§ Mutazioni planetarie

IL CAPITALISMO DEL NOSTRO SCONTENTO




John D. Brighton, Franco M. Leoni



Nome: Jeffrey Vinik. Età: 37 anni. Professione (fino a poco più di un anno fa): responsabile del Magellan Fund, il gioiello della Fidelity Funds, l'impresa familiare del Massachusetts numero uno al mondo nel campo del mutual funds con ben 400 miliardi di dollari di patrimonio amministrato, pari a un terzo del debito pubblico italiano. All'interno della Fidelity, il Magellan da solo gestisce, impiegandoli soprattutto in azioni, 56 miliardi di dollari; le sue quote figurano nei patrimoni familiari di 4,5 milioni di americani.
Dal '92 al '95, Vinik è riuscito in un'impresa quasi incredibile: mentre i fondi di grandi dimensioni tendono a risultati prossimi alla media degli indici di Borsa, il Magellan ottiene incrementi annui superiori di 7,5 punti all'indice più diffuso di Wall Street, lo Standard & Poor's 500. Chi ha investito nel Magellan in questo periodo ha realizzato aumenti patrimoniali del 16% medio annuo. Un risultato eccezionale, che ha fatto delle strategie borsistiche di Vinik l'oggetto di studio da parte di concorrenti e ammiratori.
Poi, la caduta: Vinik, convinto sostenitore delle possibilità di crescita del settore hitech, cambia cavallo. Pensa che si sia toccato il massimo e si ritira dal comparto, puntando sul reddito fisso. Il mercato obbligazionario, però, segna il passo, mentre le nuove prospettive di Internet trascinano i titoli elettronici ad altezze vertiginose. Risultato? Da capoclassifica, Magellan precipita all'812° posto su un totale di 820 fondi. Vinik è costretto a dimettersi. La sua è una parabola esemplare che consente cinque considerazioni importanti.
1) Le trasformazioni del mercato. Lo sviluppo parallelo dei mutual funds e delle tecnologie dell'informazione hanno fatto dei mercati finanziari un "gioco" totalmente nuovo rispetto agli anni '80. A fine '95, per ogni lira investita in azioni dai mutual funds se ne contavano due investite in obbligazioni. Ora è vero l'opposto: la facilità di raccolta di capitale di rischio sta favorendo la nascita di piccole e medie imprese, fa esplodere i collocamenti in Borsa, favorisce il rilancio dell'imprenditoria, ma anche la sua vulnerabilità in caso di risultati non favorevoli, come mostra proprio la parabola professionale di Vinik.
2) L'eclissi delle banche. E' il noto fenomeno della disintermediazione, l'altra faccia dei collocamenti diretti in Borsa delle piccole imprese, in alternativa, appunto, alla richiesta di finanziamenti o di consulenze finanziarie bancarie. In Borsa, le imprese devono confrontarsi con i programmi di investimento dei fondi e sempre più il gestore prende il posto del banchiere. Il fenomeno acquisterà dimensioni ancora maggiori se, come pare, il sistema pensionistico americano sarà autorizzato a destinare almeno una parte dei propri investimenti al settore privato.
Nel '96, poi, la Sec (la Consob americana) ha dato via libera all'offerta diretta di azioni al pubblico addirittura senza passare attraverso la Borsa. Il primo caso, coronato da successo, è stato quello di un pastificio del Massachusetts che ha collocato le proprie azioni stampando la pubblicità sui pacchi della propria pasta. Nel maggio partì poi la prima offerta in titoli tramite Internet.
3) La "rivolta" degli azionisti. I mutual funds, ma anche altri azionisti, si rendono sempre più conto del loro potere. Lo si vede dal caso Vinik: chi non realizza i risultati sperati, va a casa. Da occasioni celebrative, le assemblee societarie diventano campi di battaglia. Da questa crescente, intollerante pressione del mercato per risultati a breve deriva, in definitiva, la tendenza delle imprese alle massicce riduzioni di forza-lavoro di questi anni.
4) L'importanza della trasparenza. Dal maggio '96 tutte le società quotate degli Usa devono fornire in forma elettronica tutte le informazioni e i documenti richiesti per legge. Questo immenso materiale è disponibile a tutti nel sito Internet della Sec (http://www/sec.gov). Alla trasparenza delle società deve far riscontro la trasparenza degli investitori. Da settembre, la Sec ha imposto la pubblicazione di un grafico con i rischi di ogni singolo fondo e il confronto con i rendimenti complessivi del mercato, oltre a un'indicazione che spieghi all'inizio dello stesso prospetto "che cosa potrebbe non funzionare in quello specifico fondo".
5) I pericoli di un crollo. La salvaguardia dalla eventualità di un crollo sta nel fatto che, in un mercato così diffuso e aperto, in cui non vi è alcuna possibilità di manipolare le cifre al momento del controllo, non vi sono più mostri sacri. Nessun grande operatore, neppure Vinik, ha sufficienti poteri di manipolazione e di previsione. Questo dovrebbe aumentare le possibilità di tanti crolli parziali relativamente piccoli e salvaguardare invece il mercato da un collasso generale. Di fatto, le 'reazioni del mercato appaiono nuove, ancora tutte da studiare, e c'è il sospetto che i tradizionali strumenti della politica monetaria - e persino la misura della massa monetaria - debbano essere rivisti.
Nome: Leo Kirch. Età: 71 anni con diabete. Professione: proprietario di un gruppo privato di mezzi di comunicazione tra i più grandi e i meno visibili (nel senso della trasparenza) del Vecchio Continente. Da fine luglio '96 una sua società, la DF-Uno, prima tv digitale tedesca, diventa uno strumento per far entrare nelle case fino a 54 canali televisivi e radiofonici con le versioni europee di programmi americani e una payper-view cinematografica alimentata dai diritti esclusivi per l'Europa che questo signore bavarese si è assicurato su circa 15.000 titoli di film americani.
L'introduzione della tv digitale in Europa, che sembrava dover dipendere dalle scelte congiunte dei monopoli pubblici France Télécom e Deutsche Telekom e, per quanto riguarda la pay-tv, dalla francese Canal Plus e dalla tedesca Bertelsmann, con garanzia del primato francese in Francia e tedesco in Germania, ne esce rivoluzionata.
Kirch rappresenta la quintessenza di una nuova supremazia tedesca in Europa. Ha costruito in silenzio, pezzo dopo pezzo, nel giro di 10 anni, un impero audiovisivo mentre i concorrenti europei di analoghe dimensioni (o più forti di lui, come la Rai di una decina di anni fa) si dilaniavano in scontri periferici di squisita natura politica.
La "linea Maginot" dell'ufficialità franco-tedesca non ha retto al blitz di aggiramento di Kirch. Questi si è improvvisamente alleato con Rupert Murdoch, il media mogul anglo-australiano dotato di una visione totalmente planetaria, per cui l'Europa non è che un pezzo nel quadro mondiale. E' quasi simbolico che l'alleanza tra la BSkyB di Murdoch e la DF-Uno di Kirch sia stata firmata nello stesso giorno in cui in Italia i presidenti di Senato e Camera raggiungevano l'intesa su un altro punto, di rilevanza quasi esclusivamente politica: la composizione di un ennesimo Consiglio di amministrazione Rai. L'episodio potrebbe rivelarsi come la più importante evoluzione del capitalismo europeo. L'impresa di Kirch riflette molto chiaramente continuità e rinnovamento nel "modello renano" del capitalismo. Dal lato della continuità, va sottolineato il suo accentuato carattere familiare, insofferente a una lettura quotidiana dei conti e delle strategie da parte di auditors esterni o di indiscreti gestori di capitali. La sua avanzata coincide con nuove regole per le emittenze televisive in Germania, frutto di faticosi compromessi, a base di commissioni d'indagine e misura dell'audience, tra Stato centrale e governi locali.
Dal lato del rinnovamento, mostra il capitalismo europeo alla ricerca di nuove occasioni economiche per sfuggire al clima di recessione, impegnato nella costruzione di nuovi equilibri dopo la ritirata degli Stati nazionali dalla gestione dell'economia, teso a mettere a punto nuove regole comuni per far funzionare i mercati del XXI secolo. Questo rinnovamento presenta tre tendenze forti.


1) RISTRUTTURAZIONI EUROPEE (E FRAGILITA' ITALIANA)
La prima tendenza è strettamente legata alla congiuntura economica e genera una corrente di fusioni ben diverse da quelle degli anni Ottanta. In una situazione di crisi, con la spesa pubblica in ritirata e i consumi delle famiglie in rallentamento, due terzi dei comparti industriali presentano, negli ultimi anni, tassi di crescita nettamente inferiori a quelli del Pil.
Di qui la necessità di nuove ristrutturazioni ed economie di scala, con fusioni come quelle tra le società farmaceutiche svizzere Ciba e Sandoz, o, nel settore degli additivi, tra Exxon e Shell.
Si tratta di una risposta fisiologica ad una clientela sempre più mobile e a un mondo finanziario che riconosce un premio a chi può vantare dimensioni, distribuzione geografica e gamma di prodotti più ampia. Non stupisce perciò che in una recente inchiesta della società di revisione Price Waterhouse, relativa a 500 grandi imprese europee, il 45% si sia detto disposto a compiere almeno un'acquisizione. Si noti per inciso che, tra le imprese italiane intervistate, la quota è appena del 26%.
E' un indice sia della fragilità finanziaria del mondo imprenditoriale italiano, sia soprattutto dell'incertezza strategica seguita alla grande "vacanza" della svalutazione competitiva. E va anche notato quanto sia difficile avviare una politica del genere senza un assetto adeguato, con l'opportuna flessibilità del management.


2) LA RIVOLUZIONE DELL'EURO (E LA DEBOLEZZA DI MILANO)

Il ruolo si gioca sullo sfondo del movimento verso la moneta unica che modificherà in maniera irreversibile la finanza europea.
Scompariranno i contratti nelle valute nazionali, i futures del tipo lira/marco o marco/franco. I prodotti finanziari tenderanno alla standardizzazione, da Amburgo a Palermo saranno denominati nella stessa valuta con le stesse opportunità. Al mercato parigino del Matif i contratti a termine sul Pibor, il tasso interbancario francese, verranno espressi in Euro a partire dalla scadenza del marzo '99 e nella stessa direzione si sta muovendo il londinese Liffe.
Purtroppo, torniamo a sottolineare che in questo quadro Milano sembra destinata a un ruolo periferico.


3) LE "NUOVE" PRIVATIZZAZIONI
Secondo la società di consulenza americana Morgan Stanley, nei prossimi dieci anni le dismissioni di società sotto controllo pubblico raggiungeranno un valore di 200 miliardi di dollari e riguarderanno soprattutto l'Europa continentale e latina. Saranno però operazioni diverse dal recente passato, anche perché il processo di globalizzazione dell'economia ha fatto molti passi avanti. I "noccioli duri" e le golden shares non potranno non aver minore peso anche perché, sempre secondo Morgan Stanley, i fondi di investimento e i fondi pensione, specie quelli americani, dovranno assumersi il peso di almeno il 55-60% del collocamento e non è realistico pensare che i gestori intendano limitarsi a far da portatori d'acqua di imprese che non diano sufficienti garanzie di controllo o impongano troppi vincoli alla loro libertà di movimento.
Di fronte a questi sviluppi, il dibattito in corso in Italia su chi debba esercitare il potere nelle imprese appare singolarmente inadeguato, e questo perché il tema del potere sembra marginale di fronte ai movimenti in atto. In altri termini, non sembra esserci una risposta univoca all'interrogativo tradizionale, denso di implicazioni ideologiche, su chi debba comandare nelle imprese. Occorre invece un esame di coscienza dopo le tribolazioni inflitte ai mercati (da vicende come SuperGemina o Cir-Olivetti) e agli azionisti (dalla carenza di controlli in Gemina); o da patti di sindacato, come quello di Falck, più impenetrabili e costrittivi di un carcere di massima sicurezza.
L'età delle fusioni e privatizzazioni offre grandi opportunità per le riforme vere, quelle sul campo, e non a tavolino: allargare il mercato, organizzare un circuito efficiente dei capitali con garanzie effettive per i risparmiatori; creare nuove figure di amministratori indipendenti con effettive possibilità di controllo. L'agenda è ricca e poco importa se la sfoglierà il manager di una public company, il supermanager designato da un nucleo duro o un rampollo di antica nobiltà industriale. L'importante è che qualcuno cominci a sfogliarla davvero.
Un sistema economico non deve essere misurato solo in base a dati quantitativi, ma anche qualitativi. Perché abbia peso, infatti, non è sempre necessario, e neppure sufficiente, che sia di grandi dimensioni; occorre, invece, che sia collocato nei punti rilevanti dell'economia mondiale, che chi è sul ponte di comando possa prendere decisioni importanti, decisioni che spostano, determinano, condizionano quelle di altri.
Per costruire una "mappa" che dia un conto autentico della forza delle varie componenti del capitalismo contemporaneo occorre fare riferimento a uno degli aspetti più caratteristici del sistema attuale, cioè all'espandersi e all'articolarsi dei mercati azionari. Su di essi, infatti, questa capacità di decisione assume un valore economico e può essere misurata. Si può considerare, per quanto in maniera sommaria e imprecisa, che il valore di mercato rifletta, in una società di mercato, l'importanza economica e che questa dia un posto rilevante al potere di decisione. E' questa la base dell'esercizio che proponiamo, effettuato su dati - da noi rielaborati - pubblicati dalla rivista americana Business Week.
La rivista ha messo a punto un elenco delle 1.000 società quotate di maggior valore, prendendo come punto di riferimento le quotazioni sulle Borse valori dei vari Paesi, del 31 maggio '96; ha convertito questi valori in dollari, al cambio di quel giorno (le Borse considerate escludono i c.d. Paesi emergenti, per i quali è stato redatto un elenco a parte). Simili classifiche vengono normalmente usate per valutare la posizione di singole società. Hanno però anche un notevole significato geo-economico: proprio perché basate su prezzi di mercato, implicitamente contengono le valutazioni espresse dagli investitori tanto sulle singole società quanto sull'andamento della Borsa (e quindi dell'economia) di un Paese. Consentono pertanto di valutare indirettamente l'importanza di singoli centri imprenditoriali e di specifici Paesi, la loro capacità di aggregare capitali, il loro peso decisionale.
Naturalmente il numero di 1.000 società scelto è convenzionale (il Financial Times compila una classifica analoga basata su 500 imprese soltanto), del resto tutte le carte geografiche sono rappresentazioni convenzionali e in qualche modo distorte. Si può peraltro correttamente pensare che sulla "mappa del potere" del capitalismo moderno conti di più un Paese con una decina di grandi imprese, capaci di elaborare strategie, che non migliaia o decine di migliaia di imprese minori che complessivamente arrivano allo stesso fatturato.
Sommando i dati per singolo Paese, si arriva alla determinazione del "peso" dei vari Paesi nel capitalismo di mercato (Tab. 1). Alla data prescelta, il valore di mercato di queste 1.000 imprese era pari a oltre 11.000 miliardi di dollari, circa 17 milioni di miliardi di lire, (per confronto, il Pil italiano si avvicina ai due milioni di miliardi di lire, quello mondiale intorno ai 25-28 milioni di miliardi). I profitti erano pari a circa 750 mila miliardi: più di quanto incassa in un anno lo Stato italiano.
In questo quadro, il valore di mercato delle grandi imprese Usa risulta pari a circa il 45%, ben di più del peso di quell'economia sul totale della produzione mondiale (un po' meno di un quarto del Pil del pianeta ha origine negli Usa). Questa differenza può essere considerata come una misura, sia pure rozza e grossolana, del "potere" americano. Questo potere risulta aumentato sensibilmente rispetto all'anno precedente: l'effetto congiunto dell'espansione produttiva, dell'andamento delle Borse negli Stati Uniti e del cambio del dollaro hanno fatto salire di ben cinque punti il peso delle grandi imprese americane nel capitalismo mondiale. Cinque punti largamente guadagnati a spese del Giappone, passato dal 27 al 23,4%, un valore sostanzialmente in linea con l'importanza della produzione nipponica sul totale mondiale. Questo "spostamento dei pesi" all'interno del sistema capitalista corrisponde del resto a una percezione comune della maggiore vitalità delle imprese americane nel corso degli ultimi anni, con i loro grandi progressi nelle applicazioni elettriche e nelle telecomunicazioni.


Fin qui, la gerarchia dei Paesi in base al potere espresso dalle Borse rispetta il loro ordine di importanza macroeconomica. Se però si scende nella classifica, le cose cambiano radicalmente. Al terzo posto troviamo infatti la Gran Bretagna, con un peso più che doppio rispetto alla Germania e pari a quasi tre volte quello della Francia, i due Paesi che la seguono direttamente, mentre invece la precedono nella graduatoria della produzione. Che cosa significa? Che la capacità dei mercati inglesi di aggregare denaro attorno ad alcuni grandi progetti economici è ben maggiore di quella dei mercati francesi e tedeschi. E' questo un aspetto non trascurabile di quell'impalpabile, ma molto reale potere inglese nel mondo. E' in ogni caso significativo che il peso di questi tre Paesi sia leggermente diminuito nel giro di un anno, passando nel complesso dal 16,8 al 15,5%.
Scendendo ulteriormente, la classifica in base al potere del mercato si discosta sempre più marcatamente da quella della rilevanza produttiva: dopo la Francia infatti troviamo Svizzera, Paesi Bassi e Hong Kong, ossia tre nazioni piccole ma molto "potenti" in quanto sede di società che contano, come Roche, Nestlé e Sandoz (prime tre società elvetiche per valore di mercato), oppure. Royal Dutch, ING e Unilever (prime tre società olandesi).


L'Italia viene solo al decimo posto (Tab. 2), mentre è al quinto-sesto posto in quanto a peso produttivo. E il valore di mercato delle sue grandi imprese è pari appena all'1,5% del totale dei grandi centri mondiali: è un altro segno di quella debolezza della piazza di Milano cui abbiamo già accennato. Si verifica così, per vie insolite, quello che ha detto di recente un presidente del Consiglio: che l'Italia conta pochissimo, che il suo peso in termini decisionali è nettamente inferiore alla sua importanza economica. Va notato che, senza la privatizzazione dell'Eni e lo "spacchettamento" dell'ex Sip (divisa, con grande vantaggio di mercato, in Telecom Italia e Tim, che si occupa di telefoni mobili), il risultato sarebbe stato ancora peggiore.
Il valore di mercato tiene conto, fra l'altro, dei profitti realizzati e distribuiti dalle società (al netto di proventi eccezionali), e qui il predominio americano è ancora maggiore. Il 54,7% dei profitti complessivi delle 1.000 principali società viene realizzato da imprese Usa; la percentuale è pertanto maggiore della loro incidenza sul valore complessivo di mercato. Che cosa significa?
Forse che le imprese americane sono gestite meglio, forse che sono orientate a rendimenti di breve periodo, più sensibili alle esigenze degli azionisti. Uno squilibrio analogo e nella medesima direzione riguarda tutto il mondo anglosassone (canadesi, australiani e neozelandesi presentano quote sul totale dei profitti superiori alle rispettive quote sul totale del valore). La stessa cosa vale, in misura minore, per le imprese olandesi, spagnole, svizzere e di Hong Kong.


Per contro, il Giappone e il grosso dell'Europa continentale si contraddistinguono per un'incidenza sui profitti totali inferiore all'incidenza sul valore di mercato. Così il Giappone, le cui imprese pesano per il 23,4% sul valore di mercato complessivo del sistema, pesano appena per il 4,6% sul totale dei profitti distribuiti. Le società nipponiche sono arcinote per la loro tendenza al reinvestimento interno, così come lo sono per un controllo societario molto solido che le rende non scalabili. La stessa cosa vale per la Germania e la Francia, le quali congiuntamente totalizzano appena il 4,1% dei profitti complessivi contro il 6,7% del valore di mercato e quasi il 15% del prodotto mondiale lordo.
Fin qui non abbiamo tenuto conto dei c.d. Paesi emergenti e abbiamo considerato che Hong Kong e Singapore siano integrati nel grande circuito capitalista. Un circuito più piccolo ma significativo comprende invece una quindicina di Paesi le cui Borse (meno sviluppate di quelle dei Paesi maggiori) sono state alimentate dalle recenti privatizzazioni. Business Week li registra in un elenco separato in cui la prima impresa - una società elettrica coreana - si collocherebbe al 52° posto dell'elenco generale. Complessivamente, il valore di mercato delle loro imprese supera i 400 milioni di dollari, ma va detto che la parte del leone la fanno le imprese sudafricane che pesano per circa un terzo.
Il Sudafrica, com'è noto, è largamente anomalo, a cavallo tra capitalismo tradizionale (dal quale ha ereditato una struttura borsistica di tutto rispetto) e capitalismo emergente; il valore di mercato delle sue imprese (che comprendono colossi minerari come Anglo America e De Beers) supera i 120 milioni di dollari. A grande distanza seguono Corea, Taiwan e Malaysia: questa piccola "tigre", che comincia a mostrare le unghie di imprese molto dinamiche, ha mercati azionari con imprese che presentano complessivamente valori superiori a quelli indiani. Molto piccolo è il peso dell'America Latina con Messico, Cile e Brasile; la Turchia è l'unico Paese dell'area medio-orientale.
Il valore di mercato delle grandi imprese dei tre blocchi avanzati - Nordamerica, Europa e Giappone - si avvicina al 95% del totale. Su questo, l'Italia è un Paese mingherlino, le cui grandi imprese hanno un valore di mercato pari a poco più di metà della Svizzera. I Paesi, consolidati ed emergenti, dell'Oriente cominciano ad avere una presenza apprezzabile, pari a circa il 6% del valore. Tutti gli altri hanno solo una presenza di bandiera. Il vecchio "Terzo Mondo", comincia, però, a comparire nelle statistiche del capitalismo: è un segnale importante del quale occorre tener conto.
Poveri Stati! Le loro prerogative "sovrane" sono, oltre a quella del monopolio dell'uso della forza armata, quelle di battere moneta e di esigere imposte sul proprio territorio. Col Trattato di Maastricht, gli Stati dell'Unione Europea sono destinati a perdere la sovranità monetaria a favore di un ente che opererà a livello continentale; e vedono in pericolo anche la sovranità fiscale, in quanto la diffusa domanda di federalismo è tesa a interpretare in senso molto lato il potere delle regioni di sostituirsi all'autorità centrale. In questo mondo scosso dall'innovazione tecnologica, però, le cose non stanno mai ferme; e mentre tutti dibattono di moneta europea e di imposte regionali, proprio la tecnologia sta cominciando a mettere in mano ai cittadini d'Europa (e in realtà del pianeta) i mezzi sia per sottrarsi al monopolio della moneta sia per depistare gli obblighi fiscali.
Cominciamo dalla moneta. Da tempo esiste quella che viene definita "moneta elettronica", rappresentata dalle carte di credito e dal bancomat, le cui prestazioni divengono sempre più estese, a mano a mano che è possibile infilare in questi pezzi di carta plastificati dei microprocessori sempre più "intelligenti" e dotati di sempre maggior memoria, che consentono sempre più funzioni (le c.d. smart-cards, che cominciano a circolare anche in Italia).
La moneta elettronica è di difficile controllo: in qualche modo, chi emette "carte" utilizzabili per acquistare a credito, comprese per esempio alcune catene di supermercati, emette moneta in maniera indipendente dall'autorità monetaria. Per questo, da tempo i banchieri centrali la tengono sotto osservazione, pur ritenendola ancora troppo marginale per risultare pericolosa.
Il vero pericolo è che la tradizionale moneta elettronica si trasformi o si colleghi al cybercash, la moneta virtuale che può nascere da emittenti disseminati su Internet, via via che questa rete di collegamento elettronico si diffonde a singoli individui e famiglie e viene utilizzata per proporre merci, trasformandosi in un mercato. Con Internet, insomma, si può fare shopping direttamente da casa; e, ciò che è ancor peggio dal punto di vista dell'autorità monetaria, il monitor del computer può trasformarsi nello sportello di una banca.
Gli esempi di questo nuovo sviluppo sono ancora a livello largamente teorico, ma la velocità del cambiamento è tale che potrebbe diventare realtà nel giro di mesi. Si supponga, ad esempio, che una compagnia telefonica si faccia pagare le bollette via computer e utilizzi questi "accrediti" per pagare a sua volta fornitori; oppure che emetta la propria moneta elettronica e che questa venga utilizzata da terzi dietro la garanzia della società.
L'Istituto monetario europeo (Ime) di Francoforte - l'embrione della futura autorità monetaria dell'Ue - ha preso la cosa molto seriamente, in quanto si può usare Internet per raccogliere e prestare fondi, per accreditare interessi, ecc.; e per questo ha stilato un regolamento che vieta l'attività di raccolta e prestito tramite Internet. Succede però per l'attività bancaria qualcosa di analogo alla pornografia: il controllo si rivela arduo se non impossibile, e una recentissima sentenza americana ha assolto i diffusori di Internet (i c.d. providers) dall'obbligo di controllare il contenuto del materiale accessibile o diffuso attraverso i loro cavi e computer.
Si pensi a un'altra prospettiva: è ragionevole supporre che, entro il 2001, pressoché tutti gli azionisti delle società quotate negli Usa avranno un computer collegato a Internet. Si tratterà magari di un network computer, ossia di un modello progettato dalla Oracle proprio per allargare a basso costo (500 dollari) la platea degli utenti della rete. A quel punto, non solo gli intermediari finanziari correranno il rischio di essere abbandonati da risparmiatori-investitori "fai da te", ma la raccolta di capitali, così come gli investimenti finanziari, non conosceranno alcun tipo di confine fisico. A quale giurisdizione bisognerà assogettare i relativi proventi?
Si tratta, ovviamente, di un caso dalla risoluzione assai difficile e, quand'anche si stabilissero accordi interstatali, chi mai li potrebbe far rispettare? Già oggi alcune banche off shore allettano i "navigatori" di Internet con proposte di on-Iine banking, offrendo a tutti l'opportunità di domiciliare il proprio gruzzolo in un paradiso fiscale.
Stanno per aprirsi così, anche ad operatori che dispongono di importi modesti, opportunità analoghe a quelle fino a ieri riservate a pochissimi, spesso anonimi e malvisti, "gnomi" della finanza. Non sono però le sole imposte sui redditi da capitale ad essere in pericolo per l'erario. Alla defezione fiscale può accompagnarsi la competizione tra Stati per l'esazione delle imposte sui consumi. Già oggi alcuni providers di Internet sono in visibile imbarazzo per le transazioni che dovrebbero essere soggette a imposte sui consumi, come l'Iva in Europa o la Sales Tax negli Stati Uniti (diversa da Stato a Stato all'interno dell'Unione).
Si pensi al caso di un soggetto che:
risiede nel Paese A;
- si abbona - cosa del tutto lecita - ai servizi Internet offerti da una società con sede nel Paese B;
- grazie a quei servizi, approda a una delle c.d. malls (siti Internet in cui vengono effettuate offerte di vendita) e qui aderisce all'offerta di vendita di un'impresa domiciliata in un Paese C;
- quest'impresa gli invia la merce da un Paese D;
- la stessa impresa gli chiede di pagare su un conto corrente bancario del Paese E.
A questo punto, chi dovrebbe pagare quali imposte, e a chi? E non si creda che il caso presentato sia particolarmente complesso. Situazioni di questo tipo cominciano a presentarsi nei normali affari di tutti i giorni. La vicenda si trasformerebbe poi da complicata in insolubile se l'oggetto della transazione fosse un servizio (ad esempio, informazioni mandate dall'impresa al cliente elettronico) che transita sulla rete in forma digitale, rendendo difficile l'identificazione del suo valore e la stessa effettuazione della transazione.
Ci si rende facilmente conto che a rischio, in questo caso, sarebbero le stesse imposte sul reddito, normalmente prelevate in base alla residenza del produttore. Al limite, nel caso di un servizio del tutto smaterializzato, il pagamento dell'imposta sul reddito percepito in un Paese X ma pagato su un conto in un Paese Y diventa del tutto dipendente dalla buona volontà del percettore.
Si giunge così ad una conclusione importante: chi produce servizi, consulenze, know-how, avrà sempre maggiore libertà di scegliere la propria residenza ufficiale in qualsiasi Paese del mondo. E uno degli elementi cruciali della scelta sarà il sistema fiscale in vigore in quel Paese.
Siamo certi così di avere offerto a quanti hanno a cuore il problema della tassazione qualche buon motivo di meditazione e qualche argomento in più per alleggerire e semplificare le pretese fiscali soprattutto dello Stato italiano. La diffusione della telematica renderà sempre più difficile la vita ai ministri delle Finanze. E a chi contasse sulla speranza che il cronico ingorgo di Internet finisca per frenarne la crescita, suggeriamo di non farsi troppe illusioni: una società americana, la CAI Wireless System Inc., ha già brevettato un sistema di diffusione "senza fili" otto volte più veloce della rete telefonica, e con le tv via cavo stanno per arrivare servizi Internet diffusi via cable modems che assicureranno, con un'attrezzatura del valore di 300 dollari, una velocità di trasmissione cento volte superiore all'attuale.
La tecnologia sta preparando un mondo dai confini fiscali sfumati, in cui il monopolio della moneta sarà tutt'altro che assicurato, in cui governi e parlamenti vedranno sensibilmente ridotta la propria sovranità, almeno in certe materie, in cui magari i cittadini saranno un po' più liberi. In epoche di riforme istituzionali, sarebbe opportuno tenerne conto per evitare di disegnare vestiti, non solo fiscali ma anche relativi alla qualifica di cittadino, i quali poi risulterebbero così stretti da essere impossibili da indossare.


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