Ad
ogni età ciascuno ha il proprio "cassetto". Sono sogni,
attese, speranze, appuntamenti, anzi l'appuntamento. Anch'io pertanto
ho avuto, ho ancora, pur nella mia età più che avanzata,
il mio.
Nato a Melfi, sul finire del primo decennio del secolo, trasferito (o
emigrato?) a Roma nel '22, proprio nel giorno della marcia sulla Capitale,
con l'inizio dell'anno scolastico al Collegio Romano sono divenuto romano
di Roma.
Le mie radici sono perciò nel Sud, e quanto alla cronologia hanno
a che fare ovviamente con questo secolo, ma anche con l'ultima parte
dell'Ottocento. E ciò perché il "profondo" Sud
agli albori di questo secolo manifestava nel confronto con il Nord ancora
tanti aspetti di qualche decennio anteriori. D'altra parte, chi di noi
dichiarerà mai la sua appartenenza al proprio secolo anagrafico?
Una parte infatti è sempre alle nostre spalle e un'altra è
dinnanzi.
Figuriamoci a parlarne avendo sotto gli occhi quello che è accaduto
nel ventesimo secolo o si delinea per l'inizio del Duemila.
Ma tanti prima e meglio di me hanno pensato e scritto queste cose. Umberto
Saba, nato nel 1883 e morto nel 1957, così si esprimeva: "avere
la radice nell'Ottocento e la testa nel 2050". E aggiungeva: "il
Novecento ha un solo desiderio: arrivare il prima possibile al Duemila".
C'è da aggiungere tuttavia che molti hanno creduto e credono
di arrivarvi senza essere mai partiti.
Due avvocati
a Melfi
Il mio Sud ha dunque a che fare con l'anagrafe, per il luogo e la
data di nascita, ma sempre per l'anagrafe, a causa del mio trasferimento
a Roma da studente ginnasiale, ha anche i suoi limiti direttamente
conoscitivi.
Il mio nome, il mio sangue, la mia mente, i miei ricordi, che più
sono lontani più sono vivi, mi immedesimano nella terra d'origine.
Qualcuno, negli anni della mia maturità, mi ha considerato
o mi ha fatto considerare un disertore dalla mia terra, dando credito
a più o meno reali mie capacità che avrebbero dovuto
utilmente cimentarsi sul posto, dove ci sono i tanti bisogni che si
conoscono. Ma ciò non si è verificato, per preminenti
motivi familiari e per il nodo delle "compatibilità ambientali",
come si direbbe adesso per enciclopedica semplicità terminologica.
Al riguardo ci sarebbe tanto da dire, in aggiunta a quanto è
stato già detto. Ma, come chi mi legge sa, il compito che mi
sono assegnato è solo quello della modesta testimonianza.
E ad essa mi richiamo, quando da bambino mi capitava di vedere, innanzi
alla mia casa avita, che allora veniva chiamata palazzo, e che ripeteva
il colore del Palazzo reale di Napoli, un vecchio avvocato che con
arteriosclerotica confusione, togliendosi di capo la grigia tuba e
volgendo alto il suo sguardo, esclamava: "Maestà, siam
fottuti!". E la sua maestà era quella di un Borbone. A
Melfi, oltre al castello, c'era nei miei occhi di bambino anche questo
avvocato. Ma, a proposito di avvocati, dopo tanti decenni, sempre
a Melfi, è arrivato un altro Avvocato, quello della Fiat.
E per mantenere vive le connessioni tra ieri e oggi, mi capita anche
di leggere che "l'unità d'Italia è oggi messa in
discussione perché nacque nel modo sbagliato", e a scriverne
così in queste settimane è un opinionista, che è
stato pure "garante" di un quotidiano.
Continuità
nel tempo
Altre volte ho parlato del castello di Melfi e dell'Avvocato. Sono
due Melfi. Una delle enciclopedie e un'altra dell'odierna realtà
economica e sociale.
La prima Melfi è sorta almeno all'inizio dell'età del
Ferro. Fu centro importante nel Medioevo e fu sottoposta ai Bizantini
fino al 1041, quando passò con i paesi vicini ai Normanni.
Saccheggiata da Federico Barbarossa nel 1167, divenne poi sede estiva,
nel castello, di Federico II di Svevia, che vi promulgò le
"Constitutiones regni utriusque Siciliae", dette anche "Costituzioni
Melfitane", emanate nel 1231 in un parlamento appositamente convocato.
Come non si contano i castelli fatti costruire da Federico II, così
con Dante si è celebrata, appunto nello stesso Federico, la
più alta manifestazione di civiltà dell'Italia duecentesca.
E anche la Melfi di quei tempi, di quella realtà, sapeva e
doveva, deve nella stessa sua gente di oggi, sapere qualcosa.
Ma di quel castello io so anche che accolse gli ufficiali austriaci
prigionieri durante la prima guerra mondiale. Che due di essi fuggirono
dalle finestre utilizzando lenzuola legate fra loro, come dopo abbiamo
visto nei film. E si trattava di una Melfi che aveva accolto anche
i profughi nientemeno del Padovano, finiti lì dopo Caporetto.
Una Melfi dunque pure tutto fare, nonostante avesse e abbia bisogno
di tutto e sia tuttora nel tunnel dello sviluppo. Con una lapide sul
Municipio dedicata ai Caduti della prima guerra mondiale da fare invidia,
per la lunghezza dell'elenco dei nomi, alle lapidi di altri grandi
centri.
E oggi c'è la Melfi dell'Avvocato. Addirittura, secondo l'analisi
condotta da un autorevole istituto di ricerca inglese, la Melfi dello
stabilimento fabbrica di automobili a cielo integrale più efficiente
d'Europa. Nel suo impianto si produce una media di 64,3 vetture per
dipendente, e cioè si ha un risultato nettamente superiore
a quello di qualsiasi altro complesso del genere in Europa. Commenta
qualche giornale, forse troppo pessimista: il Mezzogiorno, almeno
questa volta, vince. Vince certamente per me, anche perché
io ricordo nella prima infanzia la Melfi che esibiva un'auto di un
avvocato penalista che se ne serviva solo per avvalorare presso la
sua clientela la propria immagine, e disponeva di due camion quanto
mai sgangherati che, con tanti asini, muli, e qualche sporadica carrozzella,
riassumevano tutto il potenziale dei trasporti. Allora per me era
più importante disporre del tappo che impediva l'uscita del
vapore da uno di questi camion che di una intera auto.
Quante ingenuità allora, non solo rispetto ad un tappo, ma
anche per la stessa dimensione delle speranze, purtroppo tanto deluse.
Melfi capoluogo
Melfi, comunque, era il capoluogo del Circondario. Aveva una propria
sottoprefettura; una scuola elementare non concentrata in un solo
edificio, ma suddivisa nelle classi in tanti locali pure distanti
tra loro. Aveva però un istituto tecnico, un convitto nazionale
nel quale si diceva che nel corso della notte s'infiltrasse anche
qualche clandestina "sexy girl",, come le chiamano adesso,
un convento di suore che più che religione insegnavano pianoforte
e ricamo alle signorine del paese, un comando di compagnia persino
di granatieri in una zona di medio-bassa statura, un tribunale, una
parvenza di ospedale di tre o quattro camere ma con un balconcino
sempre occupato da due molto provvisori malati, due circoli entrambi
sociali, ma uno di essi si chiamava pure Società Operaia, una
Camera del lavoro, in evidenza più che altro il Primo Maggio,
due donne albanesi in costume, emigrate dalla più consistente
collettività in Calabria.
Melfi schierava allora un solo partito organizzato: quello socialista,
che era unitario, ma con correnti e tendenze, pure riformiste, in
altre parti della Basilicata. Vi erano invece movimenti più
o meno formalizzati o sottintesi, e di questi si avvalevano borghesia,
ceti medi, e così via. La loro influenza sulla soluzione del
problema meridionale era più culturale che materialmente realizzatrice.
La figura dominante era Giustino Fortunato. Di Giustino Fortunato,
ce ne sono stati due. Il meridionalista è stato il nipote del
primo, genericamente citato da qualche enciclopedia.
Nato a Rionero in Vulture nel 1848, è morto a Napoli nel 1932.
Ha costruito problema e studio della questione meridionale.
Ne è stato perciò pioniere ed è ancora oggi il
maggiore. E' nel 1911 che ha pubblicato Il Mezzogiorno e lo Stato
italiano, ed è nel 1920 che ha edito Questione meridionale
e riforma tributaria.
Dopo di lui e ancora oggi questi sono temi di studi, di osservatori,
di programmi di partito, di promesse elettorali, talvolta di organismi,
di leggi, di stanziamenti, di infrastrutture sempre in gran parte
avulse da una completa progettualità, di sollecitazioni, di
attese, di delusioni, di reazioni, e così via.
Fortunato ha fatto la sua parte, solo e unicamente di radicale impostazione,
convinto com'era che l'attuazione esulasse dalla sua vocazione e dal
suo compito. Per giunta, era anche un inguaribile pessimista. A mio
padre, che gli era amico e aveva dieci anni meno di lui, domandò
una volta se avesse figli maschi. E mio padre gli rispose che ne aveva
uno e questo ero io. Fortunato commentò: "povero lui!",
riferendosi agli anni che sarebbero stati i miei. E certamente non
si sbagliò.
Ma un altro meridionale delle mie parti, non meno pessimista di Fortunato,
è stato Francesco Saverio Nitti. Anch'egli ha studiato, ha
forse potuto, ma quasi nulla ha fatto per la sua Basilicata, era pessimista
a più non posso. E' nato a Melfi nel 1868 ed è morto
a Roma nel 1953. Anch'egli tra i suoi molteplici studi economici e
finanziari ne ha pubblicati alcuni dedicati al Mezzogiorno, fra cui
da notare Il bilancio dello Stato dal 1862 al 1896-1897 e Nord e Sud.
Prime linee di una inchiesta sulla ripartizione territoriale delle
entrate e delle spese dello Stato in Italia. Siamo nel 1901.
Ma a Melfi, sua città natale, ha dato poco. Il suo pessimismo
era così puntuale, quasi da diventare uno stimolante appuntamento
per lui. Subito dopo la prima guerra mondiale pubblicò un libro
dal titolo L'Europa senza pace. Da bambino, nel rituale elettoralistico
che esisteva anche allora, sono stato sulle sue ginocchia, perché
lui nelle sue campagne elettorali era ospite della mia famiglia. Queste
campagne per lui si limitavano a due o tre pranzi, del tipo di quelli
elettorali negli USA, oggi.
Al resto dovevano pensare i suoi grandi elettori, quelli che attualmente
si chiamano sponsor, e in altri campi, però meglio organizzati,
promotori globali. Uno di questi era un mio zio, che ha immolato a
questa causa il palazzo avito per dare vita sul finire della seconda
guerra mondiale ad un giornale, Il Paese, che Nitti doveva trovare
pronto a Napoli al suo rientro in Italia. Nitti dovette allora rinunciare
alla sua funzione e candidatura parlamentare, perché le campagne
elettorali si cominciavano a condurre già con il sistema del
porta a porta. E lui poteva muoversi solo ricorrendo alle pantofole,
e accrescendo così anche il suo tasso di pessimismo.
La mia parte di Mezzogiorno ha avuto dunque a che fare con questi
due grandi personaggi, con le memorabili orme lasciate anche territorialmente
nello studio e nella impostazione politica, e con le poche invece
immediatamente visibili. Allora il ruolo poteva essere anche solo
questo. Si riteneva nei posti di comando che dovesse essere solo questo.
Nitti, ad esempio, aveva ritenuto di difenderci dalla guerra libica,
avvertendo che Tripolitania e Cirenaica erano solo un "grosso
scatolone di sabbia". Oggi invece un terzo del nostro fabbisogno
petrolifero è soddisfatto dalla Libia. D'altra parte, anche
Giolitti voleva evitare il nostro intervento nella prima guerra mondiale
con "il parecchio" che avremmo potuto conseguire con la
neutralità.
E per il resto del Mezzogiorno? Abbiamo avuto tre presidenti del Consiglio
in aggiunta a Nitti: Crispi, Salandra, Orlando. Il primo, siciliano,
è stato capo del governo due volte, nel 1887-1888, e nel 1893-1896,
con la sconfitta di Adua che lo fece uscire di scena. Il suo impegno
colonialista gettò le premesse di quello successivo dei nazionalisti,
che con Federzoni lo celebrarono rievocandolo in una manifestazione
nel 1927 al Palazzo della Consulta, sede allora del ministero delle
Colonie. Ed io, matricola universitaria e promotore dei primi gruppi
universitari coloniali, ero come apprendista fra i presenti.
Gli altri due, Salandra e Orlando (il primo pugliese capo del governo
nel 1915, il secondo siciliano, definito presidente della vittoria
e pur sfiduciato alla Camera nel dicembre del '19, e quindi dimissionario,
partecipò alla Conferenza di Pace) sono stati miei maestri
alla Sapienza, nella facoltà di Legge: il primo per Scienza
delle Finanze, il secondo per Diritto Costituzionale. Come ho pensato
e sempre penso, allorché rivivono nel mio pensiero insieme
a tutti gli altri docenti di quei tempi, essi erano grandi maestri,
ma noi non ce ne accorgevamo, perché ritenevamo che tutti dovessero
essere così. Anche gli assistenti. Noi veterani parliamone
con gli studenti di oggi. E limitiamoci a dire che siamo stati fortunati.
Nel "Ventennio"
Il Mezzogiorno, in particolare, si vanta di essi, talvolta può
e deve gloriarsi, ma con le cifre di cui diremo più innanzi
probabilmente deve essere molto parco.
In questo mio immaginario "cassetto", trovano naturalmente
posto con riguardo sempre al Mezzogiorno anche gli anni del Ventennio
per antonomasia. E c'è pure qualche persona. In verità
due sole: una, Arduino Severini, che nel settembre del 1922 ha fondato
il fascio a Melfi e poi è divenuto ispettore nazionale fino
alla vigilia degli anni '30, ma non credo che nelle possibilità
e nella realtà abbia lasciato tracce nel sistema lucano. Sì,
lucano, perché il fascismo modificò in Lucania la denominazione
della Basilicata, ripristinata invece in seguito con la Repubblica.
Altrettanto si può dire per l'altro lucano, Nicola Sansanelli,
che è stato anche segretario nazionale del partito fascista,
all'indomani della marcia su Roma e in molto provvisoria sostituzione
del calabrese Michele Bianchi, uno dei quadrumviri che fu subito nominato
da Mussolini segretario generale del ministero degli Interni.
La Lucania, in sostanza, non ha espresso grosse personalità
in questo periodo, a differenza di quanto avveniva anche in regioni
limitrofe o del Sud in genere, che per le Puglie allinearono uomini
che hanno lasciato tracce in opere pubbliche, come a Foggia o a Bari
(rispettivamente con l'Acquedotto Pugliese e importanti costruzioni
e infrastrutture), per la Campania e per la Sicilia hanno espresso
personalità cui risalgono iniziative, strutture, organismi
che poi sono proseguiti con alterne fortune. Non si può certo
dire che il regime fascista abbia organicamente affrontato il problema
meridionale. La sua ideologia è stata sempre imperialisticamente
unitaria. Si è tradotta in vari emblemi, frequentemente oscurati
da altri resi più lucenti. Ne ricordiamo alcuni: la "quarta
sponda" per la Libia e la sua successiva provincializzazione
voluta da Balbo, con un salto che di fatto da Roma superava il Mezzogiorno,
pur assegnandosi a Napoli e a Bari, come porti e come mercati, compiti
trainanti, in parte applicati e in parte elusi; un prefetto di ferro
inviato a Palermo, con il successivo oscuramento di quanto negativamente
avveniva, perché tutto doveva essere fatto rientrare nella
normalità; l'enfatica riaffermazione della cultura contadina,
con le culminanti battaglie del grano, la militanza non femministica
delle massaie rurali, le accensioni dei motori delle mietitrici fatte
da Mussolini e così via. Poi c'è il posto al sole, con
una certa eclissi della questione meridionale, cui sono seguiti gli
"imperativi" dell'economia autarchica (per i quali anche
le regioni dovevano fare da sé), dell'intervento in Spagna,
dell'economia di guerra, e così via.
Anche le piazze del Mezzogiorno hanno registrato il crisma "oceanico"
che ha accompagnato i discorsi di Mussolini nella Penisola. Probabilmente
la piazza della prefettura di Potenza avrà accolto una di queste
adunate. Ma certamente molti "angolini" di una borghesia
recalcitrante saranno stati trovati o immaginati anche nella mia terra
d'origine, tant'è che qualche federale vi è stato importato.
Uno di questi, fiorentino, si era accostato a me e al gruppo universitario
coloniale del paese di cui prima ho detto. Egli si era distinto prima
per un timbro che aveva fatto predisporre "Per recenzione",
che accompagnava all'invio di pubblicazioni che curava in un ufficio
stampa. Nonostante ciò, egli divenne prima federale e poi provveditore
agli Studi in una provincia degli Abruzzi. Si può dire che
quelle nostre terre siano state considerate di "missione"
e per taluni anche di "espiazione". Ad esempio, a Melfi
è stato anche "confinato" Cesare Rossi, già
capo dell'ufficio stampa di Mussolini fino al delitto Matteotti, poi
fuoruscito a Parigi. Egli si era creata una notorietà nel paese,
specialmente per la sua predilezione per i prosciutti, e dopo il processo
di epurazione dal quale risultò prosciolto rientrò in
circolazione e per sopravvivere offriva la sua collaborazione giornalistica
di memorie, che offrì anche a me per l'agenzia giornalistica
della Confindustria da me allora diretta. Perciò di Melfi mi
rievocava famiglie e persone che cordialmente ricordava e che spesso
io attraverso lui venivo a conoscere.
Gli stessi sentimenti più o meno erano espressi da Carlo Levi
nel suo Cristo si è fermato ad Eboli, confinato anch'egli in
non lontane terre della stessa Lucania.
Quante cose, dunque, da dire su questa terra, predisposta per le opere
grandiose, qualcuna anche realizzata, paziente ma decisa nella creatività
(e i sassi di Matera ne sanno qualcosa), ruralmente avida di terra,
rigorosa e intransigente nello studio e nella cultura quando ha potuto
permetterseli anche con provenienze basso-borghesi o contadine, vivacemente
dialettica con attributi da Magna Grecia per congenita saggezza o
più modesto buonsenso, naturale portatrice di onestà
e di sicurezza, nella società e nella vita, di cui la stessa
frequente aspirazione al "posto fisso", invece largamente
ritenuta deteriore e inoperante altrove, ad esempio soprattutto negli
Stati Uniti, può essere espressione.
Il primo posto di lavoro sarà sempre meno, infatti, quello
dal quale si dipartirà per la pensione. La grande strada, che
ci è dinnanzi, è dunque tanto diversa da quella che
oggi percorriamo. Lo sviluppo o è globale o non c'è.
L'occupazione significa mobilità. Tuttavia, milleduecento posti
di impiego dell'amministrazione finanziaria nazionale provocano domande
di ammissione di concorrenti per circa un milione e duecentomila cittadini.
I costi di concorso per l'Erario ammontano a vari miliardi (qualcuno
ne ha calcolati 30). Le provenienze sono multiple, ma quelle a maggiore
tasso di disoccupazione o a minore reddito, cioè quelle del
Sud, sono necessariamente più consistenti. E c'è pure
chi contesta questa preminenza, attribuita a presunta pigrizia o pretesa
di indebiti aiuti o sostentamenti.
I rimedi, come si sa, vanno dai progetti per l'occupazione di cui
diremo in appresso a quelli più immediatamente contingenti.
Eccone uno, dovuto a un sottosegretario alle Finanze per limitare
il numero dei concorrenti nei vari concorsi, e cioè il ripristino
della carta bollata nella presentazione della domanda di ammissione.
Il risultato dovrebbe essere la riduzione degli aspiranti. Peccato
che la proposta susciti nella mia memoria il precedente di monsignor
Perrella, divenuto anche testata di un giornale umoristico nei tempi
andati: aveva abituato il proprio asino a non mangiare, quando ne
dovette constatare la morte.
Per il problema del Mezzogiorno, invece, si tratta di evitarne l'ibernazione
e anzitutto di smentire recisamente la pretesa verità che esistano
solo zone ricche e zone povere e che dovunque ci sia Sud ci sia anche
un complesso di risorse, umane e materiali, più debole o addirittura
più fragile.
Purtroppo è stata questa l'attitudine di gran parte della cosa
pubblica rispetto al Sud. E qualcuno nel passato ha ricordato a questo
proposito anche il pensiero di Mao. Di quello che, come si sa, nell'insegnare
quello che non sapeva - e la Cina di oggi se ne sta meglio accorgendo
- ha pure affermato che "se dai al povero un pesce, lo sfami
una volta, ma se gli insegni a pescare, lo sfami per sempre".
Lo Stato ha dato invece al Sud sempre pesci, spesso neppure tutti
commestibili. Purtroppo nella nostra cultura e nell'habitat connesso
bisogna combattere anche questo virus.
Nel primo cinquantennio
della Repubblica
E veniamo ai 50 anni della Repubblica. Il mio Mezzogiorno nel "cassetto"
ha fatto il cammino che conosciamo. Ha progredito come sappiamo. E'
avanzato nella misura che è dinanzi ai nostri occhi. A chi,
come me, ha percorso la massima parte del secolo, non sfuggono anche
i passi indietro.
La connotazione relativa non si discosta da quella che suggerisce
le correzioni di rotta, il rinvigorimento dei valori di fondo, la
salvaguardia delle motivazioni essenziali della umana condizione,
e così via, che impegnano le sedi più alte e responsabili
della società.
C'è tuttavia da aggiungere la nostra ferma, sempre più
ferma, reazione alle false connotazioni che ci vengono attribuite,
per pretesi nostri iperbolici costi, nostri pretesi debiti che verrebbero
pagati dagli altri, negando quelli da noi invece pagati per gli altri.
C'è perciò tutta una demagogia da diserbare e c'è
un grave ritardo da registrare anche a questo riguardo. E sono i cervelli
che devono funzionare, reagendo fra l'altro e risolutamente all'addensarsi
delle pseudo gravidanze dell'impegno politico rispetto al Sud. Qualcuno
anche autorevole ha detto - era un grande architetto e poi professore
all'Università "Federico II" di Napoli, fra i pochissimi
che fu esonerato dall'insegnamento perché si era rifiutato
di domandare la tessera fascista - che i giovani del Sud sono generalmente
di precoce cervello, ma anche spesso di sterili impazienze e perciò
di slancio incostante. Era un costruttore e oggi appunto si tratta
di costruire o di ricostruire: scegliete voi.
Ma a questo punto del discorso, trovo nel mio "cassetto"
un medaglioncino: riguarda Emilio Colombo, mio corregionale: di Potenza.
Ha certamente fatto molto per la Basilicata di oggi. Aveva a disposizione
le sedi per farlo. Aveva la volontà politica per fare. Ha fatto
bene e ha fatto male. Personalmente mi trovo nella infrequente condizione
di non dovergli alcunché. L'avrò incontrato tre o quattro
volte nel ministero dell'Agricoltura o in quello dell'Industria. Non
quando era al ministero del Tesoro (dove aveva come assistente o consigliere
Ferdinando Ventriglia, poi trasferito al Banco di Napoli, che mi telefonava
per fornirmi dati finanziari utili alle mie corrispondenze da Roma
per il quotidiano economico milanese), né a Palazzo Chigi.
A lui, però, ministro degli Esteri nel 1992 devo un intervento
per l'immigrazione in Italia di un filippino che doveva entrare contrattualmente
al mio servizio domestico. Gli scrivevo che mi dispiaceva doverlo
disturbare per cosa di così poco conto, ma i tempi e le modalità
burocratiche ostavano a correnti procedure, che solo un ministro poteva
verificare e accelerare. Si tratta di cinque anni fa, ora invece si
annunciano mirabilia, sfoltendo qualche formulario - come fa il ministero
degli Interni -, spostando qualche scadenza, annunciando qualche modifica
legislativa, e così via.
Emilio Colombo ha certamente fatto per la Basilicata. Quando è
stato prima sottosegretario e poi ministro e poi presidente del Consiglio
e infine nuovamente ministro è stato un costante punto di riferimento
per la Regione. E' stato, insieme con Rumor e altri, doroteo: un doroteo
che allora si ritenevano di destra. E' stato tra quelli che decisamente
nelle alternative delle votazioni hanno concorso alla nomina di Antonio
Segni, che era stato suo ministro quando egli era sottosegretario
all'Agricoltura, a Presidente della Repubblica.
Ha favorito il sorgere di alcune industrie, pure di media dimensione,
ma a carattere nazionale, nella Basilicata. Ha concorso al suo sistema
viario. Ha indirizzato politicamente varie amministrazioni locali.
Non ha favorito dannose cattedrali nel deserto, ma "parrocchie",
prive però di indotto e di corrispondenti condizioni produttive.
Oggi ha saputo ritirarsi dalle responsabilità della rappresentatività,
mantenendo tuttavia, se non erro, una vicepresidenza dell'organizzazione
internazionale democristiana. Anche lui certamente ha affrontato il
momento dell'autocritica, ma sembra che l'abbia condotto nell'area
meno centrista del Partito Popolare: vicina o quasi a quella di Rosi
Bindi o di Mattarella. Qualcuno, durante le ultime elezioni politiche,
nelle quali non presentò la candidatura, per il suo avanzato
sinistrismo lo definì una sorta di capo soviet.
Io, più semplicemente, lo ricordo al ministero dell'Agricoltura
quando sentendo il mio cognome lo inserì per merito di qualche
mio avo fra quello dei "notabili" - sì, disse notabile
- della Regione e al ministero dell'Industria quando alle undici del
mattino bevve compiaciuto un cognac baby. La politica ha comportato
sempre anche questi diversivi allora innocenti, ma evidentemente per
i sempliciotti come me da ricordare sempre nei tempi andati. Allora
Colombo ha scritto anche un libro dal titolo Linee di politica industriale,
e anche questa politica ha avuto i 50 anni che si conoscono, nei quali
tanti sono stati i fatti eclatanti, ma uno più degli altri
mi è rimasto nella pelle ed è quello della nazionalizzazione
dell'energia elettrica e ora dell'avviata fase delle privatizzazioni.
I tanti "contrordine, compagni" di inconfondibile origine
e di correlata autosmentita applicazione. Cronaca, questa, anche dei
nostri giorni.
Frugando nel
"cassetto"
A questo punto eccomi a tu per tu con il mio "cassetto dei sogni",
nel quale non ho trovato altri specifici "medaglioncini"
di mia memoria e conoscenza. C'è però un brevissimo
appunto.
Riguarda quelli che potrei definire riferimenti ambientali, sigle
di organismi con i quali la nostra storia economica ha avuto a che
fare, le risposte date, ma più che altro ancora da dare alla
nostra domanda del Sud o almeno a parte di essa. Il tutto, ripeto,
concerne un contesto che si riferisce alla Basilicata, già
Lucania, in quanto parte da questa regione per inquadrarsi nella generale
realtà del Sud, e ad essa ritorna, avendone ricevuto condizioni
e ulteriori stimoli, ma anche avendo dato e continuando a dare apporti
determinanti. Oggi, ad esempio, quello della Fiat che significa non
solo investimenti, ma anche lavoro prestato e da espandere.
Dunque, la geografia economica della regione parla di un breve tratto
bagnato dal Tirreno (golfo di Policastro) e di un ampio tratto bagnato
dal mar Ionio (golfo di Taranto). Forse per questa caratterizzazione
marittima l'antica Banca Popolare di Pescopagano, la cui sede di Melfi
era per me bambino molto emblematica, perché negli anni '20
era l'unica traccia bancaria di Melfi, insieme al Banco di Napoli
con sede contigua al centro storico, è divenuta oggi Banca
Mediterranea, entrata, come si sa, nell'orbita della Banca di Roma.
Ma questa anche a Melfi ebbe nel '22 una sua agenzia: era del Banco
di Roma ed era al pianoterra di una strada secondaria. Le prime due
avevano preferito invece il cosiddetto "piano nobile", meno
accessibile alla pur limitata clientela di allora.
La regione si distingue per un'attività agricola diffusa, ma
difficile. Le colture principali sono quelle cerealicole e vinicole;
sviluppata è pure la produzione zootecnica, nei settori ovino,
caprino e bovino.
L'industria, oltre alla "cattedrale" Fiat, questa sì
ben ubicata, anzi selettivamente individuata e resa operativa (e anche
lo Stato, una tantum, ha saputo fare la sua parte), dispone di varie
aziende, di piccola dimensione, che riguardano il settore estrattivo,
alcune branche alimentari, e anche molto timidi conati che investono
metano e petrolio. Chissà che cosa direbbe oggi Nitti di questi
ultimi due.
Le enciclopedie, dopo aver sottolineato che il territorio comprende
131 Comuni, di cui 100 dislocati nella provincia di Potenza e i restanti
in quella sopravvenuta di Matera su di una superfice con 62 ab. per
km quadro, e quindi con un potenziale di lavoro e di consumo così
quantificabile, le enciclopedie, ripeto, con la freddezza propria
delle statistiche e delle rilevazioni disincantate, scrivono che l'attività
delle aziende attraversa una fase statica, con una certa tendenza
alla diminuzione, riscontrandosi in contrario la tendenza all'aumento
dell'energia elettrica.
Abbiamo trovato nel "cassetto" queste notazioni di enciclopedia.
Quella che ho sott'occhio è stata edita nel 1995 e per la sua
genetica editoriale non tiene conto dell'arrivo della Fiat a Melfi.
Ma le sue notazioni mi appaiono più valide e anche più
neutre di quelle offerte da relazioni ufficiali o da testimonianze
congiunturali. Sottolineano infatti soprattutto il punto debole dell'intero
quadro, e cioè l'insufficienza del tessuto strutturale.
Un'inesistenza in alcune zone, un'assoluta inadeguatezza in altre.
Una sfida comunque perfino più o meno assurdamente positiva,
se raccolta prontamente, così da far corrispondere il nuovo
complessivo impianto alle leggi avanzate di una tecnologia dalla marcia
incalzante. Tesa, ovunque, a porre settorialmente e territorialmente
le sue cellule. C'è naturalmente anche qui la ricorrente, ovunque
nel Mezzogiorno, appendice turistica, questa volta con Monticchio
e Maratea. Carenti invece i musei, che invece andrebbero creati, magari
ricorrendo a, Beni Culturali. Questi, frugando nei propri ricchissimi
magazzini, sottratti come si sa ad ogni occhio che non sia quello
burocratico frequentemente renitente, potrebbero selezionare opere
da riportare nel pubblico, come si fa con quelle che arredano nostre
rappresentanze di grado elevato. Di queste opere tante sono quelle
culturalmente e tradizionalmente non molto distanti dalle nostre terre.
D'altra parte, non si è fatto in larga misura così per
lo stesso arredamento del Quirinale?
Le tante attese
di risposta
Ma in questo mio "cassetto" - e penso che se qualcuno dichiara
di battersi per un "TeleSogno", quanti saranno invece coloro
che hanno un "Mezzogiorno / Sogno" nella mente e nel cuore
- c'è un Mezzogiorno che soprattutto non abbia a che fare con
una classe politica che, per dirla con Longanesi, non abbia paura
di guardarsi allo specchio, evitando di farlo soltanto per narcisismo.
E purtroppo si sa che persiste un narcisismo anche partitico ed elettoralistico.
Tante sono dunque le nostre attese di risposta. Le prime di esse attengono
alle cifre, anche se queste non di rado sono elusive e subiscono il
cosiddetto maquillage contabile ufficiale: sovente il camouflage,
che, come è noto, combatte le conseguenze del trucco sulla
pelle. E poi le cifre più ricorrenti oggi non sono quelle che
riflettono, bensì quelle che ipotizzano e pretendono lo stesso
di essere vincolanti.
Ecco comunque un tentativo di elencazione:
- Dopo i tanti interventi di studi, di provvedimenti, di correttivi,
di accantonamenti, di recuperi, di "ricette" e "controricette"
di cui sterilmente abbondiamo, quale è il grado di completezza
degli inventari di fabbisogni e di possibilità, a livello pubblico
e privato, di cui disponiamo?
- Qual è il consuntivo delle risultanze relative, con le connesse
responsabilità o benemerenze che ne derivano? Con riguardo
naturalmente a tutti i livelli, dai più alti agli ultimi. Non
trinceriamoci invece dietro gli appuntamenti della riforma continua,
che sono distanti da quelli più produttivi della programmazione
seria e della progettualità concreta.
- C'è per il Mezzogiorno un complesso di cifre reali di interventi
pubblici, ibernati dalla loro mancata utilizzazione (residui passivi
da una parte e interventi UE non solo geneticamente lontani dal parto,
ma anche di molto precaria gestazione), di cui disponiamo?
E le cifre nel tempo e nel contenuto sono tante: riguardano sicurezza
e giustizia, acquedotti, piani regolatori, sistemi di comunicazione,
scuola in quanto formazione, sanità che oltre ad aver bisogno
del "day hospital" necessita della capillarità dell'assistenza
specializzata, il grado di utilizzo e di iniziativa delle nuove energie.
L'avvento e lo sviluppo dei nuovi contratti di area, la sperimentazione
(per lo meno) del cosiddetto telelavoro con le sue ricadute sull'occupazione
pure per i minori suoi costi (risultati, norme, studi all'estero ed
anche in Italia si muovono in questa direzione), il livello delle
sinergie in atto o programmate. E queste oggi sono tutt'altro che
brillanti, per i limiti registrati dalla cooperazione, per l'estemporaneità
di molti impegni di attività turistiche non collegate nel proprio
ambito né nei confronti del sistema dei trasporti, della ricezione,
delle agenzie turistiche a livello nazionale e internazionale. Le
eccezioni riguardano in parte il Napoletano e meno la Sicilia.
- Quali sono i programmi reali dello Stato, delle Regioni, dei Sindacati,
delle Organizzazioni dei datori di lavoro, ecc., per l'occupazione
nel Mezzogiorno e per evitare il pericolo che imprese nazionali subiscano
la seduzione - così la si definisce - di aree estere, pur cosiddette
svantaggiate, ma aventi l'appeal della flessibilità del lavoro,
dell'habitat fiscale, dell'efficienza amministrativa?
Ricordiamo poi che in tutto ciò i disoccupati sono soprattutto
i giovani? Perché non sono organizzati sindacalmente, come
con forme appropriate hanno fatto o dovranno fare meglio nel campo
imprenditoriale? Si tratta di far nascere il maggior numero possibile
di Centri giovanili per lo sviluppo naturalmente senza alcuna etichetta
ideologica o peggio ancora partitica. Il difficile è più
in questa asetticità che non nella ricerca e disponibilità
dei fondi. Asetticità che oggi si chiama trasparenza, la cui
mancanza non deve più essere la palla di piombo ai piedi di
ogni forma, anche istituzionale, d'intervento pubblico. Asetticità,
purtroppo, combattuta dal clientelismo, dalla corruzione, dall'abuso
d'ufficio, dall'indebitamento più o meno facile con la matrice
del voto di scambio, ecc.
- Quali dossier, pronunciati, pronunce (adesso erroneamente si dicono
pronunciamenti, che significano tutt'altro, e cioè sedizione
militare a scopo politico), interventi, concernenti il Mezzogiorno,
sono disponibili da parte della Corte Costituzionale, della Corte
dei Conti e del Consiglio di Stato? Non parliamo di quelli dei singoli
ministeri, che saranno tantissimi ma dei quali non si conosce alcuna
unitaria conclusione.
- Quali indagini o ricerche socio-economiche e da chi sono state fatte
in merito alla specifica posizione del sistema Mezzogiorno rispetto
alla prevedibile evoluzione dell'economia di mercato, all'aggiornamento
del Welfare state, all'identità reale e non immaginaria del
solidarismo, alla nuova qualificazione del capitalismo, al rapporto
impresa-lavoro nella valutazione della globalità ultra-comunitaria
e cioè mondiale?
- Ci sono i conti del Duemila anche per il Mezzogiorno? Qualcuno (ma
sembra solo per Napoli) ne ha parlato? In molti Paesi occidentali,
cifre alla mano, se ne parla e ci si prepara da tempo. Così
negli Stati Uniti, così ancora nel Giappone, dove si è
ora in piena autocritica, in funzione dei prossimi decenni. Così
nella stessa Cina, che ha ottenuto l'annessione di Hong Kong in tempo
per conseguirne basi di propulsione di produzioni, di strumenti finanziari,
di lavoro, di consumi. E non parliamo della Germania, dove un uomo
di Stato uscente anni fa per età o risultati elettorali - non
ricordo - ebbe a dire che bisognava prepararsi, anche perché
i costi dell'unificazione tedesca avrebbero potuto essere assorbiti
solo nel 2007. Già quasi un decennio innanzi, almeno per altri,
dunque. Ognuno di noi invece sa come procedono i nostri conti.
Si creò anni orsono un ministero del Bilancio proprio per queste
obbligate puntualizzazioni, lo si affiancò con altre strutture
nuove o già esistenti, fiorì anche la statistica, il
numero degli osservatori congiunturali pubblici o privati, pure bancari,
è aumentato, ma la loro incidenza, compresa quella del CNEL,
- che dovrebbe dare notorietà agli aggiornamenti dei suoi studi
e delle sue conclusioni sul Mezzogiorno - si è affievolita.
Anche il Duemila e prima ancora in termini cronologici l'unità
europea esigono che anche per il Mezzogiorno sia conclusa e resa operativa
questa sorta di preambolo di cui fin qui abbiamo detto.
Qualche nostro collega, uno pur autorevole e "decano" come
me della nostra categoria (io, com'è noto, a livelli professionali
largamente più modesti), ha detto che la tassa per l'Europa
va comunque pagata, a prescindere dalla stessa formulazione della
legge finanziaria, perché diversamente il sistema economico
dell'Italia centro-settentrionale sarebbe entrato lo stesso nell'UE,
con ciò provocando la scissione del Paese.
Un prezzo, dunque, da pagare, ma altri nell'opposizione, come si sa,
ne proclamano diverse e sempre naturalmente discutibili linee di concretizzazione.
Il problema è comunque quello di non perdere tempo. E il primo
ad esprimere questa urgenza è certamente proprio il Sud, avendo
alle spalle anche una sorta di "ludi cartacei", che le dittature
così definivano per vanificare le elezioni, ma che oggi hanno
riacquistato un'attualità terminologica nelle 150 mila leggi
di cui disponiamo, nonché in certe coriacee attitudini politiche
e burocratiche, ecc., che hanno avuto e hanno una parte non secondaria
nei nostri tassi di crescita e di allineamento occidentale.
- Quale parte hanno i famosi "tavoli" esistenti o da creare,
nelle commissioni già istituite o da promuovere a livello parlamentare,
regionale, provinciale, comunale o di collegamento fra detti enti?
Quali sono i programmi di sviluppo, e perciò di occupazione
per il Mezzogiorno, dell'agricoltura, dell'industria, del commercio
(tra l'altro problema della collegialità delle forme di approvvigionamento
dei negozi specializzati chiamati a competere con la grande distribuzione),
del terziario avanzato, di cui mi sembra manchino del tutto tracce
locali (quanto gradita una rettifica a questo riguardo!)?
E qui mi fermo di fronte a domande ancora più lunghe e vaste,
forse talune pure ambiziose, come direbbe De Gaulle. Le mie sono solo
quelle di un vecchio giornalista economico, lontano fisicamente dalla
realtà, della quale però in lui rivivono ricordi e speranze.
E gli uni e le altre in sostanza rientrano in una sorta di soliloquio,
che chi ha i miei anni - e sono tantissimi - fa quando parla con gli
altri o quando scrive, come incallito giornalista, per gli altri.
C'è comunque un post scriptum da fare. Le risposte che mi attendo
non hanno nulla a che fare con i grossi volumi, che nessuno mai legge,
che impegnano non di rado qualche centinaio di esperti, che molto
spesso non essendo nemmeno possibili le fotocopie comportano solo
registrazioni sintetiche di pochi brani riassunti a voce.
Nelle ultime settimane si è parlato ad esempio di 39 volumi,
di 5.600 pagine, di 66 studiosi, di una decina di miliardi impiegati
anzi erogati per un solo tema, bisognoso di meno vaghi approfondimenti
e messe a punto. Il fatto è che pure nella problematica e nella
relativa dialettica politica e culturale l'ubi maior minor cessat
c'entra sempre di meno.
Milite ignoto
del Sud
Ma in queste mie attese per il Sud e per la mia speranza per un grande
Sud e perciò per il Paese tutto intero, si inserisce anche
un "medaglioncino" che riguarda un meridionale come me,
barese, che è morto novantenne, che è stato giornalista
come me. Nel suo nome e in sua presenza, a liberazione avvenuta, si
è riconciliata un'intera cittadinanza. Era stato anche ministro
dei Lavori Pubblici, con segni pure evidenti nelle opere locali.
E' morto quasi povero, facendo il correttore di bozze, dico bozze,
di un quotidiano della Capitale, fra i maggiori dei primi cinquant'anni
del secolo e cioè de Il Giornale d'Italia. Perciò anche
il Sud come "questione" ha il suo Milite Ignoto.
Lo considero, proprio perché è ignorato, uno dei padri
storici del nostro meridionalismo, con l'animo del lavoratore fino
all'ultimo, con la rettitudine - come si chiamava una volta -, con
l'onestà come anche giustamente e doverosamente si pratica
e deve praticarsi oggi, con la coscienza della politica come servizio.
Ognuno può aggiungere i suoi nomi ai miei, e sono sicuro che
sono tanti per il Sud del mio "cassetto".