§ Accadde a Gerusalemme

Giorni di Passione




Tonino Caputo, Gianfranco Langatta, Francesco Lay
Coll.: Luca Marsili, Stefano Greco, Marco Treves



"E' da duemila anni, Signore, che i tuoi passi sanguinano...". Questo verso del poeta francese Pierre Emmanuel, morto una decina di anni fa, non è soltanto l'eco di un celebre "Pensiero" di Pascal, il 736: "Gesù sarà in agonia fino alla fine del mondo, non si deve dormire durante questo tempo ... "; è anche la rappresentazione simbolica di ciò che la cristianità ripete da secoli, scandendo i giorni della Settimana Santa sulla sequenza evangelica degli ultimi atti e delle ultime ore di Cristo.
Cercheremo, allora, anche noi di seguire in modo essenziale quelle tappe quotidiane, per quanto sono ricostruibili attraverso le testimonianze dei Vangeli. Sarà un itinerario costellato di ricordi, di segni, di reperti e di nomi noti anche a chi non ha mai visitato Gerusalemme, ma ha costruito, appunto attraverso la lettura dei Vangeli, una sua Gerusalemme mentale, più o meno come facevano gli artisti del Medioevo e del Rinascimento, che tratteggiavano Sion con gli edifici di Firenze, di Colonia, di Gand, di Parigi, della loro stessa città.
Per gli studiosi, questo è un itinerario pieno di intoppi, perché le questioni esegetiche, storiche, archeologiche, topografiche, cronologiche si presentano particolarmente intricate. Facciamo un solo esempio di tipo cronologico: fra i Sinottici (cioè Marco, Matteo e Luca) e Giovanni, proprio per la datazione dell'ultima settimana di Cristo, si registra un divario abbastanza netto, che ha ricevuto le più diverse soluzioni. I primi presentano l'ultima cena di Gesù come un banchetto pasquale e di conseguenza suppongono che il giovedì dell'ultima cena sia la sera del 14 del mese Nisan, la data pasquale.
Giovanni, che non tratteggia l'ultima cena come banchetto pasquale, dichiara che il venerdì della morte di Gesù era la "parasceve", cioè la "preparazione" che apriva la festa di Pasqua al 14 Nisan.
L'anno stesso ci sfugge: in base a calcoli molto complessi, per alcuni sarebbe il 29 d.C., per altri il 30, per altri ancora il 33. Qualche tempo fa, due astrofisici britannici, R. Stephenson e C. Humphreys, hanno determinato la data di una eclissi di sole che sarebbe avvenuta nell'area palestinese alle 18,30 del 3 aprile 33. Essi si erano convinti, in modo sbrigativo e "comparativistico", di poter chiarire l'annotazione di Matteo sulla morte di Gesù: "Da mezzogiorno fino alle tre di pomeriggio si fece buio su tutta la terra". Tuttavia questa frase, più che un'indicazione cronologica, sembra essere un'allusione a un passo dell'Antico Testamento, sulla scia dell'interpretazione "secondo le Scritture" dell'intera vicenda di Cristo. Nel libretto profetico di Amos, l'irruzione divina nella storia è descritta così: "In quel giorno farò tramontare il sole a mezzogiorno ... ". E', quella, l'ora delle tenebre per eccellenza, della teofania giudiziaria sulla storia.
La Settimana si apre con la "processione delle palme", che i cattolici di Gerusalemme e i pellegrini compiono la domenica partendo da Betfage ("Casa dei fichi"), un sobborgo orientale della città. Nella chiesetta francescana di questo quartiere si conserva un blocco di pietra di un metro per un metro e trenta, con un affresco medioevale dedicato proprio alla scena evangelica. Ora, gli evangelisti hanno tracciato il racconto dell'ingresso trionfale di Gesù a Gerusalemme tenendo presente una processione giudaica, quella della "Festa delle Capanne" (che si celebra però in autunno), durante la quale gli ebrei agitavano un mazzetto di fronde detto "lulav", composto di un ramo di palma adorno di nastri, al cui piede erano legati con un cordoncino d'oro tre rametti di mirto e due di salice. Durante la processione il lulav doveva essere agitato a più riprese per tre volte lungo la direzione dei punti cardinali. Ma davanti agli occhi degli evangelisti era presente soprattutto il celebre oracolo del profeta Zaccaria: "Esulta grandemente, figlia di Sion, giubila, figlia di Gerusalemme! Ecco, a te viene il tuo re. Egli è giusto e vittorioso, umile, cavalca un asino... Farà sparire i carri da Efraim e i cavalli da Gerusalemme, l'arco di guerra sarà spezzato, annunzierà pace alle genti". Il re-Messia, che ha distrutto gli armamenti e che porta la pace, abbandonati i cavalli, equipaggiamento tipicamente militare, avanza sull'asino, la cavalcatura dei re in tempo di pace.
Per i primi giorni di quella Settimana Gesù, da Betania - un altro sobborgo di Gerusalemme, dove oggi si innalza la chiesa francescana dell'Amicizia, forse proprio sull'arca della casa di Lazzaro, di Marta e di Maria, che ospitavano Gesù - si recava al Tempio di Erode, una mastodontica costruzione che il grande e implacabile sovrano ebreo di sangue misto (era figlio di un ebreo idumeo e di Cypris, una principessa araba) aveva iniziato nel 19 a.C. e inaugurato il 9 a.C. Rifinito e perfezionato fino al 64 d.C., il Tempio sarebbe stato distrutto "pietra su pietra" dalle armate romane di Tito nel 70 d.C.
Ma lasciamo la parola a un testimone oculare, lo storico giudeo filoromano Giuseppe Flavio, attraverso una pagina della sua Storia della guerra giudaica: "Al Tempio di Gerusalemme non mancava nulla per impressionare la mente e la vista. Infatti, essendo ricoperto dappertutto di massicce piastre d'oro, fin dal primo sorgere del sole era tutto un riflesso di bagliori e a chi si sforzava di fissarlo faceva abbassare lo sguardo per i raggi solari.
Agli stranieri in viaggio verso Gerusalemme esso appariva da lontano simile a un monte coperto di neve, perché dove non era ricoperto d'oro, era candido di marmo". L'amore per il Tempio era d'altra parte una costante della tradizione biblica e giudaica. "Il mondo - affermava un detto rabbinico - è come l'occhio: il mare è il bianco, la terra è l'iride, Gerusalemme è la pupilla, e l'immagine in essa riflessa è il Tempio". Ai nostri occhi, al posto di questa splendida costruzione con i suoi edifici, i suoi cortili, i suoi portici (quello "regio" comprendeva una selva di 162 colonne), appare oggi l'indimenticabile fisionomia della Moschea di Omar, in realtà costruita dal sultano Abdel-Malik tra il 687 e il 691.
Nel Tempio Gesù, da ebreo fedele, si recava a pregare. Anche in passato era sostato nei grandi cortili ad osservare la folla, ammirando ad esempio la vedova che gettava nel "tesoro" due spiccioli, un'offerta ben più alta delle elargizioni degli aristocratici gerosolimitani, perché "nella sua miseria - come racconta Luca - aveva dato tutto quanto possedeva per vivere". Negli stessi cortili forse pochi giorni prima - stando alla cronologia sinottica - Gesù aveva creato scompiglio tra i venditori di animali sacrificali e i cambiavalute (le monete imperiali e quelle che recavano un'immagine umana o animale erano considerate impure e quindi da sostituire con una monetazione riconosciuta dalle autorità religiose), gridando il suo sdegno per questa commistione nello stile degli antichi profeti. In quel cortili Gesù negli stessi giorni si era fermato a discutere con dottori della legge e membri dei vari "partiti" o movimenti (farisei, sadducci, erodiani) e la tensione si era fatta sempre più alta e la polemica aspra, tant'è vero che, forse il lunedì o il martedì, Cristo confessa ai suoi discepoli: "Voi sapete che fra due giorni il Figlio dell'uomo sarà consegnato per essere crocifisso".
Ma, semplificando la documentazione evangelica che aggrega a quei giorni elementi differenti, da collocare forse in contesti cronologici antecedenti, giungiamo ai giorni decisivi. Il giovedì sera dobbiamo salire con Gesù sul colle occidentale di Gerusalemme, quello che è stato chiamato il Sion cristiano, in opposizione al Sion del Tempio.
Entriamo in un modesto caseggiato a fondazione crociata. Al pianterreno oggi, assieme a una scuola rabbinica, c'è una sinagoga collegata a una falsa tomba di Davide, tuttavia molto venerata dagli ebrei. Saliamo per una stretta scala esterna al piano superiore, ed ecco davanti a noi una ex cappella crociata, costruita nel secolo XIV dai francescani con la collaborazione di artisti ciprioti e con i fondi di Roberto, re di Napoli e di Sicilia. La sala, che un "mihrab" (la piccola abside che indica ai musulmani la direzione della Mecca per la preghiera) rivela essere stata in passato anche una moschea, è la memoria unica e spoglia del Cenacolo dove Gesù quella sera celebrò la cena pasquale con i suoi discepoli, pronunziando quelle parole sorprendenti sul pane azzimo: "Questo è il mio corpo", e sul terzo dei quattro calici di vino che si bevevano durante il "seder", il rituale giudalco: "Questo è il mio sangue dell'alleanza".
Lì si era consumato il tradimento del discepolo Giuda, secondo la splendida narrazione di Giovanni: Gesù gli consegna - secondo l'uso orientale - il "boccone dell'ospite". "Allora, dopo quel boccone, Satana entrò in lui. Gesù gli disse: quello che devi fare, fallo al più presto... Preso il boccone, Giuda subito uscì. Ed era notte". E' lo stesso quarto evangelista a riferirci che, in quella "grande sala al piano superiore, con i tappeti", (così la descrive Marco), Cristo lascia ai suoi discepoli un lungo testamento, il cui flusso letterario e tematico è stato comparato dagli studiosi alle onde che si rincorrono sulla battigia di un mare che è illuminato dallo Spirito e dall'amore. Nell'area attuale del Cenacolo, per la presenza dell'improbabile ma venerata tomba di Davide, non è possibile condurre prospezioni archeologiche. Tuttavia, alcuni sondaggi eseguiti nel 1951 da J. Pinkerfeld e successivamente dall'archeologo francescano B. Bagatti, hanno svelato le tracce di un antichissimo luogo di culto giudeo-cristiano, sulle cui pareti si potevano leggere questi graffiti colmi di fede in Cristo: "Vinci, o Salvatore, pietà!... O Gesù, che io viva, o Signore di Davide!".
Lasciato il Cenacolo, Gesù, scendendo dal colle attraverso una grande scalinata del II secolo a.C., ancora oggi visibile, e superato Il torrente Cedron, si era ritirato con i suoi discepoli in un giardino ai piedi del monte orientale, quello degli Ulivi. Il nome stesso di quella località, Getsemam, il "Frantoio per olive", indicava la qualità del luogo: analisi compiute qualche anno fa da una università americana sui ceppi degli enormi ulivi del giardino francescano che circonda la basilica dell'Agonia hanno dimostrato che essi possono risalire anche a oltre venti secoli addietro. Fra questi ulivi Gesù ha passato "in tristezza e angoscia", in sofferenza e preghiera, l'ultima notte della sua vita terrena. Qui era avanzato nell'oscurità il traditore, Giuda, con una scorta armata (Giovanni parla di "un distaccamento di soldati romani e di guardie fornite dai farisei"). La vicina basilica, costruita tra il 1919 e il 1924 sui resti delle precedenti chiese bizantina e crociata, ha infatti le tre navate - a causa delle vetrate - immerse sempre nell'oscurità violacea di una notte, evocazione di quella notte di duemila anni fa. Al centro domina una roccia, detta "dell'agonia" di Gesù: su di essa si centra l'intera basilica con le sei colonne monolitiche, le dodici cupolette, la profusione di mosaici, affreschi, bronzi, tutti di artisti italiani, fra cui c'è anche la firma del Torretti, il maestro di Canova.
Continuiamo il viaggio, anche se è difficile seguire con precisione il percorso compiuto dal Cristo in quella notte. Egli è trasferito per un primo interrogatorio informale nella residenza dell'ex sommo sacerdote Anna (il nome è un diminutivo ebraico di Giovanni), in carica dal 6 al 15 d.C. Egli riuscirà, però, a condizionare la nomina dei successori: cinque suoi figli in sequenza, e il genero Caifa! E' nel palazzo di quest'ultimo, in carica dal 18 al 36 d.C., che è condotto Gesù per un vero e proprio interrogatorio notturno alla presenza del Sinedrio, termine greco che significa "Consesso", l'organismo politico-religioso di 70 membri (più il "presidente", cioè il Sommo sacerdote) riconosciuto dal potere romano. Ora, il trattato sul Sinedrio della Mishnah, la grande collezione delle tradizioni rabbiniche, afferma che i processi capitali potevano essere trattati solo di giorno e nella sede ufficiale del Sinedrio, la cosiddetta "aula della pietra squadrata", che si trova presso il tempio e che forse gli archeologi israeliani sono riusciti a identificare. La seduta di quella notte sarebbe stata, perciò, illegale, e la sentenza invalida. Tuttavia Luca sottolinea che la vera seduta formale del processo contro Gesù si celebrò il venerdì, "appena fu giorno, davanti al Sinedrio", dunque nel rispetto della prassi giudaica.
Condannato a morte per bestemmia, Cristo deve presentarsi al tribunale romano, perché le esecuzioni capitali potevano essere promulgate soltanto dall'autorità imperiale. L'esatta collocazione topografica della sede del procuratore romano - che da 26 al 36 fu Ponzio Pilato - è oggetto di discussione. Alcuni ritengono che egli risiedesse, durante i suoi soggiorni gerosolimitani (la sua dimora abituale era a Cesarea Marittima, sulla costa mediterranea), nel palazzo di Erode, presso l'attuale Porta di Giaffa. Altri ipotizzano una presenza nella Fortezza Antonia, un palazzo fortificato dedicato nel 37 a.C. da Erode all'omonimo triunviro romano e sito all'angolo nord-ovest della Spianata del Tempio. A partire dagli anni '50, in seguito agli scavi condotti da una delle Suore di Sion, si è creduto di individuare quella sede nell'area del convento.
Era venuto alla luce, infatti, un grande pavimento lastricato, forse proprio quello che in greco il vangelo di Giovanni chiama il "litostroton" ("lastricato"). Esso poggiava su un'enorme cisterna doppia, di 52 metri di profondità e di 18 metri di larghezza, destinata a risolvere le esigenze idriche di una grossa guarnigione. Su alcune di quelle lastre sono incisi disegni di giochi per dadi. Le caselle hanno un tracciato che può ricordare il nostro "gioco dell'oca", ma la presenza della lettera "B" (in greco "basileus", re) associata ad una corona sembra rimandare al famigerato "gioco del re": durante i Saturnali, il carnevale romano, si sorteggiava fra i condannati a morte un re da burla a cui tutti per una settimana dovevano scherzosamente obbedire. Alla fine del suo regno effimero, egli era ucciso.
Le scene di derisione del racconto della passione del Cristo sono da mettere in relazione con questo "gioco del re"? Gesù è stato incoronato di spine proprio su questo pavimento? Il suo sangue, nella flagellazione, è colato su queste lastre segnate dallo scorpione, l'emblema della X Legione Fretense di stanza a Gerusalemme? Sono domande aperte, che non possono forse avere una soluzione certa. Noi, però, immaginando già concluso il processo con la relativa sentenza capitale (i Vangeli sono, al riguardo, ricchi di particolari), usciamo all'aperto, nel vociare confuso, in mezzo agli odori e ai colori del suq arabo della città vecchia.
Qui si snoda quella che ancora oggi è chiamata la Via Dolorosa. Allora essa conduceva fuori dalle mura; ora invece le monumentali mura di Suleyman, Solimano il Magnifico, sultano del XVI secolo, racchiudono la meta dell'ultimo passaggio di Gesù in Gerusalemme e sulla faccia della terra.
La meta è una minuscola prominenza rocciosa di pochi metri, chiamata allora in aramaico "Golgota", cioè "cranio", e in latino "calvario", forse a causa della sua conformazione esteriore. Il pellegrino è quasi sempre deluso quando giunge, seguendo la tradizionale pratica della Via Crucis, davanti alla basilica del Santo Sepolcro. Il tozzo edificio crociato, consacrato il 15 luglio 1149, dopo mezzo secolo di lavori, sulla base della prima basilica, la "rotonda" eretta nel 325 da Elena, la madre dell'imperatore Costantino, si apre in una confusione indescrivibile di stili, di cappelle, di divisioni confessionali, di visitatori, di preghiere. Eppure è una confusione rigidamente regolata: uno status quo del 1757 determina persino i ritmi e la responsabilità persino per la pulizia delle vetrate secondo le varie confessioni cristiane che hanno in gestione la basilica.
Appena entrati, una scaletta di cinque metri d'altezza ci conduce al Calvario, ora inglobato nella basilica e diviso tra i greci ortodossi e i francescani. Sotto l'altare ortodosso un disco d'argento, affiancato da due dischi di marmo nero, ci ricorda il luogo in cui era infissa la croce di Cristo e quella dei due ladroni. Quel venerdì erano le nove del mattino quando Gesù venne crocifisso; a mezzogiorno era iniziata l'agonia accompagnata dalle tenebre. "Alle tre Gesù gridò con voce forte: Eloì, Eloì, lema sabactani? Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?... E dando un forte grido, spirò".
Dalla cappella del Calvario si scende allora all'ultima tappa del viaggio, a quella "rotonda" innalzata da Elena sopra il sepolcro di Cristo. Ora quella tomba vuota è contenuta in un grosso cenotafio del 1800. Attraverso un minuscolo ingresso si penetra in un vestibolo (la "Cappella dell'angelo"), dove un frammento di pietra vuole evocare il masso circolare che chiudeva il sepolcro e che era stato ribaltato. Su di esso era risuonato l'annuncio angelico: "E' risorto!". Un ingresso ancor più basso che costringe a una prostrazione introduce nella camera del sepolcro di Cristo: il banco di pietra ove era deposto il corpo di Gesù è ora ricoperto da una lastra di marmo sovrastata da un altare. I vangeli canonici non descrivono la resurrezione di Cristo. Lo faranno solo gli apocrifi, con una scenografia epifanica che entrerà nell'arte cristiana solo a partire dall'XI-XII secolo. Il racconto evangelico riguarda, invece, solo l'alba della domenica, "il primo giorno dopo il sabato", secondo il computo ebraico. Il cadavere di Cristo era stato deposto nel sepolcro nuovo di un seguace benestante di Gesù, Giuseppe di Arimatea. Là era rimasto senza visite durante il riposo sabbatico. Finito quel periodo, ecco che si erano avviate verso il giardino cimiteriale alcune donne per ungere quel cadavere, sbrigativamente sepolto il venerdì precedente sotto l'incombere del giorno del riposo che iniziava a sera, secondo la tradizione cronologica locale.
Ciò che si presenta davanti a loro in quell'aurora è sorprendente: la pietra sepolcrale è rovesciata, sono rimaste solo le bende che legavano mento, mani e piedi, e la sindone o lenzuolo che avvolgeva il corpo di Gesù. Ma l'elemento fondamentale è la presenza dell'angelo, segno di una teofania, che proclama l'annunzio pasquale cristiano: "Perché cercate tra i morti colui che è vivo? Non è qui, è risorto!". E' per questo che i cristiani orientali chiamano la basilica del Santo Sepolcro l'Anastasis, cioè la Resurrezione, e a loro fanno eco gli arabi con l'equivalente Qijama. Osserva un esegeta: "Difficilmente un racconto come è questo della sepoltura e resurrezione di Gesù ( ... ) avrebbe messo in scena delle donne (incapaci giuridicamente di attestare secondo il diritto antico) come testimoni della tomba vuota di Gesù, se questo non fosse nella realtà dei fatti".
Per concludere l'itinerario e la Settimana sommariamente ricostruiti, occorre menzionare uno solo dei vari e strani episodi di quella domenica. A parte la straordinaria esperienza che la discepola Maria di Magdala vive in quel mattino presso il sepolcro di Gesù, o quella che "la sera di quello stesso giorno" fanno nella sala del Cenacolo i discepoli, e altre ancora. Occorre seguire, invece, per un istante almeno, quei due discepoli - uno di nome Cleofa, l'altro anonimo - che, nel pomeriggio di quel giorno, stanno camminando da Gerusalemme verso il loro villaggio, Emmaus. E' curioso che gli studiosi non si siano ancora accordati sull'identificazione esatta di questo villaggio citato da Luca per una delle più celebri apparizioni di Cristo risorto: tre o quattro località si contendono questo onore.
Forse tale molteplicità potrebbe essere assunta a segno. Infatti, la strada e il villaggio di Emmaus sono anche in ogni luogo ove i cristiani vivono la loro fede: l'incontro col Cristo risorto avviene infatti, per quei discepoli e per i cristiani di tutti i tempi, quando la Scrittura è proclamata e ascoltata e quando il pane eucaristico è spezzato, cioè all'interno di ogni festa di Pasqua e di ogni domenica allorché si celebra l'Eucarestia.
Ma anche per i non credenti l'itinerario tracciato non è soltanto iscritto su una mappa antica. Come dichiarava Mauriac, "sono giorni e luoghi che a tutti sono familiari; ci sono volti i cui profili sono depositati nella memoria di tutti; ci sono emozioni che, pur sedimentate sotto il fervore dei tempi moderni, conservano la loro scintilla di mistero e di eterno". E persino il dubbioso, agnostico Borges ha confessato: "La nera barba pende sopra il petto. Il volto non è il volto dei pittori. E' un volto duro, ebreo. Non lo vedo e insisterò a cercarlo fino al giorno dei miei ultimi passi sulla terra".


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