§ Conto alla rovescia / Per il futuro d'europa

Parigi piange ma Bonn non ride




Jean-Baptiste Roisand



La notizia, anche se può apparire paradossale, è significativa: mentre per l'Italia il Fondo monetario ha previsto per il 1997 un rapporto tra disavanzo e Pil del 3,7 per cento, la Bundesbank per lo stesso anno ha previsto per la Germania un rapporto del 3,75 per cento. In altri termini, da come si presentano al momento le cose, quando si tratterà di valutare l'ammissibilità dei Paesi che lo desiderano alla fondazione della moneta unica europea, c'è l'eventualità che, almeno per il cruciale parametro del disavanzo pubblico, l'Italia risulti più virtuosa della Germania. Il che la dice abbastanza lunga.
Dice, in primo luogo, che il processo imposto dalle regole fissate dai Trattati di Maastricht non è di armonizzazione, ma di convergenza verso assetti innaturali per l'Europa. Questi assetti derivano dalla circostanza che sono stati definiti esclusivamente dalle garanzie reciproche che occorreva instaurare tra Paesi che avessero messo in comune la propria moneta.
Di conseguenza, pur all'interno di finalità comunque politiche, sono state prevaricate quelle che più delle altre esprimono la cultura europea: lo sviluppo economico come elevazione della dignità delle persone. Lo sviluppo, innanzitutto, perché senza una crescita del rapporto tra prodotto e risorse impiegate per produrlo non c'è possibilità che aumenti il livello di benessere; cade lo stesso concetto di progresso. Quindi, l'affrancamento dalle incertezze del futuro; dunque, una rete sociale che certamente costa, ma ha anche consistenti ritorni. Infine, la solidarietà, poiché a tutti è riconosciuto il diritto di partecipare al progressivo miglioramento delle condizioni generali di vita, o, comunque, alla distribuzione delle risorse che sempre più abbondanti possono essere prodotte.
In Italia è stata diffusa la convinzione che questi principi siano radicati soltanto nella penisola, come conseguenza di un carattere poco incline alle leggi della correttezza finanziaria e come portato di denominatori culturali - il cattolicesimo e il marxismo - meno radicati in altre parti d'Europa. Ma è una convinzione errata. Quanto sia forte il radicamento a queste radici culturali è dimostrato dal fatto che le maggiori resistenze alle politiche di correzione finanziaria che tutti i governi hanno dovuto realizzare si sono verificate in Francia e in Germania, vale a dire nei due Paesi che avevano uno stato sociale più costoso e correzioni da effettuare di entità minore rispetto ai due Paesi più mediterranei, cioè la Spagna e l'Italia.
Oltre alla maggiore durezza di questo zoccolo naturale, altri fattori rendono, in Francia e in Germania, più ostiche le correzioni pur quantitativamente più contenute di quelle necessarie nella penisola iberica e soprattutto in quella italiana. Tra questi, paradossalmente, vi è l'entità del debito, combinata con l'elevatezza dei tassi d'interesse. La conseguente spesa per interessi, che in Italia ha l'inusitata dimensione del 10 per cento del Pil, opera come un enorme volano redistributivo che, nel tempo, determina profonde e negative distorsioni nell'allocazione delle risorse e pesanti effetti regressivi, ma nell'immediato ammortizza l'impatto di misure di contenimento finanziario che determinano, sempre e comunque, effetti depressivi dell'attività produttiva, degli investimenti, dell'occupazione. Germania e Francia sono prive di questo anestetico, per cui interventi anche più limitati comportano problemi sociali e politici più ardui.
E infatti, l'aggiustamento che dappertutto rimane da compiere viene vissuto più drammaticamente in quei Paesi che non in Italia. In Italia l'evenienza di una manovra aggiuntiva è complicata dalla strumentalizzazione politica alla quale si presta, più che dall'oggettiva difficoltà di effettuare tagli dell'ordine di alcune decine di migliaia di miliardi.
In Germania, invece, una correzione pressoché analoga in termini di Pil diventa oggetto di tensioni tra la Bundesbank e il governo: un governo che, qualunque colore abbia, ha sempre di fronte il problema del recupero-risanamento dell'ex Germania orientale, e una Bundesbank che, sotto la guida di Tietmeyer, cerca uno spazio politico, proponendosi come baluardo contro i rischi che l'opportunità politica del Cancelliere possa indurre ad accettare qualche compromesso sul piano delle garanzie di stabilità della moneta europea nella quale anche lo stesso marco sarà costretto a dissolversi.
Ancora più stringenti sono i problemi della Francia, perché ogni ulteriore misura di aggiustamento urta inesorabilmente contro le resistenze di un sistema economico prostrato da una politica ormai pluriennale di cambio forte.
Di fronte alla forza competitiva che l'industria tedesca attinge dalla qualità dei suoi prodotti e dalla capacità di innovazione, e di fronte a quella che l'industria italiana ha tratto dalla svalutazione della lira per rafforzarsi patrimonialmente e per internazionalizzarsi, quella francese soffre per essere simile a quella italiana, ma con una moneta che ragioni politiche tengono ancorata al marco. Di conseguenza, il suo corpo economico è indebolito e non sembra in grado di sopportare facilmente i prelievi di risorse richiesti per contenere il disavanzo pubblico.
L'esistenza in tutti i maggiori Paesi di problemi più o meno complessi per rispettare le condizioni poste dalla moneta unica è la più lampante dimostrazione del fatto che non si tratta di un'armonizzazione, ma di una convergenza verso obiettivi severi per tutti. Si aggiunga, infine, che, se l'Italia si impegna per il premio concreto e reale che può trarre dalla partecipazione alla moneta unica in termini di tassi di interesse, gli altri Paesi non hanno premi immediati da riscuotere, per cui sono posti sotto sforzo per benefici molto più generici, indeterminati, dilazionati nel tempo.
Non ci si può stupire, dunque, se vi sono problemi rilevanti come in Italia e se il risentimento popolare è maggiore che nella penisola.


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