sopravvenute poi le corporazioni medioevali. In Italia, dopo la prima guerra mondiale, il cattolicesimo sociale lasciò gli schemi corporativi in favore del sindacalismo, che ne ha subìto o nascosto le suggestioni nelle sopravvenienze democristiane (ex o neo). Poi è intervenuto il fascismo, con la sua formula.
Le corporazioni sono state istituite nel febbraio del 1934, con 22 ramificazioni settoriali o merceologiche, con lo scopo - istituzionalmente mai conseguito - di realizzare l'autogoverno delle categorie produttrici e un economia associata sotto il controllo dello Stato. Nel 1927, però, era stata già creata una Carta del Lavoro, una sorta di statuto dell'ordinamento corporativo fascista, contemporanea o di poco successiva al cosiddetto accordo di Palazzo Vidoni, sede allora del Partito Fascista, che gettò le prime basi di un incontro-accordo tra Confindustria e Confederazione fascista dei lavoratori, solo però fino al 1934 unitaria sotto la guida di un leader, Edmondo Rossoni.
Ed oggi? Oggi si parla di corporativo in senso per lo meno sospetto e comunque il più delle volte negativo, perché starebbe a significare solo difesa intransigente di settoriali interessi, e a suo superamento si è escogitata la formula della concertazione tra governo e sindacato, nella quale c'entra ancora una volta lo Stato.

Pure contro "la vita comoda".
Tutto questo preambolo (che, come si vede, non dice nulla di nuovo, ma che a me nell'occasione ha fatto registrare qualche sorpresa, quando leggo ad esempio che Enrico Corradini, fondatore in Italia del nazionalismo, è stato anche uno degli ispiratori del corporativismo) tende a dare un certo spessore ai miei tentativi di "medaglioncini", che vengo ripetendo su queste pagine, con le mie molto marginali, ma personali, testimonianze.
Anche io infatti ho la mia da dire, per motivi di presenza generazionale. Le Corporazioni hanno avuto, non foss'altro che per ragioni di terminologia, una rilevanza sontuosa. La fantasiosità dannunziana di quei tempi ne faceva quasi una sorta di via dell'Impero del lavoro, ancora una volta garantito dallo Stato. Questo nelle intenzioni interveniva per mediare, in sostanza per concludere. C'erano naturalmente i lavoratori da un lato e gli imprenditori dall'altro, c'erano i rappresentanti del partito ai quali era stato attribuito il compito di difendere gli interessi dei consumatori, che anche i lavoratori facevano intendere di rappresentare, c'era un presidente che era espressione di governo e di partito. lo personalmente nella mia mente ne feci derivare la conclusione che il corporativismo altro non era se non la rappresentazione della lotta di classe gestita dallo Stato per conto dei lavoratori.
Ma questa mia conclusione non doveva essere esatta - per me invece lo è stata - perché alcuni decenni dopo ne ebbi la smentita da un mio vecchio compagno di lavoro. Eravamo stati insieme tra il 1935 e il 1938 alla Confederazione dei lavoratori del Commercio, io a dirigere l'Ufficio Corporativo e lui l'Ufficio Prezzi. lo passai alla Confindustria e lui si raccomandò a me nel mio commiato perché trovassi anche a lui uno sbocco. Lo trovai all'Ufficio Corporativo del Ministero dell'Africa Italiana, dal quale, cessato il ministero per mancanza di materia prima, egli fu trasferito all'IRI, dove poi è divenuto presidente della Finsider e così pure cavaliere del Lavoro, onorificenza allora notevolmente prestigiosa. In un incontro rotaryano ebbi occasione di parlargli della mia suddetta definizione, egli però la corresse con "nell'interesse dei datori di lavoro".
Era questa l'interpretazione che ne faceva come capo di un'azienda a partecipazione statale o era una constatazione che gli derivava quale ex dei lavoratori?
In sostanza, il corporativismo ha significato tante cose, ha avuto tante diverse interpretazioni e applicazioni. E' stato surclassato dagli organismi che in funzione della "rivoluzione continua", delle emergenze che si susseguivano l'una dopo l'altra (governo originario di coalizione, delitto Matteotti, Aventino, discorso del 3 gennaio, tribunale difesa dello Stato, difesa della lira, Patto a quattro, guerra etiopica, sanzioni, autarchia, intervento in Spagna, occupazione dell'Albania, economia di guerra, ecc.), accantonavano le Corporazioni e facevano intervenire nuovi comitati e commissioni, più o meno supreme, ma sempre presiedute da Mussolini. E queste commissioni avevano a che fare con i prezzi che dovevano essere controllati al millesimo ed ovunque, però erano battaglie nelle quali a vincere erano le mosche, come ammoniva una barzelletta del tempo; con l'autarchia, che doveva renderci impermeabili e sommamente sprezzanti rispetto alle sanzioni; con l'economia di guerra, che nella fase preparatoria e solo di qualche mese anteriore alla dichiarazione bellica era tanto efficacemente praticata da consentire nostre esportazioni di materiale bellico proprio ai nostri diretti e confinanti nemici. E così via...
Il corporativismo è stato questo. Con le critiche che riguardavano l'assoluta mancanza di democraticità, perché nessuna carica era elettiva. Nel "fior da fiore" che si può stralciare dalle segnalazioni riservate fatte a Mussolini e da lui conservate nel proprio archivio personale, c'è naturalmente anche una parte concernente Balbo e pure le sue frequentazioni. Vi si legge tra l'altro: "Balbo in un incontro tra amici ha detto: "Il popolo non ha alcun mezzo per far sentire la propria voce. Non ha lo sfogo necessario. lo sono contro le investiture dall'alto. Il Capo lo sa. Tutto l'ordinamento sindacale e corporativo non è che una sovrapposizione di funzionari. Le categorie devono essere rappresentate dai loro uomini"". E nella segnalazione a Mussolini si riferisce che Fontanelli, suo interlocutore e di cui dirò più innanzi, gli ha risposto: "Io invece per le assemblee dei chirurghi e non dei malati", provocando la replica di Balbo con un "Io invece sono per le elezioni. Le elezioni sono un termometro, servono a misurare la temperatura del popolo".
Il corporativismo, non già ai suoi albori ma sulla tormentata via della sua conclusione, aveva a che fare con queste riflessioni. Con le speranze di taluni. Uno di questi, Edmondo Rossoni, dopo il suo trasferimento da leader dei lavoratori a ministro dell'Agricoltura, ebbe a dirmi che la rivoluzioni o si sarebbe fatta, lì al suo ministero, o non si sarebbe fatta mai. Con le delusioni e le magiche attese di qualche altro. Uno di questi era il già ricordato Luigi Fontanelli, ferrarese direttore del quotidiano dei lavoratori, che ebbe a dirmi che ci sarebbe stato sempre bisogno del corporativismo, del suo corporativismo, pur denominato semplicisticamente e solo "granita di caffè con panna".
Tante facce, dunque, sul retro di questa tormentata medaglia. Per cercare di capirne di più, forse si può fare riferimento anche alla filosofia, e nell'occasione alla definizione di fascista. L'aveva fatta ovviamente Giovanni Gentile, ma quella che ho sotto mano è quella dello stesso Mussolini e di Emil Ludwig, autore quest'ultimo degli editorialmente tormentati (la prima edizione mondadoriana ufficiale fu tolta dalla circolazione per i postumi pentimenti di Mussolini) Colloqui con Mussolini. La frase è questa: "Quando un filosofo finlandese mi pregò recentemente di illustrare in una frase l'essenza del fascismo, io scrissi in lingua tedesca queste parole inequivocabili: "Noi siamo contro la vita comoda"".
E secondo me il ripudio appunto della "vita comoda" ci ha dato anche questo corporativismo, che nel corso dei secoli in una maniera o nell'altra - si chiamasse pure granita di caffè con panna - ha tentato e tenterà di trovarsi uno spazio. Oggi ha naturalmente le sue nuove strategie: concertazione, fare sindacato, solidarismo economico, welfare, ecc: perciò, nulla di nuovo sotto il cielo. Fin qui abbiamo indugiato, immaginariamente e rapidamente sfogliando un grosso libro o scorrendo alla moviola un più o meno lungo metraggio.

Il sistema mezzadro del regime
Io a mia volta c'entro così. Nel gennaio del '35, già giornalista dal '28, divenendo capo dell'ufficio corporativo della Confederazione dei lavoratori del commercio, e con le Corporazioni funzionanti solo perché da pochi mesi istituite, cominciai a redigere le mie relazioni sui tanti temi e problemi allora in discussione, cercando di esporre gli interessi diretti e genericamente indiretti delle categorie rappresentate e intervenendo alle riunioni quando ne era assente il presidente della mia Confederazione, e in sua vece. I temi erano tanti, i problemi reali erano di meno, le risoluzioni che comunque dovevano essere unanimi di meno ancora. La fantasiosità regnava sovrana, perché il lavoro delle corporazioni doveva essere massiccio. Gli imprenditori da una parte cercavano di prendere e dall'altra cercavano di ridurre al minimo le estranee ingerenze. In quelle Corporazioni giravano grossi nomi, fondatori non solo di aziende, ma di industria. C'erano i Donegani, i Pirelli, i Falck, i Costa, gli Olivetti (Gino), i Marzotto, i Marinotti, non c'erano gli Agnelli, a differenza, oggi, dell'Avvocato. I lavoratori, dal canto loro, avevano problemi non sempre consistenti, perché quelli più incisivi venivano affrontati dal Comitato Corporativo Centrale. E perciò erano impegnati a condizionare il più possibile i problemi formulati dagli altri. Le definizioni che ne derivano avevano come arbitro, più che il presidente della corporazione, la burocrazia del ministero, che offriva soluzioni dettate dalla interpretazione sia tecnica, sia di cosiddetta opportunità, sia di "utilità generale", sia di "equilibrio", sia di socialità, e così via.
Termini questi sempre attuali, immortali addirittura, ricercati e tentati in ogni tempo delle società, delle culture, dei sistemi, dei linguaggi, delle civiltà. (E non so se ho tralasciato qualcuno dei valori da menzionare). In queste condizioni non si può certo dire che le Corporazioni, il corporativismo e così via, abbiano costituito fattori di storia e di trasformazione della società. Perciò non sono state motore, ma forse un diversivo, certamente un tentativo terapeutico di calmante. I binari della storia di quegli anni erano altrove. Però ufficialmente in taluni periodi si faceva credere o si credeva che fossero anche lì: in quel littorio Palazzo delle Corporazioni, che oggi è sede in via Veneto del ministero dell'Industria, del Commercio e dell'Artigianato (qualifica quest'ultima alla quale anni dopo mi è occorso di concorrere a determinare).
Comunque, allora i Palazzi erano diversi, ma anche allora, come oggi, ne conta uno solo. Allora era a Piazza Venezia, oggi è quello della riverita (non da me) immagine di Pasolini. La dittatura evidenziava un grande salone e un balcone, la democrazia oggi la stanza dei bottoni, gli scheletri negli armadi, ecc.
In questo contesto s'inseriscono i miei "medaglioncini", che riguardano Gino Olivetti, Ezio Maria Gray, Riccardo del Giudice, Alessandro Pavolini, Domenico Giampietro Pellegrini, Vincenzo Buronzo. Tanti manzoniani "chi era costui?", con l'eccezione per Pavolini, che, come si sa, dopo Mussolini è stato il primario della Repubblica di Salò.
Gino Olivetti, che non ha mai avuto a che fare con il più famoso Adriano, è stato una molla della nascita della Confindustria, che risale al 1919 e certamente ha avuto la sua fucina a Torino, da cui si è trasferita a Roma, avendo appunto in Olivetti, avvocato, il suo primo e abbastanza duraturo segretario generale. Ne perdette, infatti, l'incarico nel corso del '34, allorché il regime con la nascita delle Corporazioni mutò anche la strutturazione delle organizzazioni di categoria. Nell'occasione, per le categorie imprenditoriali fu sostituita anche la figura del segretario generale con quella del direttore generale. Si disse che una delle ragioni di questo mutamento di denominazioni e quindi di funzioni sia stata anche la poca simpatia del regime, cioè di Mussolini, per Olivetti, definito allora "malinconico signore", quando invece erano più "regolamentari" l'entusiasmo, le divise, le ganasce possibilmente volitive e via dicendo.
C'è tutta una bibliografia illustrativa della nascita della Confindustria. Essa è tuttavia largamente incompleta, perché molti fatti pur importanti si sono esauriti nella loro documentarietà in una tradizione orale che è finita, e perché le superstiti tracce sono molto sommarie e si affidano anche a computers, a capacità molto occasionale di raccolta di dati (per esempio, i miei 40 anni di lavoro alla Confindustria, con incarichi di un certo rilievo -cui faccio cenno solo perché la mia età avanzata mi porta sempre più lontano, disincantato dal passato - trovano traccia nei computers confederali solo perché nel 1946 sono stato direttore responsabile de La Gazzetta per i Lavoratori, voluta allora dal presidente della Confindustria, Angelo Costa, con uno scopo di dialogo imprenditoriale per i lavoratori, che a quei tempi era tutt'altro che accettato e gradito dalla CGIL di Di Vittorio. Frequenti a quei tempi mi giungevano minacciose, anonime naturalmente, reazioni degli operai di Sesto San Giovanni o dei portuali di Genova).
Delle radici della Confindustria, a indicazione del clima e delle ragioni, mi piace riportare una dichiarazione del cav. Agnelli (allora veniva preceduto da questo titolo) sul finire del 1918, nella quale dopo la sottolineatura dell'impegno esplicato nella guerra vittoriosa, si afferma: "A questo notevole sforzo industriale, a questa efficace collaborazione, il governo ha contrapposto tasse, sopratasse e purtroppo anche talvolta intralci di vario genere sullo svolgimento del difficile compito: tasse ed intralci che possono non soltanto arrestare a breve scadenza lo sviluppo di questo potente e sano organismo, ma che possono anche gravemente pregiudicare il suo avvenire". Agnelli si riferiva alla Fiat, ma il richiamo riguardava l'industria tutta intera, in rappresentanza naturalmente anche delle aziende medie e minori, la cui voce era allora molto tenue.
La filosofia, o se più vi piace la strategia della Confindustria, si può rilevare più o meno con gli stessi termini negli anni successivi, con le varianti di modulazione che i tempi hanno determinato.
Gino Olivetti ne è stato interprete, un motore non secondario, a Roma, prima come ho detto quale segretario generale della Confindustria, e poi, con cambio della guardia, presidente dell'Istituto cotoniero italiano a Milano e vice presidente della Corporazione tessile a Roma.
L'ho conosciuto, gelido come sempre, nell'esercizio di questa funzione in una riunione della Corporazione del 1937. lo vi rappresentavo il presidente della Confederazione dei lavoratori del commercio, e proposi all'attenzione di quell'assemblea l'opportunità di applicare sui tessuti autarchici di quei tempi (c'era addirittura il lanital, un tessuto ricavato anche con la caseina del latte!) un'etichetta indicativa della composizione dei tessuti. L'idea me l'aveva suggerita un agente di commercio, appartenente alle organizzazioni di categoria che rappresentavo, e io ne avevo fatto oggetto di una relazione ad un convegno del tessuto autarchico che si era da poco svolto a Forlì. Orbene, Olivetti, che delle proposte di quel convegno era informato, bruscamente interruppe la discussione, quasi attribuendomi un'indebita pretesa. Una "pretesa" che da mezzo secolo è mondiale etichetta. Gli industriali però, allora, a parte i grandi marchi delle singole grandi imprese, non ammettevano questo tipo di vincolo, normativo o da authority, che in quei tempi non era stata ancora inventata.
I miei primi approcci, contrapposti come si vede, sono stati questi.
Altri erano derivati prima dalla mia conoscenza e partecipazione all'attività corporativa, che illustravo e commentavo anche giornalisticamente quale professionista.
Un nostro collega, Italo Minunni, che in quegli anni dirigeva L'Organizzazione Industriale e disponeva di scarse fonti interne di informazione, si rivolse a me perché gli fornissi delle note sull'attività delle corporazioni. Ad un certo momento, la Confindustria, a mezzo del suo vicesegretario generale, notò alcuni miei articoli sulle riviste del tempo, in cui suggerivo l'applicazione della legge sulla disciplina dei consorzi alle compagnie che gli industriali venivano istituendo per la valorizzazione dell'Impero nei singoli comparti: trasporti, mineraria, tessili, credito, ecc. Il vicesegretario voleva farmi sapere che queste compagnie erano volute da Mussolini e subite dalla Confindustria, come uno sforzo da compiere a tutti i costi per dovere di bandiera o meglio di "gagliardetto" (l'insegna dei fasci).
La Confindustria, tra l'altro, aveva dovuto costituire anche un Ufficio Africa, come dopo ne aveva dovuto costituire un altro per l'Albania. lo invece dal canto mio continuai ad avanzare la stessa proposta, tra l'altro ad un convegno africano che si svolse a Firenze, perché avevo una mentalità giuridica che, senza che me ne accorgessi, aveva avuto a che fare con i grandi maestri del diritto della Sapienza della seconda metà degli anni Venti.
I modi di essere, quello di Olivetti da una parte e quello di un giovane qualunque come me inserito in un'organizzazione di lavoratori (un mio collega e amico era ai lavoratori dell'industria, ed era Vittorio Zincone, un altro al commercio ed era Dino Gardini) dall'altra, erano questi e possono oggi servire da punto di riferimento, molto elementare, per definire il clima, i veri limiti, le insufficienze di strutture, per le quali anche oggi si ricercano nuove realmente giuste e valide strade, come d'altronde le leggi del progresso impongono.

L'unanimità obbligatoria
E spostiamoci in un'altra corporazione: quella delle Professioni o delle Arti, in una riunione sul finire del '37, in cui rappresentavo come al solito il presidente della Confederazione dei lavoratori del commercio.
Il vicepresidente era l'on. Ezio Maria Gray, che negli anni precedenti era stato presidente dell'Istituto Luce o della CIT, non ricordo se dell'uno o dell'altro ente.
Questo tipo di enti piaceva molto al regime, che ne costituiva con assidua larghezza. Gli istituti nazionali allora erano perciò tanti. Un mio amico dirigente nel mascherare con l'irreperibilità il proprio assenteismo si limitava a dire che andava all'istituto nazionale. Gli istituti di più facile costituzione erano quelli superflui e perciò erano i più ambiti, anche perché sono proprio quelli che hanno una vita più lunga. Un mio zio, legale del Consorzio per i danneggiati del terremoto di Messina del 1908 -che ritengo tuttora esistente - ha trascorso in esso 40 anni della sua vita di lavoro. Ritornando a Gray, egli come presidente del suddetto ente una decina di anni prima, in rettifica del secondo articolo della mia vita non ricordo se riguardante la cinematografia o il turismo coloniale, si rivolse al direttore, accennando a me quale "illustre collaboratore". Ma io, principiante e sconosciuto, avevo solo 18 anni ed ero - come ho detto - al secondo articolo della mia vita. In verità, le vie politiche dell'adulazione, per natura sempre insincere, sono infinite...
In questa corporazione, la persona divenuta poi rilevante era solo Alessandro Pavolini, allora presidente della Confederazione dei Professionisti ed Artisti. La categoria che a me interessava era quella dei dipendenti da studi professionali, che poi altro non erano, non già le segretarie di adesso che non esistevano, bensì le tanto sempre indispensabili dattilografe, talvolta allora anche stenografe.
L'ordine del giorno era stato tutto svolto, quando nel passare alle varie vi si tentò inopinatamente d'inserire il tema: disciplina del contratto di lavoro dei dipendenti da studi professionali. Chiesi e ottenni la parola per domandare il rinvio dell'argomento ad altra riunione e con preventiva precisazione del tema, non avendo io avuto istruzioni al riguardo. Il diretto rappresentante della categoria preferì un pigro silenzio. Il vicepresidente dal canto suo tentò di far proseguire lo stesso la discussione e io continuai invano a reagire. L'unico a schierarsi dalla mia parte fu il rappresentante dei lavoratori del Credito, che era Pellegrini-Giampietro, divenuto a Salò ministro delle Finanze. Di questi - ma io non l'ho mai conosciuto personalmente - molti, anche antifascisti, hanno parlato, e pure recentemente, bene.
L'ultimo volume Mussolini a Salò del collega Marco Innocenti edito da Mursia reca un capitolo dedicato a "Pellegrini Giampietro, il napoletano", nel quale tra l'altro si legge: "Pellegrini, che sembra un azzeccagarbugli del profondo Sud, ma che in realtà è un esperto di economia di valore internazionale, riesce a convincere il duce che si può amministrare in stato di guerra senza infierire con le tasse. In Consiglio dei ministri è il favorito di Mussolini perché contrappone i suoi numeri rasserenanti ai tristi rapporti dei colleghi sulle miserie della zoppicante repubblica. Tutte le mattine il duce risponde al saluto del segretario Dolfin con la domanda: novità? A Pellegrini, invece, chiede: quali buone novità mi portate?, segno di un idillio cerebrale e di una fiducia inusitata".
E altre frasi del libro proseguono con la stessa intonazione: di essa nulla so naturalmente delle motivazioni, perché la mia memoria mi ricorda solo un apprezzabile segno di solidarietà in un ambiente e in una occasione che a me era ostile, perché giovanissimo e orgogliosamente reattivo ai "basta" di Pavolini.
Ma il basta dovette essere risolto a quel punto dell'ordine del giorno, in forza della mia messa a punto, secondo la quale ogni decisione in merito anziché approvata all'unanimità, come era nella prassi corporativa, avrebbe dovuto registrare anche un no, il mio. Un'eccezione del genere, l'unica in tutta l'attività corporativa, convinse soprattutto il direttore generale delle Corporazioni, Anselmi, che a liberazione avvenuta fu prescelto da Barzini come suo braccio destro a Il Globo, da lui fondato. E così la riunione finì con un nulla di fatto.
E qui posso inserire il mio "medaglioncino" di Riccardo Del Giudice. Egli era il mio presidente ai lavoratori del Commercio. Perciò riferii a lui quanto era accaduto e quanto avevo ritenuto di dover fare. Protestò subito telefonicamente con il ministro delle Corporazioni di allora, Ferruccio Lantini, che avevo conosciuto all'ICE che lui presiedeva, parlandogli di alcune mie idee (e lui mi disse che le apprezzava ma non faceva al riguardo gli "occhi di triglia": una frase poco in voga anche allora, ma lui di mare doveva intendersene, perché era genovese). E io naturalmente ne rimasi soddisfatto. Sennonché alcuni giorni dopo Del Giudice, incontrandosi con Gray a Montecitorio, fu esortato a non mandare più quel ragazzaccio (che ero lo) alle Corporazioni. Non fu Del Giudice a parlarmi di questo fatto, ma una certa, pur ridotta, mia quarantena la notai. Ma subito dopo però fui anche designato quale consigliere della corporazione del Legno, come rappresentante dei lavoratori del commercio del settore. Ero e tuttora sono del tutto incompetente in questo campo, né alcun particolare hobby in materia è venuto successivamente ad aiutarmi.
Ma chi era Del Giudice? Aveva una laurea in filosofia ed era stato dirigente in materia sindacale dei lavoratori dell'industria. Nel '34 venne nominato presidente dei lavoratori del Commercio, con gli occhi sempre aperti agli studi, alla cultura, all'efficienza professionale. Fece largo ai giovani e tra questi ebbi a trovarmi anch'io, che già scrivevo sui giornali, ma non ero certo pratico di uffici e quindi anche di apprendistato nel comando.
Riccardo Del Giudice è stato il mio primo maestro al riguardo, anche se gli uffici non mi piacevano, perché mi sembravano delle prigioni. Allora si lavorava in certi uffici una decina di ore al giorno e il sabato fascista (cioè la sospensione del pomeriggio) faceva i primi balbettii ed anzi, per i vertici pure molto minori o aspiranti tali, se ne esigeva l'inosservanza.
Del Giudice era di una parsimonia amministrativa quasi ossessiva. E' stato l'ultimo capo di un'organizzazione sindacale ad essere dotato di un'auto che più utilitaria e di seconda mano non c'era. Ha acquistato il palazzo confederale di via Lucullo con pochi milioni di faticoso risparmio, che era pure il frutto dei nostri molto ristretti risparmi. Poi ha capito che la laurea in filosofia era servita fino ad un certo punto. E ad essa aggiunse una laurea in giurisprudenza.
Bottai, ministro dell'Educazione nazionale, lo volle con sé in qualità di sottosegretario. E lui, che ne condivideva le idee, ne seguì pure le sorti di declino, alle quali per quanto lo riguardava reagì specializzandosi in Diritto marittimo, divenendone uno dei maggiori esperti italiani. Un esempio, perciò, e una testimonianza offerta da un uomo del Sud, perché lui era di Lucera.
Nel '38, con un'offerta che mi veniva dalla Confindustria per divenire capo dell'ufficio Studi e Stampa dell'Artigianato, mi accomiatai da Del giudice, che ne fu sorpreso e addolorato, ma egli mi indirizzò una lettera che è tra le pochissime cose che conservo, e di cui intimamente mi compiaccio. Agli anziani come me sono permessi questi ineleganti vuoti di modestia. (Gli inglesi dicono che se non si sa essere eleganti, si sia stravaganti, e perciò nel caso mi affido a questa dirimente).
Più tardi, quando ero direttore di un quotidiano, Del Giudice mi inviò un libro edito da Cappelli dal titolo Giuseppe Bottai - Scritti, che lui aveva promosso e curato. Un libro stampato nel gennaio 1965, con una semplice premessa: "Un gruppo di amici di Bottai decise di ricordarlo con una raccolta dei suoi scritti più significativi che desse testimonianza dell'uomo, della sua opera e dei tempi eccezionali in cui visse. Sia qui fissato il ricordo della sua cara persona e delle sue rare virtù di cultura e di semplicità". Due parole che Del Giudice attribuisce a Bottai, ma che io riconosco pure, per lunga e diretta frequenza, più consapevolmente a Del Giudice. Non so quanti altri abbiano lasciato scritta testimonianza di questo uomo, ma la mia età mi consente di farlo ancora oggi.
Un'altra persona, ancora, che rientra in questi miei "medaglioncini", è Vincenzo Buronzo, che è stato capo dell'Artigianato per un quindicina di anni: dalle difficili origini dell'organizzazione a tutto il 1939. Era un perfezionista nell'estetica, nella quale faceva rientrare la poesia, l'eloquenza, le arti pure minori. Un discorso prima lo scriveva e lo riscriveva, e poi lo diceva. Un articolo di due colonne per un foglio artigiano comportava sette-otto ore di clausura in una stanza.
Aveva capito che in quegli anni gli artigiani d'arte non dovevano avere le briglie sciolte, ma dovevano disporre almeno nella fase iniziale di prototipi predisposti da artisti e da architetti da riprodurre. E così nacque la Mostra nazionale dell'Artigianato a Firenze e nel corso del tempo i prodotti artigianali sono diventati degni del "made in Italy". Anche io ho avuto la ventura di conoscere e condividere per molti anni nella dirigenza dell'organizzazione artigiana questa forma di apprendistato. Mi è capitato anni dopo di ascoltare la replica ad un mio sussurro di critica ad un orrendo manufatto artigianale che veniva offerto a Piazza Navona: "Secondo lei, allora, l'artigiano deve morire?". lo pensavo invece che dovesse e debba veramente vivere.
Buronzo era tra i partecipi della seduta della Corporazione di cui prima ho detto. Era silenzioso, ma evidentemente attento, perché nell'accogliere mesi dopo la proposta che gli veniva fatta da me qualche Capo ufficio stampa dell'Artigianato ebbe a compiacersene, perché aveva notato l'energia del mio comportamento in quell'occasione. Un riconoscimento al quale l'anziano può richiamarsi secondo me quando vede o pensa alle cose da mettere nella valigia di partenza. Una valigia che il partente non perderà mai e che i superstiti non cercheranno mai tra le cose smarrite, perché di smarribile sostanzialmente non c'è niente.
Anche per Buronzo c'è stato il cambio della guardia: a Palazzo Venezia. Era in predicato per divenire cancelliere dell'Accademia d'Italia, ma non se ne fece nulla. Mussolini, nel presentare enfaticamente il subentrante, riferendosi a Buronzo ebbe a dire solo: "Era un poeta ... ", e si accompagnò con un gesto di mano. Ma a Mussolini piacevano i poeti? Che dice l'odio-amore per D'Annunzio? Vale la barzelletta che il "vate" era come i denti, che perché non facciano male devono essere riempiti d'oro?
Le persone che qui ho ricordato così hanno vissuto le Corporazioni che vi sono state nel tempo passato; per me quello di un giovane che cominciava, che non frequentava i littoriali della gioventù, che non scriveva su settimanali di battaglia, che si era creato uno spazio quale editorialista, come si dice oggi, in materia coloniale. Ho parlato perciò, molto modestamente, ai margini di un contesto che le persone rievocate hanno in questo modo animato.
Anche io ho avuto occasione, dal mio ambito africanista, di parlare dei lineamenti anche corporativi scaturiti dalla nuova economia dell'Africa Orientale Italiana sopravvenuta nel 1936. Ne è derivato un libro l'anno dopo, pubblicato dallo stesso editore che aveva pubblicato il primo volume di Bottai, e cioè Giorgio Berlutti.
Questo mio modestissimo libro è il solo di economia dell'Africa Orientale di allora e come tale compare nell'ampia bibliografia che ha arricchito gli studi di Renzo De Felice, e se per me può essere motivo di compiacimento vederlo rilevato negli schedari delle grandi biblioteche americane, non altrettanto certamente lo è per mio figlio, che vede spesso il mio libro compreso tra le sue pubblicazioni, queste sì scientifiche, di chirurgia vascolare.
Ma, tornando a questi miei "lineamenti", ne consideravo tre ordini corporativi, e cioè locali, africano- asiatici e d'integrazione rispetto alla madrepatria. Agli stessi contenuti e principii si era attenuto un Codice del Lavoro dell'Africa Italiana che in quegli anni avevo promosso con un collega sotto gli auspici del ministero dell'Africa Italiana di allora. Codici del Lavoro di quei tempi. C'è ancora qualche biblioteca che ne disponga?

Ed oggi?
Tanti, come abbiamo detto in principio, i possibili versi del retro della medaglia. Oggi se ne sta preparando un altro. Impegno tutt'altro che nuovo e neppure recente per questa Repubblica che ha conosciuto le Commissioni Buozzi e Jotti de Mita, e oggi sta facendo le prove della Bicamerale 1997.
Ma nel 1975, in occasione della celebrazione della fondazione del primo Rotary romano, la pressante tematica di oggi venne riattualizzata, forse anticipata, da una grossa pubblicazione dal titolo La crisi delle istituzioni. Analisi del fenomeno e strumenti correttivi. Numerosi sono gli apporti forniti dai soci rotaryani. Fra questi, anche il mio: "L'impatto economico della crisi delle Istituzioni".
Come si sa, è doveroso astenersi dalle autocitazioni. C'è però anche la valigia di cui ho parlato prima. E perciò consentitemi questa autocitazione (una!): "Le Istituzioni tardano a recepire le nuove spinte e i nuovi modi di essere di una società mobile, articolata socialmente e territorialmente; per l'attuale quadro politico - di instabilità e confusione - del nostro Paese subiscono una strategia demolitrice, anziché impostarne e fondarne una costruttiva, tant'è che la lotta tra il vecchio e il nuovo, più che riflettere il tentativo di sopravvivenza del primo, ripropone l'incapacità del secondo di esprimersi in termini concreti e accettabili dalla totalità dei cittadini, continuano ad esplicarsi nel vuoto provocato da ciò che è divenuto caduco e nella carenza del suo rimpiazzo. Ed invece ogni atto economico - quali ne vogliano essere obiettivi e ispirazione - non si realizza senza una concorrente volontà politica e senza la valida e conforme cornice, a cominciare da quelle amministrative e burocratiche".
E qui se questa sorta di preteso "fior da fiore" non dovesse essere condizionato dal peso della "valigia" di cui prima ho detto e in questo caso anche dal lettore che dovrebbe portarla, aggiungo che i capoversi principali nello scritto concernono il rinnovamento della struttura statale, la politica dei redditi, le sedi decisionali, la formazione, il ruolo delle Regioni, l'eliminazione dei ritardi strutturali, ecc.
Tutta la tematica e tutti gli sbocchi errati o giusti sempre, dunque, sul tappeto, con un ricettario sempre personalizzato al massimo, come anche questo esempio che mi riguarda viene a confermare. D'altra parte, secondo certi pessimisti, nulla è detto che non sia stato già detto.
C'è oggi, dunque, siffatta medaglia con un verso unitario e con un retro variabile e variato. Ma questa volta c'è anche di mezzo l'inizio di un nuovo millennio.
In un classico della cinematografia americana figura un imminente sposo che, dopo che i rispettivi genitori invano avevano bussato alla porta dietro la quale l'imminente sposa, che voleva essere renitente, si era rifugiata e non apriva, solo pronunciando la magica frase "datti una regolata", vide la porta rapidamente aprirsi. Diamoci dunque una regolata, anche noi. Se la diano, anzi, quelli che hanno ricevuto da noi il mandato di rappresentarci.


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