§ NARRATIVA DAI PAESI DEL SUD

PERCORSI DI WANDA RAMOS




Roberto Vecchi
Docente di Lingua e Letteratura Portoghese - Università di Bologna



C'è un'Africa largamente inesplorata e ancora in gran parte sconosciuta ai lettori italiani, un'Africa lontana anni luce da suggestioni esotiche o luoghi comuni convenzionali. E' un'Africa assente, oggi, dalle carte geografiche, cancellata dalla lavagna della Storia dal venti frementi indipendentistici che l'hanno percorsa tra gli anni '60 e '70 che ne hanno decretato una volta per tutte l'archiviazione, la disfatta inappellabile dinanzi all'impetuoso, inarrestabile emergere del bisogno di autodeterminazione dei suoi popoli.
E' l'Africa coloniale portoghese, quella che la retorica declamatoria ufficiale designava con uno sgraziato eufemismo conciliatorio "province oltremarine", un filo ininterrotto lungo oltre cinque secoli che univa la Metropoli portoghese, finisterra d'Europa, con alcuni improbabili Eldoradi, da popolare e depredare a piacimento, in virtù del primato espansionistico.
Tra questi, l'Angola, forse il più avvinto in questo indesiderato e soffocante cordone ombelicale: della sua vicenda di redenzione, con l'agonia ormai rantolante del progetto imperialistico che sprofondando trascina con sé la dittatura salazariana allo spasimo, ci sono giunti tradotti echi distinti e luminosi, dalle voci resistenti dei musseques della Luuanda di José Luandino Vieira, ai crepitii del fronte di guerriglia in Mayombe di Pepetela.
Ma non era ancora pervenuta al pubblico italiano alcuna voce di quella che in Portogallo si suole ormai chiamare la "generazione della guerra coloniale", quella che dal versante tumultuoso portoghese impegnato su più fronti critici - non ultimo quello interno - ha vissuto ed è stata testimone oculare del conflitto, se si eccettuano i nitidi riflessi presenti sullo sfondo di La costa dei sussurri di Lidia Jorge.
E' la memoria resa in forma narrativa o lirica di questa lost generation lusitana che ha dato vita in questi anni, in particolare dopo la Rivoluzione dei Garofani, ad una densissima produzione letteraria che ha come riaperto, sul filo del ricordo personale e collettivo, la lettura storica di quei tempi, traumatici e tenebrosi per un'intera generazione a cui erano stati interdetti parole e desideri, fatta crescere precocemente anche attraverso il battesimo del fuoco della prima linea in nome di una ideologia oscurantista ed alienata, ormai in fase di inarrestabile declino. E se oggi ci si vuole affacciare sulle pieghe intime di quegli accadimenti talora indecifrabili nelle loro mostruose conseguenze, occorre rivolgersi proprio a loro, al fragile intrico di frammenti delle loro storie personali che si incrociano spesso drammaticamente con la Storia collettiva di quegli anni, in cui si può trovare un terapeutico, purificatorio rispecchiamento.
La letteratura di guerra ha sempre rappresentato costitutivamente - come si può ben intuire - un genere letterario, per così dire, androcentrico: anche per questo il romanzo Percorsi (dal Luachimo al Luena) di Wanda Ramos (Guaraldi-Aiep, 1996), il primo romanzo femminile integralmente dedicato all'esperienza autobiografica angolana prima della colonia, poi della guerra coloniale, segna un momento fulcrale all'interno di questo vasto movimento letterario.
La vicenda biografica della sua autrice è indispensabile perché è proprio essa a fare da palinsesto sostanziale al romanzo autorappresentativo: Gelfemina Wanda de Carvalho Vidal Ramos - questo il nome completo - nasce in Angola, nel Dundo, nel 1948 e qui trascorre buona parte dell'infanzia; emigra poi a Lisbona per condurre gli studi secondari ed universitari (si laureerà in Filologia germanica); all'inizio degli anni '70, in piena guerra coloniale, fa ritorno in Angola col marito medico in servizio militare distaccato sul fronte est: questa circostanza, come peraltro risulta evidente nel testo, accende il lavoro della memoria, volontaria ed involontaria, sulla sua infanzia angolana.
Ebbene, è solo la rimessa del testo a questo scarno profilo del vissuto dell'autrice, esterno alla narrazione, che lascia intravedere il consistente spessore autobiografico del romanzo, perché il patto di lettura autorappresentativo non viene mai siglato esplicitamente nell'opera, anzi il movimento va proprio in direzione opposta: l'autrice non dice "io", ma maschera gli innumerevoli riflessi autobiografici dietro un narratore alla terza persona, creando così uno spazio, una distanza tra autore e narratore che è il luogo del letterario, dove è ammesso il ricorso alla finzione, agli artifici della scrittura. Maschera dunque che esorcizza ogni tentazione di rispecchiamento immediato, di valore testimoniale e storico, ma che al contempo non esclude la possibilità di riflettersi in quello specchio infranto del passato, nel cui frantumi è ancora facile oggi tagliarsi, anzi questo ricalco solo parziale del vissuto amplifica, nell'accordo con la finzione narrativa, le potenzialità rappresentative di tutta una dimensione simbolica ed emotiva che il resoconto documentario in sé non ammetterebbe.
Ma è tutto il romanzo che si fonda su questo dominio sapiente dell'insufficienza del discorso per trarre proprio da essa il massimo di possibilità narrativa: l'insufficienza insomma finisce col diventare struttura. Insufficienza per esempio del modello narrativo che in apparenza richiama a tratti il modo del romanzo di formazione nel rievocare infanzia e adolescenza, ma che sistematicamente negli esiti narrativi si discosta da esso, al punto che nell'epilogo la conciliazione non avviene tra il personaggio-narratore e il mondo, ma al contrario il suo disadattamento alla norma (prima di figlia, poi di moglie) continua e l'unica mediazione che si dà è quella del narratore con se stesso, ovvero con la persuasione di poter scrivere il passato. Insufficienza ancora della memoria che non si dispiega linearmente, ma attraverso un incessante alternarsi di amnesie e bagliori, di vuoti e di interferenze: per questo la catena di "reminiscenze" su cui si articola il romanzo non segue l'ordine cronologico, ma lo sovverte e in modo drastico.
Troviamo allora i diversi livelli temporali del passato che si rimescolano, si contaminano tra loro, caos apparente per il lettore che cercherà magari di ricostruirsi un "proprio" percorso di lettura più sequenziale, non avvertendo che è proprio quel disordine ad organizzare il testo.
L'effetto che sortisce questo tipo di resa in superficie è infatti quello di recuperare, nella vertigine della mescolanza, un senso nel vissuto, di dare del passato non solo una rappresentazione coerente, ma anche la sua intera interpretazione, dove le categorie del tempo si dissolvono l'una nell'altra, il passato diventa presente (o il passato remoto si fa passato prossimo) e il presente si volge in passato. L'esperienza della guerra coloniale può essere allora compenetrata dall'esperienza del passato - dunque, in questo modo, ne viene esplicitata l'origine nelle forme autoritarie e discriminatorie del colonialismo bianco, così come era praticato dal padre nella Compagnia o dai portoghesi negli anni dell'infanzia - e parimenti la temporalità dell'infanzia viene investita dagli eventi a venire, portando alla luce gli effetti degenerativi dell'educazione distorta, repressiva e preconcetta della civiltà colonialistica. Il narratore può recuperare così il senso pieno dell'esperienza (il cui significato etimologico è proprio questo: un pre-venire-da e un andare-attraverso, ovvero origine e percorso del movimento, dell'esistere) e ricomporre all'interno di un'altra temporalità - che è quella esotica, con i cinque tempi di modulazione narrativa: inizio, limbo, iato, interludio e proscenio - lo specchio infranto del vissuto.
Anche lo spazio è chiamato a territorializzare la centralità del tempo: lo testimoniano i contrassegni toponomastici dei due fiumi, il Luachimo e il Luena, che designano in realtà i due tempi evocati, quello dell'infanzia e quello della maturità, il tempo trascorso nella Compagnia con la famiglia, imprigionata in un incomprensibile reticolo di interdizioni, sino al Luena della maturità, il fiume a cui si ritorna, come vuole la leggenda indigena, una volta che se ne sono conosciute le acque e che la spinge a tornare al Luachimo memoriale. Fiume allora come figura che condensa in sé l'immagine simbolica del tempo e dunque anche della memoria. Sono questi motivi che creano la coesione del tessuto narrativo, il suo intimo ed invisibile parallelismo (si veda ad esempio la ricorrenza dell'immagine del fiume come connettore tra la 32°, la 15° e la 33° reminiscenza), tracciano insomma il percorso tra residui eterocliti del ricordo.
Ma in questa oscillazione tra simbolico e reale, la lettura può anche essere per intero rovesciata: ovvero il tempo traccia una mappa, una geografia dell'Africa - e anche del continente, della Metropoli - del tutto mentale, di uno spazio perduto o forse mai per intero posseduto, iscritto nel passato dell'esperienza coloniale, la crisi inarginabile di una identità condannata per sempre all'indeterminatezza - né angolana, né portoghese e, insieme, parte di entrambe -, deriva perpetua in una terra di nessuno compresa tra i due Paesi a cui non appartiene pienamente, emblema tragico di una doppia perdita che sottende in fondo il fallimento più complessivo del progetto colonizzatore. Questa coscienza è già viva e presente nell'infanzia, quando il "puto", il Portogallo, le appare un Paese inesistente (10° reminiscenza), attestato con vaghezza solo da parole, ricordi, regali, fotografie, nostalgie altrui, nelle quali è impossibile riconoscersi, che destano un senso di estraneità, di sradicamento assoluto rispetto al Paese di origine (perfettamente reso nel ricordo grottesco dello sbarco a Lisbona e dell'incontro con i parenti sconosciuti con cui dissimulare affetti inesistenti). Così come la cultura indigena entra in lei, nella temporalità universale della festa, con i muquixes, le danze ed i canti rituali di un universo che "lasciava sempre sulla soglia di casa e che le si rimescolava dentro", mostrandole da subito la distanza incolmabile, l'urto sordo tra la sua cultura - cultura colonizzatrice - e le culture colonizzate ridotte nelle loro manifestazioni a puro ornamento esotico, assaporato dai bianchi come saggio di folclore a riprova delle loro magnanimità nei confronti di quelle genti (14° reminiscenza).
Il colonialismo portoghese subisce in queste memorie una sconfitta senza appelli, sia nella sua epoca di auge - ideologicamente retrograda, filtrata attraverso l'educazione che la narratrice riceve, elitismo razziale, provincialismo becero, repressione del desiderio -, sia tra le rovine di questo mediocre impero sgretolato ormai dalla guerra - l'opportunismo e il grigiore delle famiglie dei militari alienati, il senso immanente di putrefazione, decadenza di un mondo sorretto ormai solo dalla retorica vuota. A lei non resta che l'impressione dolorosa di posticcio e di astruso, di nausea e di rigetto per una guerra tanto assurda quanto assurdi sono i valori in dissoluzione della politica colonialista nei quali è stata allevata, stato questo che rende ancora più tagliente il contrasto tra dentro e fuori, tra sé e l'Africa, il contatto assoluto con le esuberanze del paesaggio africano, il desiderio impossibile di stare a tu per tu con il cielo d'Angola.
Ma l'abbandono in cui viene a trovarsi, dopo l'anno trascorso a ridosso di una guerra impropria, in piena crisi personale e coniugale, si trasforma in una condizione esistenziale privilegiata di accesso al passato, all'autocoscienza, per dare corpo a quel romanzo "inconseguente e precoce" che porta dentro di sé, il ritorno alle acque lustrali del fiume dell'infanzia, che conducono agli altri fiumi della sua vita, riscatto da quel doppio giogo, quella doppia oppressione a cui è sottomessa, di donna senza terra che appartiene ad una generazione sacrificale. I percorsi si snoderanno allora tra tutti i frammenti di passato e di Africa perduti, tra i resti del suo specchio infranto dove infine potrà guardarsi non narcisisticamente (dicendo "io"), ma accettandosi come altro da sé: non a caso nel momento in cui trova il coraggio di porre una pietra definitiva sul passato, fa proprio per intero il rimbaudiano "je est un autre", che, oltre ad emblematizzare la sua crisi d'identità, contiene implicita anche la regola del gioco autobiografico.
Ora sì, può rappresentarsi attraverso la scrittura, esibirsi sul proscenio che costituisce la fine del percorso ma, a ben guardare, segna l'inizio del romanzo. Ora la carta su cui ricostruire i percorsi del passato è pronta, occorre solo lavorare sulle bolle dei ricordi, materiale malleabile, da ricomporre, riplasmare nel simulacro che meglio rappresenti il suo itinerario di perdite e desistenze di Afriche e di Europe, di piccoli e grandi orrori inconfessati. E quando questo avrà assunto le fattezze definitive, sarà diventato oggetto, prodotto, potrà allora essere aperto allo sguardo degli altri, consegnando a tutti coloro che si sono smarriti nei meandri di altri fiumi, di altre Afriche, contenere una vicenda ormai non più solo personale, trasmettersi come esperienza piena e comunicabile, farsi appunto "recipiente, vaso comunicante, comunicazione".


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