L'imperatore
e il suo suddito è un insieme di episodi della vita di Federico
II di Svevia e di Giovanni da Procida, scritti da loro medesimi. In
questa quarta parte si racconta delle cure che Federico dedicò
al Regno di Sicilia, la "pupilla dei suoi occhi".
Giovanni da Procida tratteggia alcune scene della sua vita trascorsa
con l'Imperatore e chiude queste pagine con il racconto della morte
di Federico e del suo solenne corteo funebre.
4 - Loca solatiorum
nostrum
...e vanne
in Puglia piana la magna Capitana là dove lo mio core è
notte e dia.
Enzo di Svevia
Bisogna avere
un luogo sacro per sognare, una patria dell'anima. Fin da quando arrivai
per la prima volta in Puglia, sentii che in questo luogo poteva dilatarsi
il mio spirito e che qui potevo realizzare la mia opera. La giustizia
avrebbe regnato sovrana; le scienze, la poesia e le arti avrebbero
trovato dimora, e questa terra sarebbe stata paragonata per bellezza
e sfarzo ai preziosi tessuti saraceni.
Ho scelto dunque questo possedimento come mia terra tra le molte altre,
come luogo della mia residenza, perché, sebbene incoronato
della gloria e del titolo dei Cesari, non provo disdoro ad esser chiamato
figlio di Puglia. Trasportato e scacciato dai flutti della vita lontano
dai suoi porti, mi sento pellegrino e viandante lontano da casa.
Nel tempo in cui Federico tutto dedicava finalmente al governo del
Regno, io completavo i miei studi a Salerno. Lunghe meditazioni sulla
logica, da cui discende il rigore del ragionamento, avevano preceduto
gli studi sull'anatomia, sulle cause che portano l'uomo ad ammorbarsi
e su come impedire tale accidente. E se poi languori improvvisi ugualmente
prendono le membra ed il cuore, se fitte insopportabili attanagliano
il petto, se nebbie affannose velano gli occhi e la mente, avevo appreso
io a dar sollievo a questi mali, ora con un rimedio ora con un altro,
ché molti sono gli aiuti che la natura pone a disposizione
degli uomini.
Alto di statura, i capelli neri, i lineamenti regolari e senza barba;
lo sguardo pensoso, il carattere a volte allegro a volte schivo, ma
sempre pronto all'ironia: così ero io allora, quando mi approssimavo
ai venticinque anni.
Avrei seguito per un anno l'opera di un maestro per imparare con la
pratica a meglio riconoscere le mutevoli forme dei malanni, e mi apprestavo
a compiere questo ufficio a Napoli per diventare poi io stesso maestro
della Scuola.
Era destino invece che la mia vita fosse legata a quella di Federico,
che ne condividessi le gioie e le fatiche. Quale verde edera che ergendosi
dalla fertile terra si lancia verso l'alto e cresce e si dilata, dapprima
grazie solo al suo stelo che regge le lobate foglie, ma poi assicurandosi
con rapidi inviluppi ad un forte tronco ritorna a saettare nell'aere
con più vigore, così io trovai novello appoggio in Federico
che mi chiamò alla sua corte per affiancarmi al sapiente Shihab
Assuf medico di Sidone.
Giunsi a Foggia nell'agosto del 1234. Le descrizioni più volte
ascoltate non erano riuscite ad anticipare alla mia mente la magnificenza
di quella reggia e la vivacità di quella corte dove venivano
coltivate con la stessa passione le scienze e la poesia. Federico
aveva stabilito lì la sua residenza, nel luogo ove sorgeva
una solitaria fortezza smantellata dal tempo e di cui rimanevano antiche
mura, che abbellivano la nuova costruzione. Egli stesso ne tracciò
il disegno e in breve svettanti architetture e muraglie merlate coronarono
l'ampia pianura. Sullo sfondo di larghe montagne sorgevano elevati
i tre palazzi della città imperiale, eleganti per le fughe
di arcuate finestre. In uno risiedeva l'Imperatore, l'altro era utilizzato
per la burocrazia del Regno ed il terzo, che alcuni chiamavano d'Oriente,
accoglieva gli ambasciatori che giungevano dall'Arabia, dalla Persia,
dall'Egitto e dalle, altre nazioni.
All'avvicinarsi, dopo aver attraversato i quartieri militari che proteggevano
la città con fortificazioni possenti ed inespugnabili, l'occhio
scopriva terrazze, pergolati, statue, ninfei e labirinti. Si allietava
per gli innumerabili cortili, gioiosi per le fontane zampillanti,
per i graziosi archi dai ricami di marmo, per gli alberi di aranci
e di limoni irrigati dagli stretti canali, ornamenti che rendevano
belle e leggiadre quelle costruzioni che molto assomigliavano ai palazzi
di Palermo.
Boschi ombrosi, cosparsi di stagni e laghi, si estendevano a settentrione,
abitati da animali selvatici, mentre a mezzogiorno giardini ornati
di piante e di fiori seducevano per l'inebriante fragranza.
Rimasi in Puglia, seguendo Shihab nei suoi viaggi tra Lucera e Foggia,
tra Apricena e Bari. Sarebbero trascorsi due anni prima che Federico
ritornasse dalla Germania ove si era recato nel gennaio del 1235 e
quel ripercorrere le stesse brevi strade si sarebbe poi tramutato
in un girovagare con l'Imperatore per le città ed i vasti domini,
ché mai più mi sarei da lui allontanato.
Durante i viaggi per il Regno vidi quanto Federico amasse quella terra.
Così come il tuonante Giove ebbe cara la sua Arcadia, e a lei
dedicò le cure più assidue, ridandole, dopo il rogo
causato da Fetonte, le fonti ed i fiumi inariditi dal calore, la tenue
erba sui prati, le rigogliose fronde nelle selve, così Federico
amò quelle terre e profuse il suo ingegno per restituire splendore
a quel possedimento decaduto per l'incuria ed i soprusi.
Venne allora una novella Età dell'Oro che durò dieci
anni, come quella che predisse la Sibilla per Augusto: "Gli armenti
non temeranno i leoni, si nasconderà il serpente, svanirà
l'erba insidiosa di veleno e dovunque nascerà l'amomo di Assiria".
Si avverava, dopo l'incontro di Anagni, la profezia di Virgilio e
la sua egloga risuonava ovunque sulla terra rappacificata. Novelle
strofe rivaleggiarono con le languide Metamorfosi, canti amorosi si
udivano per le corti, fiorì la rosa aulentissima in una sconosciuta
fresca poesia.
La Giustizia, fin allora reietta, nuovamente mostrò trionfante
la sua imparziale, bilancia e, diffuse da Melfi, si applicarono le
leggi delle Costituzioni, che gli araldi andavano diffondendo di città
in città.
"Comanda l'Imperatore... " così proclamano tutte.
"Comanda l'Imperatore che se alcun potente ti volesse fare ingiuria
o in persona o in beni, difenditi gridando in nome dell'Imperatore
che egli non ti offenda".
"Comanda l'Imperatore che qualunque balivo o giustiziere venisse
a conoscenza di delitti, deve sempre procedere contro chi li ha commessi
anche senza querelanti".
Le genti dei secoli a venire non crederanno che io abbia messo insieme
codesto libro di leggi solo per accrescere la mia gloria, ma piuttosto
che l'abbia fatto per cancellare ora il tempo in cui la lingua del
diritto era muta.
Fu sempre mio ardente desiderio agire per la giustizia, ma sempre,
nel promulgare le leggi o nell'agire con la forza, ho chiarito le
necessità ed i motivi che le avevano determinate.
Perché tristi episodi cui avevo assistito a Palermo hanno segnato
il mio pensare, quando compiangevo le folle di questuanti che accorrevano
alle udienze per implorare giustizia, la soddisfazione per le offese
ed i soprusi patiti e ricevevano in cambio gli sberleffi delle guardie
e le ingiurie del giustiziere. Ed lo, allo stesso modo in balla di
altri, partecipavo alla pena di quell'umanità dolente e sconfitta.
Volli dunque che nuove leggi fossero da tutti conosciute ed applicate,
che a Napoli si formassero giustizieri rigorosi ed equanimi. Numerosi
essi siano ed al loro dovere attendano quotidianamente, perché
sia questo Regno specchio per chi l'ammira, invidia dei principi e
norma dei reami.
Tale era il volere di Federico, il quale mai vidi seguire i dettami
di questa epoca ed era diverso da tutti i monarchi che hanno regnato.
Sentii un cardinale di Francia affermare, quando ormai l'Imperatore
riposava da tempo nella tomba, che mai uomo fu più funesto
al genere umano di quell'irriducibile Svevo, che aveva sconvolto l'ordine
delle cose con il pensare e l'agire. E aggiungeva il prelato che l'aver
diffuso Federico leggi che tanto sovvertivano la consuetudine dello
Stato era cosa altamente riprovevole e recava affronto alla Chiesa.
Per non parlare poi della sua sconveniente e inappagabile curiosità,
dei suoi ripetuti quesiti spesso rivolti a studiosi musulmani, cosa
ancora più indegna, e poi resi pubblici a bella posta, per
far nascere dubbi e smarrimento. Quale il motivo, si chiedeva quel
cardinale, per accanirsi tanto nel voler conoscere l'origine delle
cose, perché chiedersi la ragione per cui il mare sia tanto
amaro, perché esista il vento che spira per tutti i punti cardinali;
a che pro sapere come è fatta la Terra, dove essa posa, a che
altezza è posto il cielo. E quale irriverenza voler conoscere
dove è assiso l'altissimo Iddio, come gli facciano corona gli
angeli ed i santi e cosa facciano gli angeli ed i santi costantemente
in sua presenza. E nessuna meraviglia poi se quella sua bizzarra curiosaggine
avesse trovato facile esca nella gente, se quelle sue idee avessero
fatto il giro delle contrade, che Satana stesso le aveva esaltate,
quale miasma che appesta, gravando gli spiriti, seducendo i deboli
di animo, incantando i semplici, apportando turbamento nella mente
dei cristiani. Sarebbe trascorso lungo tempo, più di venti
lustri, aveva concluso l'angustiato personaggio, prima che si attenuasse
il cataclisma provocato da quell'Anticristo.
A me sembra al contrario che il mondo non sarà mai più
lo stesso e che quelle sue idee genereranno nuove ventate di pensiero
e di lui ricorderanno le genti future. Perché straordinario
era Federico, e fece cose mai viste prima ed affermò ciò
che mai era stato udito, quel Sovrano generoso, vivido ed appassionato.
Manfredi, figlio mio. Nel giorno in cui entri nel dodicesimo anno
il mio sguardo accarezza il tuo biondo capo, scorre sul gaio viso,
gioisce del tuo limpido sguardo. Sei come tua madre: le stesse sembianze
di Bianca, che mai donna fu a me più cara. Ammirai anche Costanza
per la sua fierezza ed il suo coraggio ma lontano nella mia mente
è il suo ricordo.
Mentre ti avvicini alla età dei doveri e delle gravi cure il
mio cuore si rattrista per la sorte che a te riserverà il futuro.
Sorte malvagia, ché la nostra stirpe è destinata quasi
a soccombere, perché il Fato ha già scritto sul marmoreo
libro la sua storia. Potessi io cambiarla, potessi lo sovvertire lo
scorrere funesto degli eventi, potessi io erigere davanti alla tua
stella muraglie impenetrabili ed opporre potenti eserciti. Tutto dedicherei
all'impresa, ogni mio potere, per poterti assicurare giorni simili
a quelli che visse Anchise, che da vecchio, pur lontano dalla sua
terra, vide la sua discendenza moltiplicarsi. Ma le Parche hanno già
fabbricato il loro orrido filo.
Mi sia di lenimento forgiare il tuo animo a guisa del tuo aspetto,
fortificare il tuo spirito per renderlo capace di affrontare le ardue
prove e imprimergli la magnanimità e la saggezza proprie di
un principe. Ed allora siano tuoi tutori i sapienti venuti dalla Siria,
dall'Arabia, dall'Andalusia; ti insegnino essi quello che di più
elevato vi è al mondo, ti rendano edotto sulla filosofia, sulla
teologia, sulla natura del mondo; ti facciano acquisire perizia negli
scacchi, così che apprendendo come muovere la torre a vincere
il cavallo, e come il re riesca a sottrarsi all'insidia dell'alfiere,
ti sia chiara la via della riflessione e dell'azione.
Ti siano lette poi le storie dei re e degli imperatori che, vittoriosi,
si inchinarono poi al passaggio del nemico vinto. Che tu possa infine
dedicarti all'arte del poetare in questo nuovo stile leggiadro nato
nella nostra terra, che si diffonde per ogni dove e rende questi luoghi
desiati e a loro si rivolgono gli uomini nobili.
A te dedicherò quel libro che mostra come cacciare con i rapaci,
perché più volte quando galoppavamo insieme per queste
pianure dietro i falchi saettanti, hai voluto che ti raccontassi come
si allevano i valenti girifalchi, come si insegna loro a ghermire.
E perché ti sia agevole distinguere la pernice dalla quaglia,
la gru dall'airone, per te disegnerò le molteplici specie di
uccelli, questi leggiadri navigatori dell'aria, le prime orme che
distinsi, dipinti sui muri delle stanze ove vissi a Palermo. Esse
troveranno dimora in quel libro per allietarti la vista e lo spirito.
Per te. Ma tu non leggerai queste parole; esse non ti saranno mai
svelate, perché non saresti più quell'ardito principe,
non riusciresti più ad affrontare le fatidiche ore. A nulla
sarebbero valse le imprese gravose, le lotte, le battaglie, le vite
spese dalla nostra famiglia, i cui condottieri, regnanti e imperatori
si adoperarono per edificare questa immensa opera che ci gloria, per
consacrare se stessi ed i posteri all'eternità.
Ora che l'autunno ha arrossato con i suoi colori i campi sono andato
talvolta a caecia. Con il falco, che ama i luoghi aperti che gli consentono
di librarsi per l'aria ove si invola l'impaurito fagiano all'accorrere
dell'ansimante segugio. Con l'arco, da cui scocca la freccia che si
dirige fulminea sull'ignara preda, nel bosco. Nel bosco mi sono inerpicato
su per la collina e la collina ha lasciato luogo alla radura ove al
centro si erge un tempio e possente. La forma ottagonale compone la
perfezione del cerchio e la razionalità del quadrato. Vi si
entra per un grande portale, il cuore si allarga, la mente si astrae
il pensi levita leggero ed inizia il cammino, il più lungo,
il più tortuoso, quello che riporta all'infanzia perché
è come un gioco, come un disegno tracciato sul suolo da un
fanciullo, che salta ora su un riquadro ora su di un altro. Quel fanciullo
ha i capelli biondi, il viso gaio, lo sguardo limpido. L'ottagono
è risurrezione, l'ottagono è rinascita.
Il fanciullo rinascerà.
Questa è una favola, questa una malinconia. Questo è
un sogno di cui domani non mi resterà ricordo. Domani avrò
cancellato questi velati pensieri. Domani sarò ancora Federico.
Queste le ultime parole, questi gli enigmi che concludevano il manoscritto
dell'Imperatore.
Avevo letto d'un fiato le arcane pagine, quella notte in cui le ricevetti
da Federico, e rimasi attonito, non riuscendo allora a capire molti
passi, perché erano stati scritti Per spandere luce al momento
opportuno chè anche la crisalide si chiude d'autunno nel bozzolo
e lì si nasconde a lungo, per divenire poi splendente farfalla
nell'estate.
Di lì a poco finì la vita di Federico e i messaggeri,
inviati per tutte le terre, annunciarono la funesta notizia. Molti
tuttavia non credettero: lo videro ancora cavalcare con mille cavalieri
verso la innevata cima dell'Etna, lo riconobbero mentre combatteva
contro gli eserciti nemici, si inchinarono al suo passaggio sulle
vie della Svevia.
Illusorie visioni! Federico, racchiuso in un sudario di bianco lino
e unto di unguenti e balsami, fu adagiato su una lettiga rivestita
di panno porpora trainata da sei bianchi cavalli.
Uscimmo da Fiorentino scendendo la breve erta che conduce alla larga
pianura della Capitanata. A perdita d'occhio vidi le schiere di cavalieri
e di soldati, di nobili e di contadini, in attesa di aggregarsi man
mano che il corteo passava davanti a loro. E così nella stretta
via che conduce al Meridione questa ultima parata diventò lunga
parecchie leghe.
Se pesanti massi non mi avessero oppresso il cuore, se fiumi di lacrime,
rigandomi le gote, non mi avessero fatto apparire i raggi del sole
come lunghe lame conficcate negli occhi, se la vita non mi fosse sembrata
una nera cortina drappeggiata sul lontano orizzonte, avrei potuto
ammirare anch'io quell'ultima magnificenza di Federico.
Ma, come aveva affermato Manfredi, avevamo bevuto il calice della
disperazione per ottenebrare la mente non meno che gli occhi e, a
testa china, seguivamo assenti, come se non avessimo meta, lo sferragliare
dei carri, i nitriti dei cavalli, il lento rullare dei tamburi, il
clangore delle corazze e il lamento dei mori di Lucera che invocavano
Allah e l'Imberadur consci com'erano di aver perso il loro più
strenuo protettore.
Berardo, devoto e venerando, conosceva lui, uomo di chiesa, cosa si
prova a sopravvivere alla morte di un figlio. Cavalcandomi accanto
scuoteva a tratti il capo, come per scacciare dalla mente un inopportuno
incubo.
Nell'inverno e nella tristezza viaggiammo per giorni e giorni attraverso
i paesi di Puglia. Ci fermavamo al calare della notte nei castelli
sulla costa o nell'interno, accolti dai mesti rintocchi delle campane.
Lento fu il viaggio per terra, ma giunti a Taranto la navigazione
procedette veloce fino a Messina, ove giunsero le cento navi con in
testa il grande vascello abbrunato che portava l'Imperatore.
Ricomposto il mesto corteo che ora si ingrossava delle schiere dei
siciliani, giungemmo infine a Palermo, abbruttiti dalla stanchezza
e dall'affanno.
Federico fu adagiato nel sarcofago che lui stesso aveva fatto portare
anni prima da CefaIù, mentre lacrime di sangue bagnavano le
tuniche e i mantelli in cui era ravvolto.
Aveva voluto essere sepolto a Palermo, accanto ai suoi padri e a sua
moglie Costanza. A Palermo, affìnché, come avviene nel
cerchio, l'inizio coincidesse con la fine. Così mi aveva detto
una volta, nel tempo in cui a me sembrava che quel Principe avrebbe
contemplato le generazioni vivere il gioioso sovvertimento da lui
avviato sui dogmi del mondo, che la nera Falciatrice lo avrebbe invano
inseguito sul suo magro cavallo dalle vuote orbite e che non sarebbe
mai giunto il momento in cui quella pesante lastra di porfido rosso
si sarebbe richiusa per sempre sui suoi occhi sognanti.
(4 - continua)