Se
tornano gli eroi
Ha senso richiamare
in palcoscenico le maschere troiane, (Antonio Errico, Favolerie, Manni
Editore), e far recitare ancora gli scampati al tradimento, alla distruzione,
alla diaspora, e poi al naufragio o alla morte senza nome?
Non sono passati in teatro, da allora, citando alla rinfusa, Shahrazad,
la poesia cortese, l'Ariosto, Shakespeare, Cervantes, i tragici francesi,
Schiller, persino Lee Masters; e non vi campeggia oggi l'uomo bionico?
Forse un senso c'è, ed è questo: il viaggio (la vita,
la storia) è come un tacito andare verso e attraverso tino
spazio indistinto e provvisorio, un trattenere il respiro, un inserirsi,
come diceva Auerbach, "fra il passato e il futuro, come un tempo
vuoto", che tuttavia può essere misurato: in secoli, in
millenni. "Siamo vissuti in una trasparenza di tempo, [ ... ],
un tempo tra due tempi, immobile", dice Calcante disegnato da
Errico. E' una partitura nodale fra l'assenza e la proiezione, fra
la memoria e la reinterpretazione, nello stile in cui si gioca la
filosofia del "Nostoi", prima parte di Favolerie.
Quello omerico-virgiliano era uno stile tutto di primo piano, perché
di ciò che di volta in volta i due epici raccontavano fecero
pura cosa presente e la lasciarono operare senza prospettiva. L'analisi
dei testi ci insegna che la parola si può impiegare in senso
ancora più ampio e profondo. Si dimostra che anche la persona
singola può essere rappresentata di sfondo. Nell'Antico Testamento
accade con Dio, che non è, come Zeus, circoscrivibile nella
sua presenza. Appare sempre e soltanto "qualcosa" di lui;
sprofonda sempre nelle lontananze. Anche gli uomini, nei racconti
biblici, sono più di sfondo che quelli omerico-virgiliani;
essi hanno maggiore profondità di tempo, di destino e di coscienza;
e benché quasi sempre coinvolti in un avvenimento presente,
non lo sono mai al punto di dimenticare quanto era accaduto loro prima
e altrove; i loro pensieri e le loro sensazioni sono molto più
complessi e intricati. In una condizione intima così problematica
non possono incorrere i personaggi omerico-virgiliani, il destino
dei quali è chiaramente fissato, e che ogni giorno si svegliano
come fosse il loro primo.
Le loro passioni sono in verità violente, ma semplici, ed erompono
subito al di fuori. In Omero-Virgilio sarebbe inconcepibile una situazione
psicologica diversa. Che invece Errico può recepire (sugli
anni sono passati anche Jung e la Funzione animica, oltre alla Gestalt):
poiché non si tratta soltanto di fatti psichici, a volte addirittura
abissali, bensì anche di un puro sfondo spaziale, accade che
nei personaggi la molteplicità della vita psichica appare soprattutto
nel succedersi/alternarsi delle passioni e delle ragioni, dei ricordi
e degli smemoramenti: appunto, dell'assenza e della proiezione. Sicché
i "Nostoi" riescono ad esprimere simultaneamente strati
della coscienza sovrapposti l'uno all'altro, anche in conflitto o
in contraddizione tra loro.
Gli eroi omerico-virgiliani sono poco o punto rappresentati nel loro
divenire, tanto che, per la maggior parte, appaiono in un'età
della vita fin dal principio immutabile. Diversamente, per esigenze
di mito, non potendosi fare. Si pensi ad Ulisse, che nel lungo corso
di tempo e d'avventure offre tanta ragione per uno sviluppo individuale,
e che non ce ne fornisce quasi alcun esempio. Telemaco è appena
diventato giovinetto (come del resto Ascanio); ma Penelope in vent'anni
non è mutata quasi per niente (come Didone). Al di là
di ciò che è corporale, manca assolutamente qualunque
accenno, e in ultima analisi Ulisse al ritorno dopo due decenni è
perfettamente lo stesso del giorno in cui aveva lasciato Itaca.
Quale cammino e quale destino si interpongono con i personaggi del
"Nostoi"! La vecchiaia plurisecolare è incisa in
profondità. Carichi d'esperienza, travolti dalle dolorose lacerazioni
della storia, essi rivelano un'impronta personale ignota all'epica,
su cui il tempo ha gravato anche interiormente. E stanno continuamente
sotto la dura mano di un destino che, dopo averli creati ed eletti,
irrimediabilmente li foggia, piega, plasma, e, senza distruggerne
l'essenza, trae da essi forme che negli archetipi erano del tutto
imprevedibili. Tutti restano leggendari.
Ma più Errico procede nella loro narrazione, più si
avvicinano alla storia e alla nuda e desolata terrestrità.
Il racconto esce così dal ristretto e dallo statico, e non
ha alcun ritegno ad immettere il realismo contemporaneo nella sublimità
tragica omnitemporale.
Nella classicità, gli avvenimenti drammatici della vita umana
consistevano prevalentemente nel cambiamento di fortuna che si abbatteva
sull'uomo dall'esterno e dall'alto, mentre nella tragedia elisabettiana,
la prima caratteristicamente moderna, comincia a prevalere il carattere
dell'eroe quale artefice del suo destino. E' una svolta epocale: la
tragedia nei drammi greci è una tragedia preordinata, in cui
i caratteri dei personaggi non hanno un ruolo decisivo. Ad essi non
spetta che agire e morire. La tragedia nei drammi elisabettiani viene
invece direttamente dal cuore dei personaggi stessi. Amleto è
Amleto non perché un dio capriccioso lo abbia spinto verso
una fine tragica, ma perché vi è una essenza unica in
lui, per cui egli è incapace di comportarsi diversamente da
come fa. Edipo e Oreste non possiedono la libertà d'azione
che ha Amleto e che gli consente di dar voce al dubbio e di porsi
inquietanti domande. In questo senso Amleto è più drammatico,
in se stesso, della tragedia antica. E in questo senso i personaggi
del "Nostoi", riportati alla storicità terrena, sono
contigui ad Amleto, non a Edipo e Oreste.
Da una parte personaggi a tutto tondo, ugualmente e intensamente illuminati,
illimitati nel tempo e nello spazio, collegati fra loro senza lacune,
in primo piano o di sfondo, con pensieri e sentimenti espressi, quasi
esclusivamente, con disagi e varie tensioni. Dall'altra ("Favolerie",
nella seconda parte, che dà il titolo al libro) dei fenomeni
viene manifestato tutto quel che importa ai fini della metafora; sono
accentuati i punti culminanti e decisivi: le cose interposte acquistano
esistenza marginale: pensieri e sentimenti, riflessioni e turbamenti
emergono in chiaro anche nello stile giocoso ("Il buffone"),
e soprattutto in quello più solennemente mosso ("Nell'ora
silenziosa di Maria", "Il sogno di Gustave", ecc.),
mentre altrove vengono suggeriti dal procedere nervoso dello schema
dialogico ("Canto popolare") o dal sorprendente tacere quasi-beckettiano
("Il copista"). Qualcosa, sapientemente, è affidata
allo sfondo enigmatico.
Le Favolerie, la cui cultura visiva, linguistica e soprattutto sintattica
appare tanto elaborata, sono in realtà relativamente attingibili
nella raffigurazione dell'uomo e in genere anche nel loro rapporto
con le metafore della vita che sottendono. Il realismo magico è
tutto, e l'impegno maggiore è di rendercelo più intrigante.
Perciò i personaggi ci incantano e ci attraggono e noi viviamo
nell'ellisse delle loro vicende e ci è perfettamente indifferente
che si tratti soltanto di favole e che tutto sia "inventato".
Errico non ha alcun bisogno di farsi forte della verità storica
(ma esiste, poi?) della sua narrazione. Quel suo gioco è forte
a sufficienza, avvince e chiude nella rete. E tanto gli basta.
Alcuni mezzi di questo realismo fantastico con i quali si procede
qui per esprimere mondi interiori sono stati già analizzati,
descritti, definiti con nomi diversi: da "discorso vissuto"
a "monologo dentro/fuori". Però queste forme stilistiche,
soprattutto il discorso vissuto, sebbene usate già nella letteratura,
raramente si erano poste gli stessi intenti artistici, sicché
accanto ad esse esistono altre possibilità sintatticamente
appena afferrabili per sfumare o persino far scomparire l'impressione
di una realtà obiettiva, di cui comunque Errico è sicuro
padrone: possibilità insite non solo negli elementi formali,
ma nel tono e nel nesso del contenuto, come ad esempio là dove
lo scrittore ottiene l'effetto desiderato ponendo se stesso dentro
il personaggio che narra, domanda, cerca, delira anche, quasi che
la verità sui suoi personaggi non sia più nota a lui
che a loro stessi o al lettore. Tutto questo insieme riguarda, dunque,
la presa di posizione dell'autore di fronte alle realtà che
ritrae, anche destrutturandole per forza di magia/poesia: che appunto
è atteggiamento del tutto diverso da quello degli scrittori
che interpretano le azioni, le situazioni e i caratteri dei loro personaggi
con sicurezza obiettiva. Ci sono, qui, meno Keller, Meredith o Dickens,
e molto Mann, Woolf o Borges. Ci sono climi e atmosfere incombenti.
C'è la tragica allegoria esistenziale dell'uomo che non ride.
"Avrei dovuto avere parole eterne per raccontare di una storia
eterna. Ma le parole degli uomini, Signore, lo sai bene, sono scheletri,
lampade spente, arazzi consunti, vessilli del nulla. Solo che a volte
allontanano la morte; è stato questo a tradirmi, lo sgomento
per questa mia esausta età, per questo gelo.
La fantasia, Signore. Damasco lucentissimo, spezia saporosa, gorgo
di ogni palpito e pensiero, cane vagabondo, mare tumultuoso, metamorfosi
dell'anima così rapida e silenziosa. Mi perdonerai la fantasia,
Signore, nel giorno che cancellerà ogni altro giorno?
Ma se non fosse un peccato ... ?"
aldo bello
I quaderni
del Ventennio
Due libri editi
qualche anno fa (Emilio Gentile, Il culto del littorio, Laterza; Angelo
M. Imbriani, Gli italiani e il duce, Liguori) avevano ravvivato l'interesse
per lo studio degli "elementi rituali e mitici della politica",
e in particolare del fascismo; interesse che ha coinvolto storici,
sociologi e specialisti delle comunicazioni di massa. Indagini di
ottimo livello, fra l'altro, erano state già condotte (da Castronovo,
Tranfaglia, Murialdi, Legnani e Del Buono sulla stampa; dall'Argentieri
sul cinema; da Lanzardo sulla fotografia; da Pallottino, Detti e Faeti
sull'illustrazione dei libri di testo; ecc.). E due saggi erano stati
incentrati sul tema del "consenso", (Renzo De Felice, Mussolini
il duce. Gli anni del consenso l929-l936, Einaudi; Philip V. Cannistraro,
La .fabbrica del consenso. Fascismo e mass media, Laterza), con l'analisi
dei rituali e delle forme liturgiche assunti dal simbolismo fascista
e con il loro inquadramento "nel più ampio contesto di
sacralizzazione della politica nella società di massa"
(M. Bontempi).
Lo studio del simbolismo politico dal punto di vista della sua recezione
costituisce un campo di ricerca non ancora del tutto esplorato e anche
per questo tra i più stimolanti e fecondi. E nel quadro di
ulteriori elaborazioni teorico-metodologiche che contribuiscano a
rendere più nitidi gli strumenti concettuali impiegati dalla
propaganda nel ventennio si inserisce a pieno titolo lo splendido
lavoro di Luigi Marrella, I quaderni del duce - Tra immagine e parola,
Barbieri 1995, che rappresenta una significativa analisi settoriale,
(il quaderno scolastico e l'iconografia al servizio del regime), impostata
tra la ricostruzione storiografica e la riflessione sociologico-politica.
Il testo si articola in due parti. La prima, in tre capitoli, (Il
quaderno nel sistema dei "media": funzione e destinatario
sociale; Temi, modelli e valori nei quaderni del Ventennio. Il balilla
e il suo duce; Temi, modelli e valori nei quaderni del Ventennio.
Roma, l'Impero e la guerra), dispiega l'indagine dalla stampa alla
radio, al cinema, al sistema multimediale finalizzato al coinvolgimento
delle masse (col supporto di Ond, Onb, Gil, Guf, Istituto Luce) e,
all'interno di questo, il sottosistema "di condizionamento",
diremmo oggi, dell'universo scolastico, con la diffusione del quaderno
non neutro, volto ai fini "dell'integrazione delle giovani generazioni
dello Stato fascista e della creazione di un sistema di valori e di
comportamenti orientati a ridefinire l'italiano "nuovo"
di Mussolini". La seconda parte è costituita da una cospicua
sezione iconografica (quaderni pre-fascisti, fascisti, post-fascisti),
con 239 copertine illustrate e fotografiche.
Marrella ha lavorato con assoluto rigore scientifico su un campione
di oltre 600 quaderni scolastici editi durante il Ventennio. L'esame
di fonti così particolari si rivela particolarmente efficace
per lo studio del simbolismo politico. Marrella estrae da esse una
ricostruzione meticolosa e intelligente, svelando l'utilità
e la versatilità del suo metodo e aggiungendo un ulteriore
prezioso tassello alla complessa analisi di questo fenomeno.
sergio bello
Percorsi angolani
L'altra Africa,
quella della decolonizzazione, emerge dalle pagine di Wanda Ramos,
splendida scrittrice portoghese nata in Angola, che vive il conflitto
dell'appartenenza/non appartenenza, dell'inconciliabilità delle
due culture, durante la guerra di decolonizzazione. Anche in questo
libro (Percorsi, dall'originale Percursos (do Luachimo ao Luena) la
memoria gioca un ruolo essenziale: e non a caso essa si snoda in 46
" reminiscenze", nelle quali realtà presente e ricordi,
proiezioni del passato e lacerazioni esistenziali permanenti si intersecano
in una scrittura dall'ordito intrigante, complesso, pregevole, come
in una scala in crescendo sullo sfondo di un paesaggio stupendo e
inafferrabile, fascinoso, qual è quello africano.
E per certi tratti l'autrice richiama alla memoria l'assunto di Tomasi
di Lampedusa, anch'egli figura in bilico e spirito inquieto: Ramos
che riassume in sé le figure dell'angolano oppresso e del portoghese
oppressore; Lampedusa che, di fronte alla conquista-liberazione garibaldina,
si sente "a cavallo di due mondi, e in tutti e due a disagio".
E anche qui non di rado il testo e sonda, facendosi poesia pensosa,
sentimento puro, in drammatici orizzonti scrutati dagli occhi dell'anima.
Anche per questo Percorsi sono una testimonianza storica di prim'ordine
nel quadro delle vicende individuali e collettive che hanno caratterizzato
gli anni della fine del colonialismo europeo.
aldo bello
Missione in
corso
Zibaldone (per
i giovani medici) è un cospicuo volume di Italo Vittorio Tondi,
che raccoglie "pagine sparse [ ... ], esperienze, considerazioni
e suggerimenti [ ... ] per una più approfondita cultura clinico-scientifica
e una ortodossa prassi professionale". Vari i temi trattati:
"elettivamente di patologia medica e di infettivologia, di organizzazione
sanitaria e di "malasanità", di etica e deontologia
professionale, di storia della Medicina, con alcuni episodi di vita
vissuta e spunti autobiografici". Ma il dato inconsueto è
questo: che è una vasta silloge di saggi scientifici, rigorosamente
redatti, ma espressi con una sintassi squisitamente narrativa, accessibile
anche a chi medico non è. Ci vuole una solida esperienza professionale,
arricchita da conoscenza e studi costantemente aggiornati, per proporre
uno strumento di comunicazione così composito, e con una equilibrata
e intrigante compenetrazione di culture, clinico-scientifica e filosofico-umanistica.
Tondi porta a termine l'operazione con grande naturalezza, forte dello
"spirito di missione" che lo permea, sulla lezione di comportamento
dei suoi maestri e per una vocazione che lo ha accompagnato fedelmente
per oltre cinquantacinque anni di professione. Destinatari canonici,
"i giovani medici"; ma anche, a nostro avviso, quanti attribuiscono
al termine "cultura" significati più vasti e pregnanti
di conoscenza, di esperienza, di ricchezza dei valori umanistici e
scientifici.
aldo bello
Mito Sauvage
Pittore e scultore
mediterraneo per autodefinizione e per vocazione, gallipolino di nascita,
attivo tra Milano e Praga, ha un sogno: creare nella città
natale il primo museo italiano di arte surrealista, con donazioni
di opere personali e di altri artisti contemporanei. Ora, se "il
sogno è l'infinita ombra del Vero", come ha scritto il
Pascoli, non c'è una sola ragione perché non si realizzi
per Max Hamlet Sauvage. Agisce in lui - sebbene, come artista, cittadino
del mondo - il richiamo delle radici, che reclama una risposta. E
d'altra parte, venendo da una polis che è figlia per linea
diretta della cultura e della civiltà di Magna Grecia, ha nel
suo Dna la dimensione estetica della vita e del lavoro. Come non corrispondere,
dunque, all'iniziativa; come opporre un diniego a quell'infinita ombra
che è il suo sogno?
Se ne era andato via giovanissimo, e a 23 anni aveva già esposto
alla "Schettini" di Milano le sue Metamorfosi, uomini e
donne "rappresentati attraverso una deformazione tormentata dall'aspetto
onirico-surreale". Fu il trampolino di lancio per le sue presenze
personali in gallerie private e musei planetari. Esponente di primo
piano nella schiera dei surrealisti contemporanei, con essi ha trovato
un terreno comune di ricerca con i precursori: Magritte, Ernst, Savinio,
Delvaux, Dalì, primi fra tutti. Ma sempre geloso di una sua
propria autonomia, di un'eccentricità creativa che è
stata matrice di una forte identità, in straordinaria sintonia
con la semantica del nome: Max, dall'imperiale assonanza romana; Hamlet,
con palesi echi shakespeariani; Sauvage, con riferimento all'idea
comportamentale roussouiana.
E' stato scritto di lui: "Il suo linguaggio di personale compenetrazione
di matrici Pop e surrealiste, lucidamente alterate da organici innesti
metaforici, si è imposto come una delle realizzazioni più
incisive e dibattute in riferimento all'articolazione figurativa della
ricerca artistica italiana. Da queste consolidate premesse stilistiche
e sperimentali discende nell'opera di Sauvage una pronunciata critica
sociale elaborata non su postulati ideologici, ma attraverso il filtro
sagace dell'assurdo e della tragicità dell'esistenza umana.
Tematiche che poi ha sviluppato anche nella dimensione tridimensionale
della progettualità scultorea".
In questo contesto rientrano, artisticamente destrutturati dalla nuda
e terrestre realtà, i suoi lavori e l'intero suo progetto artistico:
con le traslazioni nel grottesco, nell'erotico, nel metaforico, sublimati
però dal segno sicuro e da un pensiero coerente. Soprattutto
per un'azione deliberata, intenzionale, costante, volta a realizzare
sintagmi onirici in relazione con lo "Zeitgeist", lo spirito
del tempo, ma innestati in un linguaggio espressivo liberato da qualsiasi
rapporto realistico con le forme visibili del mondo. Questo è
il grimaldello segreto di Sauvage. Qui è - in potenza e in
atto - la caratura della sua arte.
aldo bello
Femminino liberty
L'esaltazione
della bellezza femminile, sublimata da un'aura classicista e al tempo
stesso arricchita da elementi moderni, definisce la pittura di Giuseppe
Afrune, poliedrico artista salentino che attinge all'arte figurativa
cinquecentesca e seicentesca del Rubens e del Caravaggio per giungere
ad una rivisitazione personale e originale dell'eterno femminino.
Del giovane pittore di Specchia si è ampiamente interessata
la critica, da Mario Monteverdi a Giuseppe Selvaggi, a Jean Louis
Rampart, a Cecil Mannington, sottolineando l'eros e la sacralità
presenti nei suoi dipinti. La mistica carnalità che pervade
le sue figure scaturisce dal connubio tra le sue intime sensazioni,
i suoi impulsi creativi e una sostanza culturale, una tecnica agile
e disinvolta che sono in continuo divenire.
L'amore per l'arte figurativa, come pure per la scultura, nasce in
Afrune fin dall'infanzia e trova immediata espressione nell'acerba
fanciullezza. A dieci anni l'artista dipinge il suo primo quadro.
Il realismo e il senso di universalità che permeano le sue
creazioni iniziali traggono origine dalla sua anima salentina, dalle
immagini campestri ed assolate della sua terra, rimastegli impresse
nella mente e nel cuore. Nascono così le scene di vita familiare
e contadina che caratterizzano la sua produzione figurativa degli
esordi, in cui l'artista adopera la pittura ad olio o la pirografia
su legno.
Da queste immagini e dal suo iniziale modello ispiratore, Renato Guttuso,
Afrune si discosta progressivamente, approdando alla fase del nudo
femminile, per giungere infine alla produzione più recente
che, attraverso la tecnica dell'affresco, celebra figure femminili
misteriose e sensuali, immerse con la loro prorompente fisicità
nell'atmosfera gaudente dei bistrot francesi di fine '800. Questi
luoghi d'incontro così vagheggiati ed esaltati dall'artista,
ospitano donne enigmatiche e sofisticate, sognanti e voluttuose, di
cui vengono sottolineati gli sguardi, i gesti, le emozioni. Il volto
domina lo spazio, catalizza l'attenzione, ma sullo sfondo il bistrot
è sempre presente con le sue luci e le insegne luminose che
campeggiano nei dipinti.
Sono talvolta ritratti di gruppo che Afrune presenta, come L'ora del
caffè, La compagnia, Ascoltando Bach; ma spesso l'attenzione
si posa su un solo oggetto, come avviene in Elisa, L'isolana, La contessa,
Tra i pensieri, Donna di classe nel bistrot o Bellezza mediterranea.
Sono quadri in cui l'artista propone figure femminili cariche di eros,
con le labbra vermiglie, lo sguardo misterioso, adornate da cappelli,
diademi, monili e acconciature esotiche che le rendono ancor più
seducenti.
Anche nella rappresentazione della bellezza femminile nel bistrot
Afrune passa attraverso varie fasi. Dall'iniziale impressionismo sostenuto
da una cromaticità violenta, il pittore approda a figure più
definite utilizzando la tecnica dell'iperluce, basata sull'impiego
di colori fluorescenti che, illuminati dalle lampade wood, creano
il senso della tridimensionalità. Infine, usa l'affresco per
esaltare maggiormente lo scenario d'ambientazione dei suoi dipinti,
composto ultimamente da orchestre sinfoniche, cattedrali o strutture
barocche, fregi, capitelli che conferiscono ai quadri eleganza e sobrietà.
Abbandonati i colori violenti, Afrune impiega tinte smorzate, tenui.
La figura femminile, in questo nuovo contesto, appare quasi l'immagine
riflessa di uno specchio dell'anima.
marilena nicolardi
Cosmogonie
Forse, per caratterizzare
alcune delle opere più impegnate di Toni Zanussi, verrebbe
fatto di parlare di "cosmo-gonie" piuttosto che di "geometrie".
Proprio partendo dal significato etimologico di queste parole.
Effettivamente la ricerca cromatica, la strutturazione dei dipinti,
il tendere delle forme verso un orizzonte remoto e mai raggiunto fanno
pensare ad una sorta di ansia metafisica, di slancio ascensionale
verso un mondo che non è quello terrestre, ma piuttosto quello
di un cosmo in formazione: forse pronto a esplodere, forse in via
d'assestamento, ma comunque non influenzato da leggi fisiche, da categorie
terrestri.
Non so se, da questo groviglio di forme e di colori - di punteggiature
e velature, di macchie e ombre - Zanussi riuscirà a configurare
in un prossimo futuro, un panorama più organico e armonico;
ma non è questa, credo, la sua ragione di dipingere: anzi,
è proprio attraverso la costante e contrastante marea di forme
in divenire, di circuiti e labirinti inesplorati, che l'artista friulano
riesce a esprimere un suo personalissimo universo figurativo, dove
l'assenza di figurazioni esplicite è sostituita da una visione
metaforica della realtà.
gillo dorfles