§ MAFIA TRA FEROCIA E MITO

L'ARIA CHE CAMMINA




Ada Provenzano, Giorgia Cordier, Franco Rey



Non fa meraviglia veder riemergere dalle carte dei fondi archivistici testimonianze su situazioni d'una volta, eppure fortemente simili alla realtà contemporanea. E neanche consola perché, superata l'ovvia constatazione di trovarsi di fronte a problemi che affondano le radici in una lunga storia, subentra l'avvilimento di ritrovarsi al punto di sempre, senza che una catena di azioni, di strategie, di appelli abbia trovato attuazione nella realtà. E' il caso della lettera che il professor Franco Andreucci aveva scoperto nella Biblioteca Nazionale di Firenze e aveva reso pubblica nel 1992.
L'argomento è la mafia siciliana, la data è quella del 18 dicembre 1874. Uno stile ripulito dagli arcaismi che costellano il testo, e il testo stesso potrebbe essere scambiato per un commento dei nostri giorni.
Destinataria della lettera è Emilia Peruzzi, animatrice nei primi decenni dell'Unità d'Italia di uno dei salotti politici più prestigiosi della penisola, frequentato fra gli altri da De Amicis e da Bismark, tanto per citare un paio di nomi. Moglie di Ubaldino, ministro degli Interni nel 1863-64, quando capitale del Regno era appunto Firenze, e sindaco della città in quel 1874, la signora Peruzzi nutriva forte interesse per la conoscenza delle diverse realtà del Paese; un interesse che, sull'onda anche dello scalpore suscitato dalla celebre inchiesta Sonnino-Franchetti sul Mezzogiorno, l'aveva spinta a chiedere notizie sulla Sicilia ad un vecchio amico dei tempi dell'esilio parigino, quel Carmelo Agnetta, siciliano d'origine, uomo politico legato alla Destra storica, che, dopo aver preso parte all'impresa dei Mille, aveva intrapreso una carriera nell'ambito del ministero degli Interni che l'aveva portato a ricoprire la carica di sottoprefetto in diverse zone calde del Paese.
In quell'ultimo anno della sua permanenza in Sicilia, da dove sarebbe stato trasferito con l'avvento al potere della Sinistra storica, egli era sottoprefetto ad Aci Reale. Per meglio comprendere la curiosa attualità di questa lettera, basta leggerne alcuni passi, confrontandoli con giudizi e suggerimenti degli ultimi anni. Agnetta, fautore di leggi eccezionali per stroncare il fenomeno criminale, non si nasconde tuttavia che "anche le leggi attuali con magistrati pari all'arduo ufficio avrebbero prodotto il desiderato effetto". E subito viene in mente quel "possiamo sempre fare qualcosa" che il giudice Giovanni Falcone avrebbe voluto inciso come motto emblematico sullo scranno di ogni magistrato e di ogni carabiniere o agente di polizia. Oltre tutto, tra le analisi consegnate da Falcone al suo Cose di Cosa Nostra e questa lettera, comune è la valutazione del rapporto tra mafia, affari e politica. Tutto questo, a testimonianza di una complessa battaglia che va combattuta senza mai abbassare la guardia, e con estrema coerenza.
Riportiamo il testo della lettera, avvertendo che ci sono errori lessicali non imputabili al proto, ma solo ed esclusivamente all'Agnetta. Li segnaleremo con il consueto (sic!).

"Egregia signora,
ella mi chiama a trattare un argomento difficilissimo, e per me più che mai scabroso, dapoiché (sic!) più volte sia dal Ministero, sia da autorevoli personaggi invitato a discorrere delle cose di questo paese ho scritto sì diffusamente ch'ora, costretto a rachiudermi (sic!) nei brevi limiti d'una lettera sono imbarazzato, a scegliere in tanta copia d'argomenti. Ad ogni modo invoco la sua indulgenza massima pel mio stile ch'è fatto ad immagine mia.
La Sicilia è travagliata da vecchi mali pei quali i rimedi i più opportuni sono, le strade, le opere pubbliche in genere e soprattutto l'istruzione pubblica e precipuamente l'elementare. Lasciamo al tempo il compito di sanare queste piaghe, però l'indirizzo della istruzione pubblica primaria bisogna sia modificato, in questo senso che l'ingerenza dei Comuni in Sicilia in fatto d'istruzione venga ristretta imperocché perdurando le cose come sono oggi i Municipi non troveranno mai denari pei maestri di scuola. E' questo un argomento accennato di volo, il discuterlo mi condurrebbe troppo oltre. Ai vecchi mali se ne aggiunge un altro di sua natura acutissimo ed è la profonda corruzione delle masse che è giunta al (sic!) tal punto da generare la Mafia. Qualunque (sic!) siciliano non ho mai potuto sapere da che derivi questo vocabolo, però la cosa che denota è una specie di associazione segreta che tende a far vivere gli affiliati senza travagliare (cancellato, e da grafia diversa corretto in "lavorare", ndr.) e ad eludere la legge in tutte le conseguenze sue. Infatti mercé le male arti della Mafia la legge dei giurati è convertita in strumento di impunità. La P. Sicurezza ignara, avvilita, spaventata, più non funziona. Le aziende comunali sono in mano di mestatori altrimenti mafiosi in guanti gialli.
L'istituzione dei militi a cavallo corrotta più che mai. I R.R. Carabinieri, impotenti e nella loro impotenza derisi da una plebe feroce. I pubblici Uffici, costretti a transigere ogni giorno colla Mafia, più non curano gli interessi dello Stato: Che dire delle numerose frodi tuttodì (sic!) impunite dalla legge. Sulla ricchezza mobile pagala da pochissimi, su quella del registro e bollo, su quella del macinato organizzata a solo ed esclusivo vantaggio dei Mugnai? E la dogana non è divenuta in Sicilia un fomite d'un esteso ed impunito contrabbando? I pubblici funzionari, la massima parte ignara dei costumi, della lingua, e delle speciali tradizioni di questo specialissimo paese, sentono il vuoto che li circonda e di null'altro si curano che di abbreviare il loro soggiorno nell'Isola, vantando poi come servizi speciali l'esser rimasti fantocci impotenti in quest'Isola sciagurata.
Mi duole il dirlo, qui non si manda il fiore dei funzionari e costoro messi in un letto di Procuste finiscono collo svisare, e quello ch'è peggio, nascondere al Governo il vero stato delle cose. Scrissi a richiesta d'un mio prefetto una breve memoria sulla Mafia in Sicilia e n'ebbi amari rimproveri e fui tacciato di visionario. Or bene, assicuro sul mio onore che quanto dico è tenue cosa in confronto del vero. La repentina formazione di un grande stato trae sempre seco gravi spostamenti d'interessi e grandissimi disguidi nell'azienda pubblica. Ora quest'anormalità inevitabili si osservano in tutte le provincie del Regno, or perché dunque nella nostra Sicilia questi stessi inconvenienti assumono un carattere minacioso (sic!) eccezionale, tanto da far dubitare a tutti dell'efficacia delle nostre leggi? Rispondo che in Sicilia per un complesso di prossime e remote cagioni il libero reggimento come lo s'intende dai nostri dottrinari è un cibo indigesto. Qui della libertà ognuno conosce i diritti, ignora onninamente i doveri ch'essa impone epperò in tanta obliterazione del senso morale ci fa mestieri un reggimento vigoroso, severo, direi quasi un dispotismo intelligente in prò della libertà. Dalle premesse è facile rilevare quali saranno le conseguenze. In Sicilia sì mille volte sì son necessarie le leggi eccezionali.
A coloro che dicono che le leggi eccezionali non rimediano al male rispondo che ai mali estremi i rimedi estremi e che la storia consacra nelle sue pagine che popoli assai più civili del nostro in casi simili hanno velato la statua della libertà e tolto col ferro e col fuoco le triste cagioni che la rendeano inferma.
In quest'isola infelice neppure in tanta corruttela che opprime gli ordini civili rimane illeso il prestigio del governo. Esso non temuto è anzi schernito epperò a reprimere la stolta licenza fa d'uopo d'un imperio inesorabilmente assoluto. E' tempo di ricorrere prontamente ai rimedi se non vuolsi un giorno non lontano veder compromessa l'unità della patria. Però coloro che coscenziosamente sostengono essere il rimedio peggiore del male in un punto solo potranno (secondo me) aver ragione quando cioè il governo ottenute le leggi eccezionali trasanderà le infinite precauzioni che dovrà prendere onde fare una buona ed accurata scelta dei funzionari che dovranno applicarle. Non bisogna illudersi: anche le leggi attuali con magistrati pari all'arduo ufficio avrebbero prodotto il desiderato effetto.
Però come dissi pocanzi (sic!) gl'impiegati nell'isola massime i politici sono stati finora inadeguati all'ufficio loro.
La colpa dell'infelice scelta se l'abbia quella specie di coalizione di mediocrità che insediatasi nelle amministrazioni centrali paralizza il più sovente le buone intenzioni dei Ministri.
Quando avrò lasciato la carriera ormai per me piena di spine dimostrerò all'evidenza che in quindici anni tutti i Ministri non hanno potuto mai a loro talento nominare un usciere a settecento lire annue. Riepilogando. Leggi eccezionali sussidiate però come condizione esenziale (sic!) da un buon personale, bisogna anzi tutto metter da banda il favoritismo e specialmente garantire l'amor proprio al postutto di ossa, di muscoli, e di cartilagini come tutti gli altri portali.
In Sicilia chi travaglia (cancellato e da grafia diversa corretto in "lavora", ndr.), chi ha un briciolo di terra vuole, come in tutti i Paesi del mondo garantite la vita e la robba (sic!), epperò le misure eccezionali saranno sempre le ben venute.
Io mi domando che razza di libertà è mai questa che si gode in Sicilia, se non è permesso di andare d'un punto ad un altro del paese, di vendere a suo piacere senza la decima che preleva la Mafia sul prodotto dei propri beni? E' certo che la Mafia incassa comodamente il prodotto delle sue estorsioni mentre il governo stenta a percepire i pubblici balzelli. Dunque la Mafia è più temuta del governo: facciasi questi temere alla sua volta colla inesorabile applicazione della legge e la posizione sarà cambiata. Non vogliono le misure eccezionali i tristi, i mafiosi, i mestatori dei partiti politici ostili al governo e le ultime elezioni politiche sono il prodotto delle coalizioni di tutti costoro. S'inganna chi crede che tutti i Deputati Siciliani siano la espressione del paese onesto e intelligente. Il corpo elettorale è troppo ignorante, è troppo timido e sempre sotto l'incubo delle persone influenti per fare una buona scelta di Deputati. Insomma i principi politici entrano poco o punto nelle urne elettorali di Sicilia. Quest'anno, poi, è stato un vero delirio, una vera crociata contro il giusto e l'onesto.
Tranne onorevolissime eccezzioni, fra i 48 deputati siciliani ve ne ha uno che ha comprato 100 voti con 30. 000 lire, uno che ha fatto mettere dagli scrutatori suoi parenti delle schede nell'urna, coi nomi degli elettori assenti, ce n'è poi cinque o sei che hanno intime relazioni con certi articoli del Codice penale.
Come vuole, egregia signora, che costoro approvino le leggi eccezionali? Ma basta fin qui. Si (sic!) ella desidera altri schiarimenti sono pronto a darli ringraziandola per avermi offerto l'occasione di passare meno noiosa delle altre questa serata scrivendo alla carlona questa tiritera.
I miei rispettosi saluti al Commendatore. A Lei esimia Signora i sensi della mia ammirazione.
Devotissimo aff.mo servitore C Agnetta".

Accadeva oltre un secolo fa. Ma la mafia è "aria che cammina", passa attraversando tempi e generazioni, restando in buona parte indenne, rinascendo dalle sue ceneri, producendosi per partenogenesi. Così è diventata se stessa e il suo risvolto: è ferocia quotidiana della realtà, ed è mito. E', questa, una miscela esplosiva dirompente, che continua a minacciare la società meridionale italiana senza soluzione di continuità. E' la piovra che allunga i tentacoli, perdendone alcuni, ma rigenerandoli a tempo di primato e consolidando le interrelazioni col mondo degli affari, della finanza, della politica.
La ferocia è visibile nelle cronache quotidiane e nelle storie di ordinarie "ammazzatine", stragi, omicidi mirati, che leggiamo sui quotidiani. Ma il mito com'è nato? Come si è affermato? E chi, magari involontariamente, lo ha alimentato?
Senza risalire alla preistoria dei delatori e dei pentiti che, non creduti, finivano regolarmente in manicomio, poi in povertà e infine al cimitero con una luparata in corpo, veniamo a giorni più vicini a noi. Dapprima con le confessioni di Joe Valachi, il gran pentito di Cosa Nostra Americana che trent'anni fa aprì gli occhi al mondo sulla natura della mafia, e in seguito col Padrino di Mario Puzo, romanzo-quasi-verità dal quale Francis Coppola trasse un film che "ogni uomo d'onore ha visto almeno tre o quattro volte", si sono consolidati due modi di guardare alla mafia: uno potremmo definirlo sociologico-giudiziario, e l'altro letterario-mitologico. Il primo, che considera la mafia un fenomeno puramente criminale, ha una sua specifica letteratura; e così il secondo, che guarda alla mafia come a un fenomeno soprattutto culturale. Joe Valachi e il Padrino sono gli spartiacque. Ma si potrebbe risalire anche un po' più lontano, fino all'Italia di fine secolo, quando Napoleone Colajanni scriveva i primi saggi sulla mafia e il romanziere Luigi Natoli, in arte William Galt, pubblicava i suoi feuilletons di vera e propria propaganda mafiosa, come I Beati Paoli e Coriolano della Floresta.
C'è, dunque, una mafia reale, quella che uccide Falcone e Borsellino e che fa saltare in aria monumenti d'arte unici al mondo, che è ogni giorno fra i titoli dei giornali, che taglieggia comunità e terrorizza città. E c'è una seconda mafia, ideale e letteraria, quella che crede nel proprio mito e che lo trasmette incessantemente all'esterno: la mafia delle iniziazioni, delle regole bronzee, dei codici d'onore, dei patti di sangue. Talvolta si fa della letteratura mafiosa in sede giudiziaria, come nel caso di Tommaso Buscetta, autentico ideologo di Cosa Nostra Siciliana, che prende la parola in tribunale per distinguere tra "mafia buona" e "mafia cattiva", e precisamente tra mafia reale e mafia ideale, tra "uomini d'onore" e trafficanti di droga. Altre volte la letteratura mafiosa si tinge di sociologia criminale, come nel libro Gli uomini del disonore, autobiografia del pentito Antonino Calderone, che il sociologo Pino Arlacchi ha trascritto in lingua umana.
Calderone, che non esita a definirsi un criminale, odia sicuramente Cosa Nostra, che gli ha ammazzato il fratello, "capomandamento" della famiglia catanese, e che molto volentieri avrebbe fatto fuori anche lui, se soltanto Calderone non fosse stato più svelto a "cantare" che la mafia a sparare. Calderone rimane convinto, in fondo, che la mafia d'una volta fosse più elevata e nobile cosa, ma ormai non si fa più illusioni: Cosa Nostra è l'inferno, e nessuno meglio di lui lo sa.
Quanto a Buscetta, il "borsalino" del boss gli va stretto, e l'immagine di Cosa Nostra che si sforza di trasmettere è sempre molto teorica, molto intellettuale. Lo sa chiunque conosca le deposizioni processuali di don Masino, oppure la lunga intervista rilasciata a Enzo Biagi nel libro Il boss e solo. Buscetta parla della mafia "come i comunisti, un tempo, parlavano del Partito", o come un samurai parlerebbe del bushido. In tutto quel che dice le maiuscole lampeggiano come luci al neon. Antonino Calderone, invece, è un uomo più concreto, entrato nella mafia per tradizione familiare, a differenza di don Masino entrato nella mafia per scelta deliberata, come in una chiesa.
Calderone, prima d'essere iniziato, venne messo in guardia dallo zio, vecchio "uomo d'onore", che conosceva il gioco e che per questo gli consigliò di restar fuori. Ma il giovane Calderone non poteva più sfuggire al tentacolo della fascinazione letteraria. Cosa Nostra, gli dissero "è nata ai tempi dei Vespri siciliani, quando la gente s'è ribellata e sono nati pure i Beati Paoli". E Calderone: "Non voglio darmi arie, però lo li avevo letti, questi libri. Anche i libri su "Coriolano della Floresta", "Tavano il bastardo" e cose simili. Ero documentato".
Come tutte le società segrete, anche Cosa Nostra è due cose insieme: un'organizzazione con finalità precise, in questo caso criminali, e un insieme di regole di comportamento, un look esoterico, una visione del mondo, un'ambigua "documentazione" letteraria. Prima dicevamo che ogni "soldato" ha visto almeno tre o quattro volte "Il Padrino" di Coppola. Lo scrive, appunto, Calderone. Lo dicono anche Joseph O' Brien e Andris Kurins, due agenti dell'Fbi nel loro libro Boss dei boss, dove viene raccontata la storia dell'incriminazione e della morte del penultimo "Goodfather" di New York, Paul Castellano. Si era già letto qualche cosa di simile anche prima, a proposito di un altro pentito, Salvatore Contorno, soprannominato "Coriolano della Floresta", proprio in omaggio ai feuilletons di William Galt. E un alone di mito c'era stato fatto vedere anche da Sciascia, nel suo Giorno della civetta, nella celebre pagina in cui, in risposta alla considerazione di don Mariano, che diceva al capitano dei carabinieri Bellodi: "Lei è un uomo", l'investigatore non riusciva a controllare un moto dell'animo - e del processo mentale che si era sviluppato nel corso dell'interrogatorio - e ribatteva: "Anche lei è un uomo". Scambio di definizioni, che nella loro essenziale sobrietà si traducevano nella reciproca legittimazione di Stato e anti-Stato, o intra-Stato: e in particolare nel riconoscimento di una cultura chiusa, sì, e maligna, ma pur sempre "cultura", fatta di leggi proprie e di autonomi comportamenti, dunque entrata nel mito, in nome del quale la mafia generava gerarchie rigorose, obbedienze cieche, un linguaggio parallelo. E, in ultima analisi, un'antropologia civile e sociale eccentrica e tutt'altro che astratta, al punto di poggiare su reticoli economici sempre in progresso (latifondo, poi edilizia, poi droga, poi finanza e politica), che lo Stato nemico può non riconoscere e combattere, ma che agisce, aggrega, domina.
Tra la mafia come fenomeno criminale e la mafia come fenomeno letterario non c'è - a ben vedere - una separazione netta neppure all'interno di Cosa Nostra, organizzata come un universo paranoico, dove la regola letteraria è che gli affiliati non possono mentirsi tra loro, e la regola criminale è la guerra di tutti contro tutti, (in nome del business), la congiura permanente per il controllo dei traffici e dei territori. Lealtà assoluta e coltellate alla schiena sono il fondamento schizofrenico di Cosa Nostra, cui si addice - come ad Elettra - solo il lutto. L'aria che cammina attraversa esclusivamente i territori della tragedia.
Ne aveva già parlato Falcone nel libro-intervista di Marcelle Padovani (Cose di Cosa Nostra appunto). Ma è un libro del pentito Calderone a illustrare con la massima chiarezza questo grumo di contraddizioni. Gli uomini del disonore non è necessariamente un libro sincero. Sarà vero, ad esempio, che Cosa Nostra, alla fine degli anni Sessanta, fu sul punto di essere disciolta? O che gli uomini d'onore talora "amministrano la giustizia" al modo di Don Vito Corleone nel film di Coppola? Questo non lo appureremo mai, perché è destinato a restare un mistero. Ma il libro di Calderone resta un libro importante. Non è soltanto l'autobiografia di un boss. Di queste ne avevamo viste già altre, altrettanto realistiche e documentate, ugualmente utili alle indagini, non meno ricche di particolari agghiaccianti, di personaggi mostruosi e di intelligenze saturnine. Non è neppure l'ennesima storia della mafia siciliana scritta dall'interno dell'onorata società.
Don Masino Buscetta, "boss dei due mondi", uomo di rispetto sia a Palermo che a New York, ne aveva scritta una ancora più importante e ambiziosa: le sue testimonianze, in America e in Italia, hanno tracciato la mappa universale di Cosa Nostra, le cui attività si allargano attraverso i continenti come un'epidemia virale. Antonino Calderone, ex vicecapomandamento dell'unica famiglia catanese, ha una visione necessariamente più ristretta del fenomeno mafioso, ma è il primo che ce ne restituisce per intero gli usi e i costumi, il gergo, l'animalesca vita quotidiana. Il suo è il primo libro d'un uomo d'onore smagato e intelligente, che dopo una vita di omicidi e di taglieggiamenti vissuta nella paranoia e nella prepotenza, vede con sorpresa che cosa c'è in cima al suo "ideale": l'illusione nauseabonda, un'amara solitudine, un rimorso sanguinante. Per questo, a chi gli ha chiesto il perché delle confessioni scritte, ha risposto citando Ungaretti: perché "la morte / si sconta / vivendo".
L'ultimo capitolo mitologico è recente e va ascritto a quel pessimo scrittore di successo che è Mario Puzo. Il suo Ultimo padrino non è più Vito Corleone, ma Domenico Clericuzio, che al vecchio "Don" somiglia moltissimo, che dal 1965 ad oggi si è spianata la strada a colpi di stragi, ma che ripone "la sua fede nel Dio che, ne era certo, l'avrebbe perdonato". Come i Corleone, anche i Clericuzio vivranno per sempre in quanto clan o famiglia: meglio ancora, schiatta di padrini d'alto lignaggio che allunga i tentacoli dalla villa-sacrario di Quogue a Las Vegas, Mecca del gioco d'azzardo, a Hollywood, Mecca del cinema.
"Puzo - ha scritto Goffredo Fofi - acquista interesse per un lettore un po' scaltro solo se lo si prende dal lato delle mitologie che mette in campo. Esse rimandano a una antropologia e a una cultura italo-americana, mitizzate ed esaltate". Puzo ama la cultura mafiosa, la conosce, la spiega. E Fofi trova straordinario che dopo Sciascia, e nonostante Sciascia, l'Italia, cioè il Paese che ha inventato ed esportato la mafia come modello vincente in tante parti del pianeta, si fermi alla pura cronaca quotidiana, giornalistica, dimenticando che chi non sa o non vuole capire, poi non può combattere questo fenomeno criminale. Non può combatterlo fino a cancellarlo. E' una scelta? Rispondere a questa domanda significa rifare la storia della penisola, rileggerla nei risvolti dei cosiddetti "poteri forti", più o meno occulti, anche se al (primo) livello istituzionale formalmente impegnati in quello che lo scrittore siciliano definì, polemicamente, "il professionismo dell'antimafia". Perché meravigliarsi, allora, se l'Italia arretrata vive per tanta parte dentro la cultura mafiosa, e quella sviluppata dentro la cultura del privilegio? E chi si è sorpreso quando è scoppiato il bubbone bossiano? Non esistono da sempre l'Italia della mafia in lingua e quella della mafia vernacola?


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