§ Per rilanciare l'occupazione

QUALE SVILUPPO




Renato Ruggiero
Direttore generale Wto (World trade organization)



La mondializzazione non è un'opzione, una scelta che possiamo fare o non fare; è una realtà, ed è una realtà quotidiana. E' presente nella nostra vita, quando ci svegliamo la mattina con una radiolina di marca giapponese che è stata fabbricata, magari, in Malesia, o quando entriamo in un'automobile perché, qualunque sia la marca, possiamo stare certi che almeno metà dei componenti provengono da altri Paesi.
La globalizzazione ha sempre più una dimensione umana, come dimostrano le grandi masse di immigrati clandestini che cercano di avvicinarsi ai Paesi più ricchi; questo dà la dimensione delle attese e delle speranze che contraddistinguono questo fenomeno. La considerazione di fondo è che la globalizzazione è il risultato del successo della politica di apertura delle economie e dell'adozione dei principi di mercato da parte di tutti i Paesi del mondo. La riprova sta nel fatto che i Paesi che crescono più rapidamente sono quelli in via di sviluppo che hanno scelto la liberalizzazione dell'economia e l'apertura degli scambi.
L'ultimo e più recente è il caso del Vietnam che, non appena ha deciso di aprire la propria economia, ha avuto, negli ultimi tre anni, il maggior tasso di crescita nel mondo, tra il 22 e il 25 per cento all'anno. La verità è che la mondializzazione ha consentito a due miliardi di uomini in Asia, in America Latina e in alcuni Paesi dell'Africa di uscire dal cielo della povertà assoluta e di entrare nel ciclo della produzione e del consumo. Certo, rimane una grande massa di uomini e di popoli ancora emarginata, ma questo vuol dire che dobbiamo ampliare il processo, semmai correggerlo, ma non arrestarlo.
Ci si chiede: come si può governare questo fenomeno sia a livello di singoli Stati che di organizzazioni mondiali. Non c'è dubbio che la globalizzazione, che è il fenomeno dominante di questa fine di secolo e che sarà ancora più determinante nel XXI secolo, presenta, insieme a delle opportunità senza precedenti di crescita e di progresso, anche dei grandissimi rischi, come tutte le grandi rivoluzioni.
E' difficile sapere oggi se la globalizzazione continuerà ad essere un fenomeno positivo oppure no: sarà quello che noi uomini sapremo costruire. La World trade organization cerca di porre delle regole e delle discipline internazionalmente negoziate sulla base del consenso di tutti i popoli che ne fanno parte e sulla base di una capacità di imporre il rispetto di queste regole.
Ovviamente, più andiamo avanti nel processo di globalizzazione, più si pone il problema di come migliorare la governabilità di questo mondo e di come migliorare il funzionamento di tutte le grandi organizzazioni mondiali e di organismi quali il G7. Il mondo sta cambiando, se si pensa che alla Wto, prima dominata dai grandi Paesi industrializzati, l'80 per cento dei membri è attualmente costituito da Paesi in via di sviluppo, e i ventotto candidati ad entrare nell'organizzazione o sono Paesi in via di sviluppo o sono economie in transizione, come Cina, Russia e Vietnam.
Un'obiezione che si fa frequentemente è che mentre il mondo, appunto, cambia rapidamente, l'Europa sembra chiusa in se stessa, incapace di creare sviluppo e occupazione. La verità è che l'Europa non è una "fortezza" chiusa, come viene spesso definita. Certamente, abbiamo ancora problemi di protezionismo agricolo, abbiamo il problema del protezionismo tessile, ma la realtà è che l'Europa non ha fatto ancora grandi progressi sulla strada dell'aggiustamento strutturale per meglio cogliere i vantaggi della globalizzazione. E questo si ripercuote sulla capacità di costruire posti di lavoro e di avere una maggiore crescita economica.
Le ragioni sono molte, ma la principale è che, fino a questo momento, non c'è stato un messaggio adatto a colpire l'immaginazione delle opinioni pubbliche sulla necessità di accettare una serie di cambiamenti che sono necessari per vivere meglio, per crescere di più, per creare più posti di lavoro. L'Europa si rifugia in un concetto ormai superato di stabilità, concepita come immobilità del posto di lavoro, si rifugia nel considerare che lo Stato sociale, per essere veramente efficace, deve coprire tutti i bisogni di una società. Tutto questo deve cambiare profondamente. Basti pensare che, secondo una statistica, il 50 per cento dei giovani europei aspira ancora ad un posto stabile.
Chi porta la responsabilità di questo stato di cose? La classe politica europea e i media europei hanno grandi responsabilità. Ho letto con interesse le dichiarazioni di Chirac e di Khol, i quali hanno insistito sulla necessità di cambiamento per meglio inserirsi nella mondializzazione.
Lo voglio ripetere, per evitare equivoci: la mondializzazione non è in contraddizione con lo Stato sociale, è in contraddizione con uno Stato sociale che spreca risorse per coprire e assistere casi che non meritano di essere assistiti. Uno dei principali problemi che si pone, specie in Italia, è quello di una nuova etica del lavoro. Mi sembra che, in gran parte, noi siamo rimasti legati ancora al concetto della supremazia dell'impiego statale sull'impiego creativo e a rischio.
Se continueremo così, non faremo altro che distruggere risorse che potrebbero essere utilizzate per scopi produttivi e per creare nuovi impieghi. Della globalizzazione avremo soltanto gli effetti negativi e non quelli positivi.
Come uscirne, allora? Uno degli elementi essenziali è la scuola, è la formazione per preparare i giovani alle nuove strutture mobili e flessibili del mercato del lavoro. Abbiamo anche bisogno di strutture economiche, finanziarie e imprenditoriali molto più aperte ai rischi connessi con lo sviluppo delle nuove tecnologie. Tutti i dati, anche quelli più recenti, danno l'Europa in netto ritardo in questi settori. Nel '97, per esempio, l'Unione europea sarà superata dai Paesi emergenti nel numero dei personal computer posseduti. Che dire di più?


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