§ ALLE ORIGINI DELLA BANCA

HOLDING DE' MEDICI




Anthony Molho
Docente di Storia Medioevale alla Brown University di Providence



Secondo i calcoli di Lorenzo, al momento della morte del padre, nel 1469, il patrimonio dei Medici ammontava a 237.988 fiorini. Per avere un termine di paragone, è utile ricordare che un salariato generico poteva guadagnare anche solo 10-20 fiorini all'anno; che una rendita annua di 150-200 fiorini era considerata sufficiente a mantenere dignitosamente una famiglia benestante; che una bella fattoria in Mugello poteva costare 500-800 fiorini; che uno dei grandi palazzi urbani costruiti nel '300 o nel primo '400 valeva sul mercato, al massimo, poche migliaia di fiorini. Insomma, sulla scala dei prezzi e delle rendite dell'epoca, i Medici controllavano una fortuna con cui poteva competere al più solo un piccolo gruppo di altre famiglie nell'Europa del XV secolo.
Dai tempi del bisnonno di Lorenzo, Giovanni di Bicci, a quelli di suo figlio Piero, questa fortuna permise ai Medici di mantenere un tenore di vita che andava oltre la possibilità di ogni altro fiorentino. I Medici consumarono intere fortune per coltivare i loro vari interessi, quasi invariabilmente molto costosi: Cosimo spese a piene mani per la costruzione di palazzi e ville, chiese e monasteri; Piero collezionò manoscritti, gemme, gioielli e oggetti preziosi, ognuno registrato con la stima del suo valore nell'inventario da lui diligentemente redatto nel 1465; Lorenzo mantenne la tradizione di famiglia coltivando svariati interessi e spendendo somme cospicue nelle sue attività edilizie, soprattutto a Poggio a Caiano; tutti i Medici, da Cosimo a Lorenzo, impiegarono pittori, scultori, muratori, architetti, fabbri, orefici e copisti; tutti si dilettavano nell'elargizione di doni - cavalli, gioielli e altri oggetti costosi - a potenti come il Re di Napoli e il Duca di Milano; e naturalmente tutti - giovani e vecchi, uomini e donne - offrivano il loro sostegno, in forma di carità o di piccoli sussidi, ai poveri, ai clienti, ai seguaci e agli ammiratori più o meno degni.
Il libraio Vespasiano da Bisticci - la cui bottega produsse alcuni dei più bei manoscritti della collezione dei Medici - ci informa che Cosimo spese regolarmente fino a 15-16.000 fiorini l'anno per i suoi progetti di edificazione. E lo stesso Lorenzo scrisse che dal 1434 al 1471 la sua famiglia aveva speso "la somma incredibile" di 663.755 fiorini "tra muraglie, limosine e gravezze". Nessuna di queste attività sarebbe stata possibile senza disporre di grandi possibilità economiche. Senza il loro denaro, i Medici sarebbero stati indistinguibili da altre famiglie fiorentine.
La loro fama e reputazione erano dovute al fatto che vivevano come principi e spendevano come re. Ma prima di spenderlo, i Medici quel denaro dovevano guadagnarlo. Ed è in questo che erano diversi da principi e re. Perché due delle loro qualità più impressionanti, almeno fino agli anni sessanta del '400, furono la capacità di guadagnare denaro e la disponibilità a lavorare duramente a questo scopo. Molto spesso gli storici preferiscono prestare attenzione ai modi in cui i Medici spesero il loro denaro e a descrivere ciò che riuscivano ad ottenere in cambio di tali spese, dai clienti politici, alle loro numerose dimore urbane e rurali, agli oggetti di lusso con cui le arredavano. Ora, invece, descriveremo brevemente la fonte principale della loro ricchezza, il modo con cui accumularono la loro favolosa fortuna.
Il "motore" alla base della costruzione del patrimonio dei Medici fu la loro banca. Gli ingegneri che idearono quel riuscitissimo mezzo per arricchirsi erano stati il bisnonno di Lorenzo, Giovanni di Bicci, e il nonno, Cosimo. Giovanni fondò la banca nel 1397, e nell'arco di una generazione essa divenne una delle grandi imprese bancarie europee. Diverse sono le ragioni di questo successo, tra cui, certamente, la capacità di Giovanni di scegliere con cura i propri collaboratori, il suo talento per concludere gli affari con grande discrezione e una reputazione di affidabilità senza uguali nel mondo della finanza. Soprattutto, Giovanni ebbe la previdenza e l'accortezza di coltivare l'amicizia di Baldassarre Cossa, che divenne più tardi, anche se solo per un breve periodo, Papa Giovanni XXIII (*), e che lo fece nominare suo Camerarius camerae apostolicae. Questo rapporto offrì ai Medici l'accesso all'attività bancaria del Papa. Col tempo, l'accesso si trasformò in monopolio e il banco Medici non ebbe rivali nell'impiegare le ingenti somme di denaro di cui la Chiesa disponeva. Il controllo dei servizi bancari papali fu mantenuto fino alla fine del '400 e al pontificato di Sisto IV (1476-1484), quando, in seguito alla Congiura dei Pazzi, Firenze si trovò in guerra col Papato.
Roma fornì di gran lunga la maggior parte dei profitti della banca. Circa il 63% degli immensi utili realizzati tra il 1420 e il 1435 vennero da Roma; la percentuale calò a poco più del 30% tra il 1435 e il 1450, ma nonostante ciò la gestione dell'attività bancaria papale continuò a produrre grossi profitti. Senza dubbio il rapporto con Roma costituì la più importante ragione del successo del banco Medici.
E questo successo continuò durante la fortunatissima vita del figlio di Giovanni, Cosimo, che nel 1429 ereditò non solo il patrimonio, ma anche la guida della famiglia. Le somme di denaro guadagnate dalla banca durante la vita di questi due uomini eccezionali furono straordinarie: dal 1420 al 1435, su un capitale totale di circa 31.500 fiorini, gli utili della banca ammontarono a 186.382 fiorini, di cui due terzi spettavano ai Medici e la parte restante ai loro soci; i profitti salirono a livelli ancora più vertiginosi nei quindici anni seguenti, fino a 290.791 fiorini, di cui più di 203.701 fiorini, oltre il 70%, spettavano ai Medici.
Già durante la carriera di Giovanni, ma ancor di più durante la vita di Cosimo, la banca aveva esteso le sue operazioni in tutta Europa. All'inizio del secolo, essa aveva uffici a Roma, a Napoli, a Gaeta, a Venezia e, naturalmente, a Firenze. Entro il 1451, oltre alla sede fiorentina, erano attive le filiali di Ancona, Avignone, Basilea, Bruges, Ginevra, Londra, Pisa e Venezia. Il banco investiva inoltre ingenti capitali in due botteghe di lana e in una di seta, tutte a Firenze. Come una ragnatela, la banca si era diffusa nell'Europa occidentale e settentrionale alla ricerca ovunque di clienti, di affari e di generi commerciabili: lana inglese e spagnola, arazzi fiamminghi, cavalli, tessuti, spezie, mobili, grano e frutta secca. In seguito alla scoperta di ricchi depositi di allume nei pressi di Civitavecchia, e grazie agli stessi legami col Papato, i Medici ricevettero un quasi-monopolio per lo sfruttamento di queste miniere. Come gli altri mercanti medioevali, i Medici compravano e vendevano tutti i prodotti ricercati sul mercato. E, naturalmente, estendevano i loro prestiti a prelati di Roma, ad esponenti della nobiltà e delle varie case regnanti in tutta Europa, a Roma, a Bruges, a Londra e a Napoli. Quando era possibile, accettavano merci in garanzia dei prestiti, in modo da rivenderle in caso di mancata restituzione del credito. Spesso, e specialmente nell'ambito degli affari con i grandi signori, non era facile assicurarsi sufficienti garanzie. La storia di questi prestiti è strettamente legata al declino della banca, e al ruolo che Lorenzo ebbe in tale declino. Ma prima di passare a questo, dobbiamo esaminare brevemente altri due aspetti che possono chiarire quali fossero gli elementi di forza della banca e il perché del grande successo riscosso durante i primi sessanta/settanta anni della sua esistenza.
Si può sostenere che uno dei punti di forza del banco Medici era la sua struttura e la sua organizzazione. Le famose compagnie bancarie del primo '300, ad esempio quelle dei Bardi e dei Peruzzi, erano organizzazioni unificate in cui tutta la società era responsabile dei profitti e delle perdite di ogni filiale. Quando, negli anni subito dopo il 1340, il Re d'Inghilterra mancò ai suoi impegni con la filiale londinese dei Bardi, tutta la banca Bardi dovette assorbirne le perdite, e di conseguenza fallì. Il banco Medici, invece, era una holding fin dal momento della sua fondazione. I Medici detenevano la maggioranza delle partecipazioni in ogni filiale e, da Firenze, coordinavano le operazioni su tutte le piazze. Ma ogni filiale era a sua volta un'entità giuridicamente separata ed autonoma, che agiva indipendentemente dalle altre. Ogni filiale costituiva una società separata e distinta, col proprio amministratore e i propri registri contabili; in ognuna di esse i Medici avevano gruppi diversi di soci. Questa forma di organizzazione è stata largamente adottata dalle grandi compagnie a partire dalla metà del XIX secolo. Nel '400, invece, rappresentava un'ingegnosa novità rispetto all'organizzazione tradizionale delle compagnie di affari, e permetteva alla banca dei Medici una flessibilità e una capacità di recupero che la mettevano in grado di superare i rovesci temporanei che potevano verificarsi in una delle sue operazioni.
Un altro punto di forza per la banca per tutti gli anni sessanta del '400 fu la scelta degli amministratori e dei collaboratori. Giovanni e Cosimo possedevano un'abilità particolare -una specie di sesto senso - nella scelta dei manager. Attinti per la maggior parte dalle grandi famiglie cittadine - i Bardi, i Benci, i Martelli, i Portinari, i Sassetti e i Tornabuoni - questi uomini si dimostrarono degni della fiducia conferita loro dai principali. Giovanni di Amerigo Benci, il quale dal 1435, prima insieme a messer Francesco Salutati, e, in seguito alla morte di costui, da solo, ricoprì il ruolo di direttore generale fino alla sua scomparsa, nel 1455, può essere preso a simbolo della fortuna di Cosimo nella scelta dei collaboratori. Erano gli anni del maggior successo della banca, quando i profitti ammontavano a centinaia di migliaia di fiorini, e Cosimo si sentiva sicuro nel lasciare al suo amministratore ampi spazi di discrezionalità e responsabilità nella conduzione degli affari.
La banca - il "motore" della ricchezza dei Medici - funzionò al meglio, più efficientemente e con più profitto, fino alla morte di Cosimo, nel 1464. A dire il vero, già negli ultimi anni della vita di Cosimo si erano avvertiti segni di difficoltà. Prestiti non restituiti da membri della nobiltà inglese, il cattivo stato di salute dell'amministratore della filiale di Londra, Simone Nori, i grossi crediti che il suo successore Gherardo Canigiani aveva concesso al nuovo Re d'Inghilterra, Edoardo IV, nella speranza di farsi ripagare i prestiti del passato, contribuirono a indebolire la filiale di Londra.
Analoghe difficoltà si presentarono a Bruges. Già nel periodo del padre di Lorenzo, Piero, ci si rese conto che c'era bisogno di un'amministrazione più rigorosa e che, per mantenere la banca in buona salute, le concessioni di credito dovevano essere ridotte.
Quando le redini del patrimonio familiare passarono nelle mani di Lorenzo, era chiaro che una bonifica della situazione era urgente. In una lettera scritta poco dopo la morte di Piero, Lorenzo espresse la sua preoccupazione per lo stato della filiale londinese: "Io non ò al presente faccenda né peso alle spalle che mi dia maggior pensiero et maggior molestia che questo facto da Londra, parendomi non abbiamo di costà né di qua cosa di maggiore importantia". Ma per una varietà di motivi, Lorenzo non fu capace di cambiare il corso degli eventi. Anzi, i segni premonitori dei tempi di Cosimo e Piero si concretizzarono in problemi sempre più gravi e la banca si avviò a un declino, se non precipitoso, irreversibile. Nel 1492, alla morte di Lorenzo, 95 anni dopo la sua fondazione, la banca era sull'orlo del collasso, la sua forza finanziaria dissipata da decisioni sbagliate e dallo stato generale dell'economia.
Lo spettacolo di questo declino, dell'indebolimento apparentemente irresistibile di un'istituzione una volta così potente, ha affascinato vari osservatori, dal XV secolo ai nostri giorni. Molti studiosi - tra cui il più noto è il grande storico Raymond de Roover, belga-americano - hanno dedicato anni allo studio di ciò che non funzionò e del perché, proprio negli anni in cui la famiglia dei Medici raggiungeva l'apogeo del suo potere politico, le fondamenta di quel potere - la loro banca - venivano lentamente erose.
Molte risposte sono state offerte nel tentativo di spiegare il declino della banca. Nessuna è convincente da sola, mentre insieme possono fornire una rosa di ipotesi degne forse di ulteriore esplorazione.
Fino a tempi recenti, la spiegazione prevalente suggeriva che, direttamente o indirettamente, fosse Lorenzo il responsabile del declino: a Lorenzo mancava l'interesse per il guadagno; era attratto da altre attività più raffinate, come la poesia e la filosofia; preferiva la compagnia delle dame eleganti, dei dotti letterati e degli artisti che lo circondavano a quella dei contabili e degli amministratori della banca. La noiosa routine del bottegaio non faceva per lui. Nel bene e nel male, i Medici si erano lasciati alle spalle le proprie origini, erano diventati principi. Lorenzo - così continua questa spiegazione -semplicemente non si interessava molto agli affari della banca. L'affidò ai suoi subordinati i quali, senza la guida e il freno di un capo vigile, si impegolarono in una serie di pessimi affari. Quando Lorenzo si accorse della realtà delle cose, sempre secondo questa versione, era ormai troppo tardi. I debiti si erano accumulati, i crediti non erano riscuotibili, i creditori premevano e, cosa peggiore di tutte, la reputazione della banca era stata danneggiata. Grazie all'indolenza di Lorenzo, la banca era stata gravemente indebolita, e al momento della sua morte stava per crollare.
La parte più convincente di questa spiegazione riguarda il ruolo degli amministratori della banca. Con loro, Lorenzo ebbe pessima fortuna. Uno dopo l'altro lo delusero, prendendo decisioni sbagliate, concedendo prestiti quando avrebbero dovuto agire con cautela. Tommaso Portinari a Bruges, Gherardo Canigiani a Londra, Lionetto de' Rossi a Lione, perfino il direttore generale a Firenze, Francesco Sassetti, non si dimostrarono all'altezza delle proprie responsabilità. I loro errori costarono migliaia di fiorini alla banca. Lorenzo li mantenne nelle loro posizioni, e in questa misura è corresponsabile dei loro errori.
Eppure, come ha suggerito lo storico inglese Michael Mallett, è possibile che Lorenzo comprendesse anche troppo bene quanto disperata fosse la situazione delle filiali estere e concentrasse invece la sua attenzione su quelle italiane, dove i margini di profitto erano maggiori. La cura con cui Lorenzo seguì le succursali napoletana, romana e milanese smentisce l'accusa che egli fosse indifferente agli affari della banca. Certamente Lorenzo non riuscì a mantenere la linea seguita da Giovanni e Cosimo, e tale incapacità costò cara a lui e alla banca. Abbiamo già notato la grande importanza rivestita dalla filiale romana per il buono stato di tutta l'organizzazione.
La situazione diplomatica italiana negli ultimi anni settanta del '400 e l'incapacità di Lorenzo di mantenere buoni rapporti col Papato causarono ai Medici la perdita del monopolio sulle finanze papali, una perdita che si rivelò disastrosa. Una fonte sicura di grandi profitti era venuta a mancare; anche dopo la guerra, si sarebbe dimostrato difficile ritornare ai giorni felici dei decenni precedenti. Giovanni Tornabuoni, in una lettera del 1487 in cui tentava di spiegare i problemi che Lorenzo incontrava nel riscuotere i crediti bancari a Roma, pose la questione in modo piuttosto pungente: "Se 'I papa fussi un po' più liberale e magnanimo, ci si troveré assai modi, ma egli è tanto tegnace, ch'è una morte".
Eppure, sarebbe probabilmente un errore pensare che la responsabilità principale del declino della banca sia da assegnare ad una sola persona o anche ad un gruppo di individui. La struttura dell'economia europea nel XV secolo stava cambiando, e al tempo di Lorenzo la banca era invischiata in una situazione che nessun manager, per quanto capace e affidabile, avrebbe potuto capovolgere. Dato che la monarchia inglese cercava di stimolare la produzione locale dell'industria tessile, divenne più difficile per gli imprenditori italiani spedire lana grezza in Italia. Essi potevano vendere i loro prodotti di lusso ai signori inglesi, borgognoni e francesi.
Ma come farsi pagare? In passato, la lana aveva costituito un mezzo di pagamento. Ora, con meno lana a disposizione per l'esportazione, i banchieri italiani che operavano nell'Europa settentrionale erano sempre più costretti ad accordare prestiti ai loro clienti, a vendere a credito, essendo la concessione di nuovi prestiti l'unica speranza di farsi restituire quelli pregressi. Era un circolo vizioso, aggravato dall'assenza di attività produttive in cui investire il capitale disponibile. Tutto il denaro che veniva guadagnato doveva essere investito in beni di lusso, alcuni destinati al consumo da parte degli stessi Medici, altri alla vendita a nobili e signori in Europa. Questo fatto costituiva un problema per la banca dei Medici, ma non solo per loro. Era un problema strutturale dell'economia italiana del '400.
La supremazia bancaria italiana, sviluppata alla fine del XIII secolo, aveva esaurito la propria forza propulsiva entro la fine del XV. La banca medicea cavalcò l'onda del successo durante il primo mezzo secolo della sua esistenza. Ma quando vennero a mancare Giovanni e poi Cosimo - i suoi due straordinari capi - anch'essa esaurì la sua fortuna. Lorenzo si trovò in una rete di circostanze che non poteva controllare, e la banca, piuttosto che un sostegno per le sue ambizioni politiche e culturali, si trasformò in una fonte implacabile di preoccupazione e di debolezza.
Per le generazioni precedenti, la banca aveva fornito le fondamenta su cui si era costruito il magnifico edificio del successo della famiglia dei Medici. Entro la fine della vita di Lorenzo, l'edificio si ergeva in tutta la sua gloria, oggetto dell'ammirazione dei contemporanei e degli storici successivi. Ma nel frattempo le fondamenta, indebolite da molteplici circostanze, si erano del tutto erose. Senza un saldo sostegno, la struttura non poteva continuare a reggere, e infatti non resse. Due anni dopo la morte di Lorenzo, la banca fu spazzata via, proprio come i Medici furono spazzati via dalla loro città.


NOTE
* In realtà, anti-Papa, dal 1410 al 1415. Di nobile famiglia napoletana, ebbe più doti di capitano che di sacerdote. Praticò la corsa nei mari, fu abilissimo negli intrighi politici. Di obbedienza pisana, regnò contemporaneamente a Gregorio XII (considerato Papa legittimo) e a Benedetto XIII (di obbedienza avignonese). Quando morì, nel 1419, lo stesso Cosimo ne curò il sepolcro in San Giovanni fiorentino, a cui lavorarono Donatello e Michelozzo [Ndr].


Il fiorino

Da un lato il fiore del giglio, dall'altro l'immagine di San Giovanni, protettore della città: ecco come si presentava il fiorino, la moneta d'oro usata dai fiorentini a partire dalla metà del 1200. Una moneta solidissima, dal valore inalterato per secoli, cantata persino dai poeti.
Fu proprio per arrestare lo svilimento della lira d'argento che si pensò a coniarla. Lo fecero Genova, Firenze e Venezia. Al tempo di Carlo Magno e della sua riforma monetaria, infatti, la libbra o lira era stata pensata come moneta di conto, un riferimento per fare i calcoli, dal momento che si era stabilito che valesse 240 denari. Alla fine dell'VIII secolo la lira aveva un contenuto d'argento pari a 390 grammi. Al tempo dei primi Ottoni (alla fine del 900) l'argento era già sceso a 275 grammi. Nel 1150 la lira milanese imperiale (la più forte sul mercato) conteneva solo 103 grammi del prezioso materiale. Poco prima che si passasse al bimetallismo, coniando la moneta d'oro, il contenuto d'argento della lira fiorentina era sceso a 35 grammi.
Il fiorino portò stabilità in questo sistema oscillante: la moneta, un pezzo d'oro di 3,54 grammi, fu coniata per valere esattamente, al rapporto di cambio del momento tra oro e argento, una lira fiorentina. Ma all'epoca di Lorenzo il fiorino d'oro valeva già sei volte tanto.
La vigilanza sulla moneta era affidata ad ufficiali monetari nominati dal Consiglio della Mercanzia, assistito da due membri di ciascuna delle cinque maggiori arti mercantili. Otto orafi, poi, nominati annualmente, erano tenuti a saggiare e pesare ogni fiorino, riponendo in una borsa con il loro sigillo ("fiorini di suggello") quelli che passavano l'esame e ritirando dalla circolazione quelli consunti.
Dal 1375 i "signori della zecca" presero a segnare le monete da loro emesse con i loro stemmi, a garanzia del valore della moneta d'oro fiorentina.

Il calvario del contribuente

I fiorentini conobbero ogni tipo di tasse: ne pagavano passando attraverso le porte della città (la gabella delle porte, il dazio prelevato sui beni economici che varcavano la cerchia delle mura) e anche gustando il vino del contado. Altri generi tassati erano gli sporti delle case, quelle parti di costruzione, cioè, che davano sulla via. Il comune raccattava fondi anche con la cosiddetta penale sugli arruolamenti, ossia la multa che erano tenuti a pagare i connestabili che fossero trovati in difetto d'uomini rispetto al numero che si erano impegnati ad arruolare.
Nel corso del 1200 si introdusse l'estimo. Era una sorta di tassa patrimoniale che si basava sulla stima delle ricchezze individuali, in modo da stabilire quanto ognuno potesse versare alla cosa pubblica. E' facile immaginare l'arbitrarietà delle stime e le astuzie dei contribuenti, in una crescente confusione che portò a una riforma dell'estimo nel 1285, alla sua abolizione nel 1315 e alla sua reintroduzione nel 1325 sulla base, questa volta, delle dichiarazioni giurate dei contribuenti.
L'oligarchia fiorentina cercò però di ricorrere il meno possibile alle imposte dirette, e il perché è chiaro. Trascorsi pochi anni, tutti i documenti raccolti finirono in un grande falò: ai potenti di Firenze, ai banchieri e ai mercanti le imposte piacevano poco. E se mancavano i soldi? Si ricorreva al prestito, specialità cittadina. Il creditore otteneva una specie di titolo garantito dalla Signoria, ma spesso si trattava di un bidone. Lo Stato, infatti, accumulava troppi debiti e non di rado capitava che si arrivasse al crack finanziario e che i titoli statali perdessero valore. Il ritardo nel pagamento degli interessi fece precipitare il valore di mercato di questi titoli al 60% nel 1427 e al 20% nel 1458.
Nel 1427, per far fronte alle spese della costosissima guerra contro Milano, fu introdotto da Giovanni di Bicci, padre di Cosimo il Vecchio, il catasto. Per i ricchi erano guai in vista. Il catasto fu sentito come una vittoria popolare e la gente ebbe la soddisfazione di vedere "pagare trecento chi per l'innanzi aveva pagato venti". Non c'erano scappatoie: ognuno doveva mettere nero su bianco davanti a un funzionario del fisco tutte le sue proprietà, i titoli, gli investimenti. Secondo il catasto del 1457, furono Cosimo di Giovanni e Pierfrancesco Medici a contribuire di più al bilancio dello Stato, pagando oltre 570 fiorini. Ma dopo la morte di Lorenzo, cacciati i Medici, i signori della città si affrettarono ad abolire il catasto.


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