§ Dalle alte tecnologie

NUOVA SFIDA PER L'EUROPA




Franco Ferrarotti



L'interrogativo tradisce un'angoscia genuina. E' vero che l'Europa perde colpi, e non solo dal punto di vista tecnologico? Politicamente, la sua incapacità di decidere a proposito della Bosnia è stata grave. Ha rivelato debolezze interne, visioni poco chiare, che vengono da lontano. Intorno agli anni '70, quando ormai la ricostruzione del dopoguerra era da tempo ultimata e la Germania era tornata in forze sui mercati mondiali e la stessa Italia, con stupore di molti osservatori, era riuscita a compiere in vent'anni, tra il 1950 e il 1970, una "rivoluzione industriale" che altrove, per esempio in Inghilterra, aveva richiesto poco meno di due secoli, era quasi di moda interrogarsi sull'avvenire dell'Europa. Gli interrogativi avevano la stessa ansiosa ambiguità della richiesta di notizie circa lo stato di salute di una vecchia veneranda zia per la quale non ci sia più nulla da fare. L'Europa era allora considerata un "continente stanco", a tired continent. Il giornalista-saggista Jean-Jacques Servan Schreiber, brioso come di consueto, spaventava i ceti moderati europei con un libro dal titolo alquanto perentorio: Le défi américain ("La sfida americana").
Uno spavento analogo percorre le pagine del libro di Konrad Seitz (Europa: una colonia tecnologica). Con un'aggravante: la sfida si è fatta doppia. Di fronte all'Europa si erge, oltre alla sfida americana, anche quella giapponese, per non parlare dei quattro "draghi" del Sud-Est asiatico: Formosa, Hong Kong, Singapore e Corea del Sud.
I dati offerti in proposito sono impressionanti. Il primo caso è quello dei chips di memoria. Siamo alla fine del 1979 e un fatto sembra certo: i chips giapponesi erano migliori di quelli americani. L'autore riferisce che la Hewlett-Pachard aveva testato i chips giapponesi e aveva scoperto che la loro "quota di difetti" (probabilità di errore) era solo un quinto di quella dei chips americani. Nello stesso tempo, la Silicon Valley, che si riteneva invincibile, doveva subire la sua Pearl Harbor. Non si trattava solo di superiorità tecnica. I giapponesi avevano fatto irruzione sul mercato con un'aggressività straordinaria, che non indietreggiava neppure davanti alle manovre più smaccate di dumping. Dietro ai singoli produttori giapponesi non c'era il vuoto di un'economia liberista ortodossa, procedente in ordine sparso. Agiva invece come coagulante e direzione unitaria il mitico Miti, il potente Ministero dell'Industria all'Estero, con i suoi piani specifici, le sue "tecnopoli", e con le sue risorse sia tecniche che finanziarie ragguardevoli.
I giapponesi perdettero in quella guerra economica, si calcola, quattro miliardi di dollari, ma i produttori americani di Dram alla fine erano stati spazzati via. Ed è noto, come sottolinea accuratamente Seitz, che "le Dram svolgono un ruolo di propulsione tecnologica nella tecnica di produzione: offrono le grandi serie di produzione e le strutture semplici che occorrono per ottimizzare, grazie a un continuo processo di piccoli miglioramenti, la complicatissima produzione di circuiti altamente integrati ... ".
Il Giappone doveva poi adottare lo stesso approccio - tecniche d'avanguardia e marketing aggressivo - a proposito di semiconduttori, delle "tecniche per ottenere altre tecniche", secondo un modulo che fa pensare alle machine-tools o macchine utensili della vecchia generazione, ossia a macchine per fare macchine, della telefonia "digitalizzata", degli apparecchi fax, che alla fine degli anni '80 erano tutti giapponesi, della televisione "high vision", ossia ad alta definizione, e della robotica, settore in cui l'Italia occupa il quarto posto nel mondo, dopo Stati Uniti, Giappone e Germania.
E' curioso, e Seitz avrebbe probabilmente potuto approfondire questo aspetto del problema, che il Giappone sia ad un certo punto la paradossale vittima dei suoi successi. In realtà, credo che sarebbe più esatto dire della sua straordinaria capacità mimetica. Si tratta di questo: fra gli anni '80 e '90 il primato del Giappone sembra consolidato; il Giappone è diventato - afferma Seitz - la prima potenza industriale del mondo. La partita, specialmente con il colosso Ibm, sembra chiusa e definitivamente vinta. Il primato del Giappone è nello stesso tempo industriale, tecnologico e finanziario. Ma proprio nella battaglia contro la Ibm si nascondeva un pericolo. Lottando contro la Ibm, il Giappone ne copiava la struttura, i prodotti, i famosi mainframes o computer giganti, ma all'improvviso questo modello, che aveva determinato il declino della Ibm, determinava anche quello del Giappone. Diveniva obsoleto.
I veri vincitori erano altri: giovani aziende snelle, con prodotti nuovi come i Personal computers, guidate da giovani pieni di idee, originali, con le loro reti "client-server" altamente personalizzate a seconda delle varie esigenze, contro i "mainframes" impersonali e ingombranti. Era l'America alla riscossa. Ma era anche la riscossa dell'Europa, sia nei confronti del Giappone che degli Stati Uniti. Potrà durare?
Solo alla fine della sua analisi Seitz sembra scoprire il fattore politico, anche se a mio giudizio non comprende appieno la discrepanza che oggi si profila fra la concezione giuridica delle società multinazionali, che è ancora quella di un "domicilio privato", e il loro peso transnazionale su scala planetaria. Come avevo previsto nel mio Cinque scenari per il Duemila, l'analfabetismo politico dei nuovi gruppi corporativi dominanti, in Usa come in Europa, non sembra in grado di comprendere le conseguenze negative di una concezione ristretta e riduttiva dell'azione tecnologica e produttiva nelle condizioni del mondo di oggi. Queste conseguenze non agiscono nel contesto giapponese, dato il centripetismo tradizionale di quel contesto in cui l'esigenza posta storicamente dalla situazione di fatto ha assunto la forma drastica di un dilemma brutale: organizzarsi o perire.
I modi di pensare delle vecchie dirigenze ancora al potere, soprattutto in Europa, sono disperatamente in ritardo rispetto agli imperativi emergenti.
I rimedi proposti da Seitz sono di buon senso, ma esprimono un ottimismo normativo che non ha mai dato buona prova. Invoca lo Stato nel momento in cui lo Stato-nazione in Europa è in crisi sia strutturale che funzionale: troppo grande o centralizzato per intrattenere un rapporto vitale con le sue comunità di base e, d'altro canto, troppo debole per dare corso agli investimenti massicci che sono richiesti dalla moderna ricerca tecnologica.
Il governo - scrive Seitz con una fede straordinaria - promuovendo la ricerca e lo sviluppo nei settori strategici più importanti, (technology push), e richiedendo prodotti innovativi, (technology pull), deve creare le specifiche condizioni strutturali che consentano alle nostre imprese di costruirsi delle basi locali nel settore delle alte tecnologie da cui partire alla conquista dei mercati globali. Misure necessarie, anche se non del tutto sufficienti. Per l'Italia hanno indirettamente il merito di lavorare per un'uscita equa, ma anche sollecita, dalla palude di Tangentopoli e dall'immobilismo politico.


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