§ ANTONIO BORTONE

ECLETTICHE ARMONIE




Marilena Nicolardi



Della scultura di Antonio Bortone, artista ruffanese (1844-1938), la critica italiana, da Lavagnino ad Acciaresi, ad Abbatecola, a Sapori, si è occupata largamente, evidenziandone il carattere fortemente eclettico che si traduce nel superamento degli stereotipi accademici e monumentalisti, per giungere ad una commistione armoniosa di vari stili, dagli influssi naturalistici e neoclassici ottocenteschi, alle componenti d'ispirazione rinascimentale, al verismo d'impronta gemitiana.
La passione per l'arte plastica si manifestò in Bortone fin dall'infanzia. Esordì realizzando con l'argilla ritratti che riproducevano con notevole realismo la figura del padre, un umile fabbro. Il suo talento naturale gli valse ben presto la stima e il sostegno di alcuni mecenati locali che lo inviarono a Lecce, presso la bottega dello zio Antonio Maccagnani, rinomato cartapestaio e scultore d'ispirazione rinascimentale. L'ambiente provinciale gli impediva tuttavia di maturarsi e di esprimere appieno il suo genio creativo, così lo scultore abbandonò ancora diciassettenne Lecce, per trasferirsi a Napoli, nel 1861, usufruendo di un sussidio economico offertogli dalla Deputazione provinciale.
Nel periodo napoletano Bortone assimilò i Principi dello stile neoclassico, frequentando i corsi di Tito Angelini.
La meta agognata restava però Firenze, dove l'artista si stabilì nel 1865, accompagnato da una lettera di presentazione scrittagli dal marchese napoletano Casanova per il maestro Giovanni Duprè, che ebbe un ruolo significativo nella formazione del giovane salentino.
La mediazione realizzata dal Duprè tra il soffocante neoclassicismo accademico allora in voga e il virtuosismo verista propugnato dal fiorentino Lorenzo Bartolini, si tradusse in un'innovazione moderata dell'arte plastica che vide aboliti certi stereotipi opprimenti, senza tuttavia subire sconvolgimenti sostanziali. Bortone, inizialmente accolto con perplessità dal Duprè, fu da lui sostenuto e protetto non appena, per dar prova delle proprie capacità, realizzò in breve tempo la sua prima opera impegnativa, il Gladiatore ferito, nella quale la tendenza all'eclettismo comincia già a manifestarsi. La sua fama si accrebbe ancor più nel '67, all'Esposizione di Parigi, dove fu annoverato tra i maggiori esponenti della scultura italiana. In terra fiorentina l'artista restò per circa quarant'anni, creando un suo studio in Piazza Indipendenza, frequentato da parecchi giovani scultori. Divenne anche collaboratore di Emilio De Fabris, l'architetto-scultore che diresse i lavori di completamento della facciata del Duomo.
Di temperamento schivo e riservato, poco incline al clamore del successo, Bortone considerò la scultura la ragione primaria della sua esistenza, strumento di elevazione spirituale capace di divulgare canoni estetici universali.
A Firenze produsse le sue opere migliori, dal busto di Garibaldi, all'Ippocrate, al Molière, alla Carità religiosa. Ma l'opera con cui si impose fu il Fanfulla, monumento in bronzo che celebra Tito da Lodi, figura storica e leggendaria. Presentata all'esposizione di Parigi nel '78, la statua ottenne il consenso unanime del pubblico e dei giurati e fu premiata con un riconoscimento internazionale che accrebbe la fama dell'artista salentino. L'opera possiede una naturalezza plastica che nasce dal superamento dei virtuosismi accademici e del monumentalismo che condizionavano l'arte dell'epoca e fornisce del personaggio un'immagine originale e priva di esaltazioni retoriche.
Sebbene ormai celebre e stimato a Firenze, Bortone rimase sempre legato alla sua terra d'origine, dove tornava periodicamente per ritemprarsi o per eseguire le committenze affidategli dai conterranei. Il successo non l'aveva mai tolto dall'indigenza che spesso lo spingeva a realizzare i ritratti solo per avere una retribuzione. Nel carteggio con Sigismondo Castromediano si legge: "Le scrissi giorni or sono pregandola di farmi ottenere le mille lire che restano per il busto al Briganti... Mi perdoni dunque e creda che per rendersi così molesto Bortone, vuol dire che deve proprio trovarsi, come si suol dire, con l'acqua alla gola".
Nel Salento da lui tanto amato visse anche momenti di amarezza, per l'incomprensione della gente, e registrò alcuni insuccessi, come l'esclusione nell'80 dall'incarico di realizzare una statua in onore di Vittorio Emanuele II, affidata a Maccagnani perché il bozzetto del lavoro presentato da Bortone fu reputato poco celebrativo.
In compenso, a Firenze il prestigio professionale dello scultore aumentava. Tra il '76 e l'87 gli furono commissionati il monumento funebre a Gino Capponi per la chiesa di Santa Croce, e per il Duomo le statue di S. Antonino e di S. Giacomo minore, e due bassorilievi raffiguranti Michelangelo e Giotto. Nelle opere monumentali Bortone, attraverso un'attenta ricerca naturalistica, forniva dei personaggi rappresentati un'immagine non solo celebrativa ma che ne rifletteva anche le caratteristiche umane e psicologiche. Le sue figure erano vive, palpitanti com'è evidente nei monumenti a Quintino Sella, Agostino Depretis e Michele di Lando. E' stato sottolineato il profondo legame che univa Bortone alla terra natìa, dove l'artista fece ritorno, nel 1910, lasciando definitivamente la Toscana. Già negli ultimi anni del soggiorno fiorentino dal Salento gli era stato conferito l'incarico di realizzare due importanti opere (il monumento a Francesca Capece, a Maglie, e quello a Sigismondo Castromediano, a Lecce), nelle quali trasfuse una ritrovata creatività e una genialità artistica che sembravano essersi affievolite nel periodo in cui, spinto dal bisogno, aveva eseguito senza troppa passione numerosissimi ritratti, che talvolta appaiono asettici e convenzionali, commissionatigli dai privati. Ritornato definitivamente in terra salentina, Bortone si stabilì a Lecce, ospitato da nobili estimatori della sua arte. Continuò la sua attività di ritrattista eseguendo una serie di busti, tra i quali meritano menzione Sorriso, in marmo, con un vago gusto liberty, Fiori d'arancio e A chi scrivi?, oltre ai numerosi monumenti (a Salvatore Trinchese, al Martiri d'Otranto, a Quinto Ennio, ai Caduti di Ruffano, Tuglie e Calimera) e alle due Pietà del 1914, d'ispirazione rinascimentale. Lavorò con passione tino alla fine dei suoi giorni nonostante la salute malferma. Morì a Lecce, novantaquattrenne, senza essere riuscito a realizzare il suo sogno: trascorrere gli ultimi anni dell'esistenza nella natìa Ruffano. Probabilmente le difficoltà finanziarie glielo impedirono.
L'intera produzione di Bortone rispecchia l'atteggiamento eclettico che l'artista adottò fin dagli anni della sua formazione, smorzata tuttavia dalla sua indole conservatrice che lo portò a reputare effimere le innovazioni rivoluzionarie che avevano caratterizzato il mondo artistico a lui contemporaneo. La sobrietà, l'eleganza formale, il senso della misura definiscono la sua arte, nella quale naturalismo e convenzioni borghesi si fondono armoniosamente. Le sue opere migliori rimangono quelle in cui la forza della sua ispirazione si può manifestare liberamente, sciolta dai vincoli che i lavori su commissione presupponevano. Solo allora Bortone riusciva a raggiungere quella pienezza espressiva, quell'impeto creativo, quella purezza formale che fecero di lui uno degli esponenti più rappresentativi della scultura italiana fra Ottocento e Novecento.


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