§ UN RICONOSCIMENTO PER LA VITA

GRAZIE, COME PREMESSA




E. Paolo De Luca Andrioli



Alcuni mesi addietro il Direttore Generale, Dott. Rampino, mi confidò l'intenzione di intitolare la Divisione da me diretta al Prof. Italo Vittorio Tondi. La sua aspettativa era certamente quella che nulla opponessi al suo disegno e comunque nulla io avrei mai fatto in tal senso. Forse però non immaginava che il progetto potesse incontrare la mia entusiastica approvazione.
Vittorio Tondi è da tutti conosciuto: primo a dirigere per oltre un decennio, dopo averla tenuta a battesimo, la Divisione di Malattie Infettive, glorioso internista e intettivologo, studioso apprezzato e penna di grandissimo pregio e prolificità in campo scientifico e non.
Egli però è stato per me più di tanto: insegnante e guida, più di me stesso artefice della mia affermazione in questo Ospedale, da Lui in tanti anni preparata con perseveranza e affetto.
Di tanto gli sono immensamente grato e questa mi pare essere l'occasione, insperata, per dimostrargli pubblicamente riconoscenza, gioire con Lui e per Lui, con altrettanto affetto, godere del riconoscimento che gli si offre, per il ricordo che sempre lo seguirà in un Ospedale, in cui e per cui ha lavorato, in esso profondendo energie, conoscenza, perizia, amore e tanta umanità.
Egli non è oggi presente perché ammalato, ma il caso o la Provvidenza ha voluto fornirgli una incontestabile giustificazione. E' mia convinzione che Egli comunque non sarebbe stato qui con noi, timoroso di non sopportare una così grande emozione nel ricevere in vita un così alto e prestigioso riconoscimento.
Ancora una volta ha voluto esprimere l'affetto verso il suo Aiuto caricandolo di una grande e, questa volta sì, inaspettata responsabilità, chiedendogli non di rappresentare ma addirittura dare voce al suo Vecchio Maestro. E' questo che mi accingo a fare con grande orgoglio:

Allocuzione del Prof. Italo Vittorio Tondi

PAZIENTI E STAFF SANITARIO NEGLI OSPEDALI

Carissimi,
Del vecchio ma sempre attuale e pregnante problema in conferenze e articoli mi sono più volte occupato.
A parlarVi mi inducono le persistenti, veementi e inindulgenti critiche che giornali e mass media quotidianamente ci propinano, di cui alcune ammantate da sentenze in itinere e altre da sentenze passate in giudicato. Non sarò aprioristico apologeta di una classe corporativa, ma esegeta di alcune situazioni, disfunzioni, incidenti e reati di cui è accusata e pregiudizialmente condannata.
Premetto che se tutti noi, medici e paramedici, operassimo secondo i precetti di Ippocrate e le norme dal Codice Deontologico previste, le mie parole non troverebbero giustificazione.
Da gregario prima e da primario e direttore sanitario poi, ho trascorso 42 anni della mia attività professionale negli ospedali. Ciò penso mi consenta alcune considerazioni e riflessioni.
Ricordo come, storicamente, l'assistenza al malato, improntata dapprima su di un piano caritativo-spirituale, sì da essere considerata un atto d'amore verso i sofferenti, abbia assunto, successivamente, un carattere tecnico-pratico, legato alla preparazione e alla esperienza e, attualmente, una veste decisamente scientifico-professionale, condizionata alla cultura, alle capacità tecniche e alla sensibilità dell'équipe assistenziale. Al primitivo e originario binomio quindi di vocazionemissione, cui seguì quello di arte-missione, è oggi subentrato il trinomio di arte-professione-missione, dovendosi ritenere la preparazione teoricopratica e quella psicologica prioritarie.
"Infirmorum cura ante omnia et super omnia adhibenda est": la saggia, umana e orante espressione benedettina è di sì alta significazione spirituale e di così profondo contenuto etico da farei sentire l'impegno e la responsabilità per una tra le più nobili attività per le quali l'uomo vive e opera.
La crisi dell'assistenza sanitaria negli ospedali è riportabile a cause estrinseche e intrinseche. Omettendo di parlare di quelle estrinseche, che investono il Governo, le autorità, gli "addetti ai lavori" e la stessa organizzazione del SSN, mi soffermerò su una sinottica analisi di quelle intrinseche.
E' risaputo che i malati non gradiscono la ospedalizzazione. Se poi, volenti o nolenti, finiscono con l'accedervi su pressione del curante o per motivi diagnostico-terapeutici, lasciano l'ambiente familiare con estremo disagio, anche nella incertezza o paura del nuovo. Nella loro accettazione è implicita e sottintesa per alcuni la convinzione di un breve periodo di degenza col rapido ripristino della salute e, quindi, del ritorno a casa; per altri, invece, può essere il segnale che un male oscuro si nasconda e vi accedono nella speranza che altri medici e altre cure possano migliorarli o guarirli.
Dalla accettazione al reparto di destinazione il tragitto deve essere breve, a meno che non subentrino difficoltà logistiche o contrastanti pareri diagnostici, che ritarderebbero, oltre ogni ragionevole limite, il ricovero. Una volta in reparto, il paziente viene accolto da uno o più paramedici che comunicheranno ai medici l'avvenuto ricovero.
Se l'impatto sarà di cortesia, simpatia, comprensione e apertura verbale, sussisteranno già le premesse per un accattivante rapporto, in un clima confidenziale che non farà eccessivamente rimpiangere il nido domestico. Se il paziente viene invece accolto con indifferenza, insensibilità, incomprensione per le sue sofferenze e, persino, con arroganza, è facile prevedere l'esordio di un rapporto conflittuale, di cui il Primario dovrà tener conto per sanarlo.
Occupato il suo letto e conosciuti i compagni di corsia, egli resta in ansiosa attesa del medico con il quale darà l'avvio ad un confidenziale e aperto dialogo se questi, guardandolo negli occhi, lo ascolterà con attenzione. Soddisfatto dell'approccio, pur nel disagio della situazione logistica e della limitazione della sua "privacy", sarà un buon paziente, disciplinato, disponibile alle indagini e alle cure. Il Primario dovrà farne conoscenza il più presto possibile e sarà tenuto, come da regolamento, a visitarlo tutti i giorni della sua presenza in reparto, non demandando ai colleghi tale compito-dovere. Si instaurerà, allora, una "empatia dialogica", positiva ai fini prognostico-terapeutici.
Gli psicoanalisti e gli psichiatri fanno rilevare che nel rapporto col malato nasce quel processo, definito transfert, che si estrinseca in una dipendenza interpersonale.
"Applicato al paziente, il transfert - asserisce L. Ancona - rende conto del perché egli, verso chi lo cura, si trova in stato di intensa speranza, di fascinazione, di amore, oppure di sospetto, di delusione e di avversione; può essere nel contempo animato dall'aspettativa di essere aiutato oppure dal timore di non esserlo per incapacità o per volontà perversa; può quindi essere sottomesso, dipendente, oppure può essere reattivo, rivendicativo di ogni suo diritto che possa ritenere contestato".
Accennando all'attività e funzionalità del reparto, è a dirsi che se autorità e responsabilità sono in mano di un direttore d'orchestra chiamato Primario, egli dovrà servirsene con intelligenza, saggezza, tatto, imparzialità e umanità, e i suoi collaboratori, assecondandolo e attivamente collaborando, dovranno avere per lui rispetto e stima, anche se, talvolta, non ne condividono pareri e decisioni. Tutti i componenti lo staff sanitario sono anelli indispensabili di una catena di montaggio chiamata assistenza.
Tutto il dinamismo operativo del reparto deve quindi concentrarsi sul malato, che va considerato nel rispetto della sua personalità e dignità, come unità somato-psichica, valutato nella qualità ed entità del suo male, nelle sue sofferenze, nel suo temperamento e comportamento, nel suo stato civile, sociale e professionale, nelle sue ideologie, nelle sue preoccupazioni familiari, economiche e di lavoro.
Se l'attività multiforme dello staff assistenziale, pur fortemente stressante, si svolgesse in simbiosi col malato e in armonia con le sue diverse componenti e in una solida collaborazione con le équipes delle altre Divisioni (quando il malato sia di interesse interdisciplinare), non si determinerebbero, almeno nella misura con cui vengono segnalate e propagandate, quelle disfunzioni, deficienze e rimostranze che rendono confuso, rissoso e controproducente il clima di un luogo di cura e che inducono molti pazienti ad abbandonarlo ed altri a rifiutarlo.
Ciò ha indotto, con nostra umiliazione e mortificazione, alla istituzione dei "Tribunali per i diritti del malato" e dei "Comitati etici ospedalieri", al fine di evitare o eliminare quelle carenze, ritardi, disfunzioni, omissioni e soprusi molto spesso denunciati e dai mass media enfatizzati.
I componenti del "team assistenziale" devono dimostrare di essere in possesso di grande tolleranza e filiale comprensione per gli "anziani", il cui stato mentale, oltre a risentire il peso degli anni, è aggravato da una condizione aterosclerotica e dalla preoccupazione per i loro mali, per cui sono spinti, talora, a reazioni abnormi. Molto umanitari devono appalesarsi nei confronti dei malati e portatori dell'HIV, non giudicandoli lebbrosi o untori, soggetti abietti o reietti, ma persone di immensa comprensione abbisognevoli. Altrettanto dovrebbero esserlo per i più sofferenti, per gli affetti da mali irreversibili e a lungo decorso, elettivamente per i moribondi, non lesinando loro parole di conforto, una carezza, uno sguardo dolce, un sorriso.
"Un sorriso non costa nulla e produce molto - ha scritto padre Faber - arricchisce chi lo riceve, non impoverisce chi lo dona". E circa cent'anni or sono il principe della Medicina clinica, Augusto Murri, rivolgeva ai suoi discenti queste invocative parole: "Se ci mancasse questo vincolo d'amore, che stringe tutti gli uomini, se ci mancasse questo sentimento, che c'ispira pietà per la sorte comune, se ci mancasse questa aspirazione di dare il meglio di noi per rendere la vita umana sempre più nobile e meno infelice, quali attrattive ci fermerebbero più a sopportare le angosce dell'esistenza?".
Un pensiero di simpatia, di rispetto, di gratitudine m'è d'obbligo per quei silenziosi gregari costituenti il microcosmo degli "ausiliari" (nel quale militano diplomati, laureandi e laureati), per il senso di umiltà, di dignità, di responsabilità, di abnegazione, di comprensione e compunzione con cui svolgono le mansioni più degradanti e mortificanti, per l'impegno e la diligenza con cui cercano di sopperire alle loro personali insufficienze e alle loro limitate capacità tecniche e cultura, per la loro sensibilità e solidarietà al dolore umano.
Ciò che mi ha attirato le antipatie, i non consensi, e, ovviamente, anche le critiche di molti colleghi è stata ed è la mia idiosincrasia per gli scioperi ospedalieri (non solo selvaggi): essi m'hanno sempre visto "obiettore di coscienza".
Chi da gregario, ma, soprattutto da dirigente "a rischio", vive giornate di sciopero ne esce fortemente turbato e psicologicamente traumatizzato. Assistere, confortare gli ammalati, vedere nei loro volti e leggere nei loro sguardi la incredulità, il disappunto, l'amarezza e l'acuirsi delle loro sofferenze per i ritardi, le omissioni, le carenze, le assenze, per chi è presente è un'angoscia indescrivibile. Vivere responsabilmente le drammatiche situazioni che vengono a determinarsi nel Pronto Soccorso, nei reparti, essere nella impossibilità e impotenza di rimediare alla stasi dei servizi di laboratorio, di radiologia, di traumatologia e delle cucine, visionare lo stato igienico delle corsie e dei bagni, ascoltare le lamentele, le maledizioni, le imprecazioni e le reazioni, anche violente e minacciose, dei parenti, è penosissimo ed eticamente inumano!
Ai colleghi che non condividono il mio ragionamento e comportamento (forse perché non tutti hanno occupato posti e ruoli di alta responsabilità, anche legale) e ai quali la mia posizione mentale può sembrare o essere antisindacale (ma non immorale) oso chiedere perché alcuni o molti di noi, quando tra i ricoverati o ricoverandi, sofferenti nel corpo e nell'anima, vittime innocenti di una parziale o totale paralisi delle attività assistenziali e funzionali di un Ospedale, vi sono dei nostri familiari e parenti, perché - ripeto - contestiamo le motivazioni e le giustificazioni che allo sciopero hanno indotto?
Non vorrei esservi apparso sotto le vesti del puritano né del predicatore e precettore, ma sotto l'umile saio di un pedagogo che, con una malcelata presunzione, vuole suggerire ai giovanissimi e giovani colleghi le vie da percorrere, perché la fatica di tutti, soldati al servizio della vita, sia premiata dalla gratitudine, dall'affetto, dall'amore di chi di essa ha beneficiato e beneficia.
Non mi sono mai sottratto ad una analisi autocritica e da essa ho appreso che la perfezione è irraggiungibile, ma che ad essa si può e si deve sempre aspirare!
"Io ho quel che ho donato" - è scritto sul portale del Vittoriale dannunziano - sia quel motto il nostro credo.
Concludo queste mie pretenziose ma sofferte considerazioni, in una ultracinquantacinquennale esperienza professionale maturate, con le sublimi parole, nelle quali è racchiuso e trasfuso lo spirito, l'affiato e l'etos di una Medicina umanizzata, dal celebre clinico Cesare Frugoni ereditate: "Dobbiamo essere consapevoli che per quanto ci si prodighi per i nostri ammalati non faremo mai abbastanza e che nessuna professione o missione ha, come la nostra, tanto contenuto ideale di bontà, di nobiltà, perché è divino rialimentare la fiamma della speranza, trasformare il pianto in sorriso, la disperazione in fede e arrestare la morte per ridare la vita ... ".


Ha parlato il Maestro ed io e voi abbiamo ascoltato la sua ultima lezione. Chiudo con la commozione e l'orgoglio di essere da oggi il primo a dirigere la Divisione di Malattie Infettive intestata al Suo nome.


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