§ IL CORSIVO

L'ORO DEL PO




Aldo Bello



Allora, chi siamo? Una nazione, una somma di popoli, un coacervo di tribù? O una "summa" biogenetica, risultato di contaminazioni profonde e millenarie, forse unica nel suo genere in Europa? In altre parole, il cosiddetto "italiano medio" contemporaneo, che cerca anche accanitamente radici e ascendenze primigenie, che vuol trovare rifugio in un passato che è - per illusione ottico-fisica e per tradizione polemica - sempre più nobile del passato degli altri, quale antropologia culturale rivela, quale condizione comportamentale vive?
Risponde Ermanno Rea: chissà se questo tipo prevalente di italiano sia mai stato sfiorato dal dubbio di rappresentarci tutti, dalle Alpi alla punta occidentale della Sicilia; di essere, insomma, una maschera, un campione nazionale, sia pure di quella particolare specie di italianità che si esprime nella costante e istrionica deformazione del reale; che non crede - esso per primo - in quello che dice e propugna, nella convinzione che ciò che veramente conta, soprattutto in politica, è menar scandalo, sollevare polvere, accendere risse. "Nei momenti difficili, di scontro, del resto, che cosa fa Pulcinella, se non battere le mani per l'eccitazione e la felicità? Guerra, guerra!, è il suo grido eternamente furbo e compiaciuto. E' fatto così. E' rissoso, benché pavido; aggressivo, ma pronto a fuggire; simpaticone, ma seminatore di zizzanie. Pulcinella non ha ideali, pensa solo al suo piatto di lenticchie. Siamo sinceri, lo riscatta un'unica circostanza: quella di essere mortalmente povero e affamato. E' la sua estrema indigenza. a trasformarcelo da piccola carogna in grande vittima, a velare di pietà la sua disponibile biografia. Di fronte a un Pulcinella ricco e col colesterolo chi di noi si sentirebbe disposto a una qualunque forma di bonomia? Eppure, di Pulcinella col colesterolo alto ce ne sono. E talvolta riescono a mietere anche molti consensi .. ".
Siamo un popolo in maschera, rincara la dose Claudio Magris, citando Giulio Bollati: la messinscena della propria identità ha bisogno degli stereotipi con i quali marcare sprezzantemente "gli altri", ma ogni stereotipo "getta luce sull'emittente", dice molto sui condizionamenti culturali e gli automatismi mentali di chi lo profferisce, ma assai poco sul bersaglio che questi si illude di colpire. Non solo. Dagli albori dell'Unità alla storia più recente, l'immagine ideale e stereotipa positiva o negativa dell'italiano si tratteggia in relazione ai disegni di dominio e soprattutto alle paure delle classi dominanti, o meglio alla loro permanente paura che i grandi avvenimenti d'Europa, che mettono in moto i progetti e le speranze di un'Italia unita e indipendente, possano sovvertire l'ordine sociale e i rapporti di potere fra dominatori e dominati. Nasce così lo sforzo di costruire e poi difendere l'Unità contro la Rivoluzione che pure l'ha resa possibile; tutto si inquadra in questo processo, della contrapposizione presto conciliata fra classicisti e romantici all'ansia manzoniana di esorcizzare la rivoluzione - e la storia stessa, con la sua violenza sovvertitrice - di un'Unità nazionale che ne sia l'argine e l'antidoto. Dalla Repubblica cisalpina ad oggi il cliché dell'italiano si forma in un processo segnato da due elementi, complementari e costanti pur nell'evoluzione delle diverse epoche, che caratterizzano società e cultura del Paese: il rifiuto, almeno culturale, della modernità industriale; la tendenza, generata da quella paura della rivoluzione, a un trasformismo che stempera le contrapposizioni politiche in una gelatinosa gestione consociativa del potere, impedendo alternanze e ricambi. Alla moderna civiltà industriale, che col suo intreccio di progresso e di brutalità affascinò e respinse Baudelaire, la cultura italiana dà una risposta regressiva: "Anche quando l'Italia conoscerà un intenso sviluppo industriale, con le relative trasformazioni anche violente del Bel Paese, avrà riluttanza ad accettare la cultura della modernità industriale, la cultura della trasformazione, del mutamento, del conflitto economico e sociale, della scienza e della tecnica. Anche quando la vigorosa crescita industriale avrà eroso la plurisecolare fisionomia agraria dell'Italia, pure le classi che attueranno questa trasformazione, di per sé negatrice della tradizione agraria, continueranno ad avere una mentalità e una cultura letteraria, umanistico-idealistica ispirata a quella tradizione, e continueranno a rifiutare la cultura scientifica dell'era industriale".
Dunque, la figura dell'italiano viene modellata secondo queste esigenze, fissata informe diverse, ma alla fine solidali, nella perennità di una tipologia radicata nella classicità e nella terra. E spesso si nega addirittura l'esistenza dell'italiano per poterlo programmare, inventare, ma nello stesso tempo lo si irrigidisce in uno stereotipo immutabile nei secoli: una sorta di eterno contadino, "ora disprezzato come rozzo e primitivo, inetto ad aver parte attiva nell'unificazione e nel governo del Paese, ora celebrato per la sua umiltà, la sua bontà e la sua capacità di sacrificio, che devono destinarlo ad una perpetua sottomissione, da ottenere con l'indottrinamento unificante e, se necessario, con la violenza esplicita, col sangue che anche, secondo la soave regina Margherita, si sarebbe dovuto spargere senza troppi turbamenti, se ciò fosse stato necessario per spazzare la plebaglia". Così l'italiano altri non è che il suddito di un Paese segnato da un sostanziale immobilismo trasformista che integra pure le alternative all'ordine esistente, in un colloidale blocco di potere che esclude autentiche trasformazioni.
Molte cose del pensiero Bollati-Magris sono condivisibili. Tranne una. Quando Bollati sostiene, e Magris condivide, che quella dell'italiano è una tipologia radicata nella classicità e nella terra, che ne fanno a tutti gli effetti un "perenne contadino", l'assunto tautologico che ne emerge è "il carattere eminentemente meridionale che viene ad assumere questo modello". Che cosa significa: che, Il meridionalizzandosi", il contadino settentrionale ci rimetta in fatto di antropologia culturale? Che i riluttanti coltivatori del mais siano stati costretti a pensare e a comportarsi come gli invasivi coltivatori del grano duro? 0 non, piuttosto, che si sono determinate condizioni storiche che, stratificandosi su remote e presunte identità, hanno finito per consolidare il grande pregiudizio che ancora oggi incombe sul Sud? E' appena il caso di accennare alle intonazioni spregiative che sopravvivono nelle espressioni gergali del Nord: per quelli della Venezia Giulia, tutti coloro che abitano oltre l'Isonzo sono "italiani"; Cesare Balbo, che pure è l'autore delle Speranze d'Italia, scrive che la natura ha fatto i piemontesi "italiani il meno che sia possibile"; che cosa pensino degli altri, e dei meridionali, i veneziani, i bergamaschi, i genovesi e i fiorentini, tanto per citarne alcuni, è cosa nota. Allora: come può essere accaduto tutto questo? Com'è che non siamo diventati nazione, sebbene il pensiero politico italiano sia stato tra i più alti e originali del Vecchio Continente?
Per capire quel che accade oggi non è sufficiente studiare l'Otto e il Novecento: è quanto sostiene Umberto Cerroni, docente di Scienza della Politica alla "Sapienza" di Roma, nel suo L'identità civile degli italiani, edito da Piero Manni. Si deve lavorare in campo lungo, dice Cerroni, giungendo sino a Federico II. Come mai l'Italia fu la più precoce e moderna delle nazioni d'Europa sotto il profilo culturale, mentre non seppe o non poté esprimere una speculare costruzione nazionale? In realtà, un tentativo ci fu, ma si infranse contro le plumbee scogliere del potere temporale dei Papi. Scrive Cerroni: "Quello di Federico II fu un tentativo che si inscrisse nel processo europeo di formazione dei primi Stati moderni, culminato dapprima nella battaglia di Bouvines (1214), e poi nel duro scontro tra poteri laici e Chiesa. In tale scontro, che portò alla conquista di una piena sovranità laica da parte di Francia e Inghilterra, Federico fallì. Fallì come imperatore, ma anche come unificatore dell'Italia. Egli del resto era italiano, figlio di madre siciliana, erede del regno normanno del Sud, educato nella cultura italiana nascente di cui fu un promotore e anche un protagonista". Ma nella penisola la Chiesa, oltre che "costruzione spirituale-religiosa", era uno Stato temporale che occupava il centro della penisola. Cerroni afferma che questa ingombrante presenza ha ritardato di secoli il processo unitario, allineandosi in sostanza con quanto affermò una volta Francesco Il, per il quale l'isolamento del Regno di Napoli dipendeva dal fatto che si trovava chiuso tra Stato Pontificio e Mediterraneo, che è come dire tra l'acqua santa e l'acqua salata. Ma Cerroni va oltre: lo Stato Pontificio e il potere temporale della Chiesa - sostiene - sono stati nello stesso tempo all'origine della frattura tra cultura e politica che ha caratterizzato l'intera nostra storia nazionale. Era la frattura che Gramsci invitava a saldare, ritenendo la cultura politica in potenza e la politica cultura in atto. Scrive Cerroni: "La politica italiana uscì dal proscenio europeo involgarendosi nelle competizioni particolaristiche e la cultura si salvò solo allontanandosi dalla politica e vivendo comunque in un vuoto politico nazionale".
Dopo Federico, dunque, non fummo più nazione, ma un Paese di campanili provinciali divisi da interessi, egoismi e dialetti così radicati, che sette secoli e mezzo non sono stati sufficienti a cancellarli. E' vero che, nel pensiero politico come nella poesia e nella narrativa, abbiamo avuto 'firme" cosmopolite. Ma a voler riflettere a fondo sulle singole figure - e, nel loro insieme, su tutti i personaggi di rilievo della nostra storia politica e letteraria - dobbiamo realisticamente ammettere che, ad esempio, come ha sostenuto Montanelli, Petrarca non concepì mai una Nazione italiana, perché sognava solo il ritorno di Roma ai suoi archi, alle sue colonne, e "insomma ai parafernali della sua grandezza", che non fu mai una grandezza "nazionale", ma imperiale e universale; Cola di Rienzo, cresciuto dentro questi sogni anacronistici, li tradusse in politica da "folle megalomane, quale clinicamente era"; quanto a Dante, il suo accenno all'Italia era squisitamente geografico, perché tutta la sua azione politica fu in funzione di Firenze, e addirittura della sua parte "bianca": il suo orizzonte era, e rimase sempre, "comunale".
Che cosa vuol dire tutto questo? Che la Nazione avrebbe dovuto precedere lo Stato, cioè che una coscienza nazionale forte negli animi più sensibili avrebbe dovuto esprimersi informa unitaria statale. Ma da noi è accaduto esattamente l'opposto: il pensiero politico progettò uno Stato, disegnò il modello del Principe, e finì con l'approdare nell'ideologia pessimistica del "particulare", senza mai darsi pena di 'fare" prima gli italiani. Certamente, gli italiani ebbero a disposizione una lingua, grazie alla quale potevano comunicare, (anche se Leopardi avrebbe detto secoli dopo che le consuetudini gergali impedivano a tutti di "conversare"). Ma la cultura rimase un fatto elitario, da esibire nelle corti, nei salotti: non scese fra la gente, non la informò di sé, non la coinvolse, e dunque non si fece presa di coscienza comune, nazionale.
Si deve prendere atto, anche, che l'Italia dell'Inquisizione non consumò sui roghi solo gli eretici e le streghe, ma bruciò ogni barlume, di coscienza morale e civile, e nello spazio di un paio di decenni o tre ridusse la penisola, che per due secoli era stata punto di riferimento in tutti i campi (economico, artistico, scientifico) ad area periferica e arretrata del Vecchio Continente. In tempi fulminei l'Italia non solo perdette tutti i primati, ma anche l'orgoglio di provarsi a difenderli. Scrive Montanelli: "Mentre gli altri Paesi dell'Occidente concentravano le loro energie nello sforzo di diventare Nazioni e Stati, l'Italia si rassegnava alla propria frammentazione in Signorie non solo affidate a padroni stranieri o vassalli di padroni stranieri, ma anche a milizie di mercenari stranieri".
Questo fu il gran cruccio di Machiavelli, il quale predicò l'impossibile sogno di costituire una milizia di cittadini perché -sosteneva - un popolo che non sa difendere la propria libertà è destinato a perderla. E infatti l'aveva già persa. Guicciardini, che non ebbe di questi sogni, teorizzò e praticò la sola politica possibile con i tempi che correvano: quella fatta solo da miserabili interessi "particulari", perseguita con freddo cinismo - inganno, doppio gioco, anche tradimento -, il solo che, come il lutto ad Elettra, si addiceva a un popolo senza più ideali, senza personale dignità, pronto ad ogni genere di "servizio" purché servisse, appunto, al "particulare". In questo modo sì confezionò il prototipo dell'italiano imbelle, vile, nello stesso tempo furbo e fesso, del quale Guicciardini offre il ritratto più aderente e quasi sublimato. Non è possibile amare Guicciardini. Ma non si può non ammirare il suo spregiudicato realismo.
Come si spiega, allora, che nel giro di venti o trent'anni - quelli in cui in Occidente si afferma la Riforma protestante, mentre in Italia trionfa la Controriforma della Chiesa -l'Italia che era stata la patria della Banca e dei banchieri lombardi e fiorentini che avevano avuto in pugno le finanze di Papi, Imperatori, Re e Stati, si giocò fra gli altri anche questo primato, che passò alla calvinista Ginevra e alla luterana Germania? Nessuno venga a raccontarci, come si è soliti fare, che ciò accadde perché l'Italia non era diventata una nazione e perciò non offriva un "mercato nazionale". Questa è un'idiozia accreditata da storici di parte. La Banca italiana del Rinascimento era una multinazionale ante litteram che operava in tutta Europa. E che cosa ne provocò, in tutta Europa, il drammatico e improvviso crollo, se non la diversa concezione del capitale che il protestantesimo e soprattutto il calvinismo avevano in sé, intridendolo di religiosa sacralità e quindi dandogli un fondamento morale che il capitalismo cattolico non aveva? Il capitalista protestante era convinto di essere non il padrone, ma l'amministratore dei beni di cui il Signore gli aveva fatto la grazia di disporre a patto che se ne dimostrasse meritevole. Il capitalista cattolico considerava la ricchezza il premio delle sue capacità e quindi si riteneva libero di disporne come voleva, anche di dissiparlo o di farlo dissipare dai suoi eredi. Nummus: per il primo era artifex, per l'altro numen. Vedere alla voce Max Weber, il (vero) padre della (vera) sociologia moderna, per rendersene conto.
Nella seconda metà del '700, Carlo Emanuele III di Savoia in Piemonte, Leopoldo I di Lorena in Toscana e Carlo III di Borbone nel Napoletano avviarono una serie di riforme civili. L'Inghilterra le aveva già attuate, quando nell'89 Parigi prese la Bastiglia e aprì la stagione rivoluzionaria. E in Italia? Ancora un secolo dopo, il saggista Enrico Errico scriveva: "Il divario che corre tra la Francia e l'Italia è che dove questa ha a schifo le subitanee scosse, e procede savia e temperata nelle sue innovazioni; alla Francia, per contrario, dilettano quei ruggiti, che, scoppiando repentinamente, mantengono per lungo tempo vivo il loro fragore. Gli spiriti italiani non sentono il bisogno di distrugger l'antico, ma se ne fanno fondamento a edificare il nuovo. Ripiegandosi in loro stessi si ritrovano nel passato, e con questo armonizzano le nuove tendenze e le nuove aspirazioni. E che cos'altro fecero il Parini e l'Alfieri se non ripigliare la tradizione dantesca, stata messa da banda nei secoli di servitù civile? Ma i Francesi credettero [ ... ] di avere a distruggere di pianta ogni nazionale tradizione [ ... ]. Religione, leggi, costumanze, tutto fu messo a soqquadro [ ... ] con una leggerezza che ha dell'incredibile [ ... ]. Così la rivoluzione francese, in luogo di giovare, nocque grandemente all'Italia". Perché? Perché i Principi, "colti alla sprovveduta da quella bufera", si ritrassero sgomenti in se stessi, "troncando a mezzo le principiate riforme, e che è più, insospettirono ancora delle lettere: quando, in quello scambio, avrebbero dovuto proseguire le une a favorire le altre". I popoli della penisola, viste fallire le loro speranze, "accolsero le altre novità, che a larga mano piovevano loro dalla Senna, e con le novità i nuovi dominatori".
Napoli, intanto, aveva fatto cadere tutte le teste pensanti. Era il '99. Sedici anni dopo, Vienna rimise le cose al loro posto: "Religione e Monarchia non pur essere le cause fattive dell'umano incivilimento, ma le sole acconce a salvare l'umana compagnia dalla sua rovina". Altro che enciclopedisti, libertà, fraternità e uguaglianza tra i popoli, o Dea Ragione sugli altari! E altro che fantasie di Bruti, Cincinnati, Camilli e Caii Gracchi, che poi non lasciarono alcuna traccia; o ritorno al Medio Evo, superato dall'universalità cristiana di Dante; o ritorni di fiamma per Petrarca e Boccaccio, i quali, "per quello spirito d'imitazione, che fu loro facile ingenerare in altrui, nocquero più che non giovarono alla letteratura italiana". Occorreva un uomo che di quelle idee balzane si facesse padrone e, "ridottele nel loro vero essere", le facesse "contenuto di una nuova letteratura". E fu Manzoni, "creatore della letteratura dell'800, come lo fu Dante, creatore della letteratura universale d'Italia", avendo saputo vedere la vastità dell'idea cristiana e riprodurla nella Commedia. Non Foscolo né Leopardi, che da quell'idea deviarono, negandola, e finendo col produrre nientemeno che poesia pura. Ma Manzoni, che seppe superare il conflitto tra Classicismo e Romanticismo: una lotta apparentemente letteraria, perché dentro nascondeva un fine politico.
Scrive Errico: "Il Romanticismo, il quale, combattendo ciò che vi ha di convenzionale nell'arte, prende le mosse e s'ispira ai sentimenti di natura, di religione e di patria, rispondeva mirabilmente al concetto politico liberale, che si voleva diffondere e propugnare. Il Classicismo, studiandosi con la dolcezza della letteratura di addormentare ogni nobile passione, e prevenire ogni atto, che desse ombra alla politica austriaca, o che tentasse di sovvertire l'ordine stabilito in Italia, dava colore al concetto politico contrario. Pur tra i romantici v'ebbe chi secondava ben altro fine politico; quello cioè di rifare la società sul Medio Evo. Contro i propugnatori di questo principio si levarono i Classici bandendo principii opposti; sicché questi apparvero liberali, sebbene covertamente secondassero le mire dell'Austria". Ma ecco comparire il Conciliatore. Che, come scrisse il Pellico, non si proponeva di conciliare "i leali coi falsi, ma tutti i sinceri amatori del vero [ ... ] collegati per sostenere, finché è possibile, la dignità del nome italiano". Seguì la fiorentina Antologia. Ed emersero i canti popolari e le prose di Berchet, Rossetti, Niccolini, Gioberti, Balbo, D'Azeglio.
Con tanta patria e altrettanto neoguelfismo. E anche tanta retorica (in tutte le componenti, anche contrapposte: da Carducci a D'Annunzio). Fu De Sanctis a intuire che "la nostra storia nazionale trovava il suo fondamento in un ideale culturale più che socio-politico" (Sanguineti). Fu lui a "tracciare i nostri confini", a dettare "quasi la tavola della legge" (Carlo Dionisotti), aggiornabile - semmai - ma in sé definitiva.
E fu proprio questo che lo ha reso un monumento all'anticrocianesimo; oltre che inviso, di volta in volta, ai neoguelfi, ai neobarocchi, ai superstiti pre-unitari e agli ultimi arrivati, quelli delle tribù leghiste che, dopo aver vagato tra Longobardi e Celti, nella vana ricerca di insospettabili radici razziali, sono approdati sulle falde del Monviso e vi hanno scoperto nel Po la mistica della purezza primigenia, l'immanenza del messaggio profetico destinato alla zona grigia racchiusa tra il "Fiume sacro" e i confratelli Brenta, Adda e Adige, con rispettivi affluenti.
Sui neoguelfi ecc. non c'è più di tanto da dire: basta leggere i libri e cogliere tutta la possanza da era glaciale del pensiero, ad esempio, di un Vittorio Messori. Libri e pensiero degnissimi di figurare fra le teche di un museo paleontologico, e non senza un qualche interesse da parte di visitatori curiosi di preistoria. Chi di noi, d'altra parte, non si sente attratto almeno una volta nella vita dalle cianfrusaglie stratificate in solaio o ammucchiate sulla bancarella di un rigattiere? No. Ci stimolano di più i neopagani del Po. Per due ragioni: per quello che sono (ne parleremo in conclusione) e per quel che hanno determinato di recente, e di cui è bene parlar subito.
Ebbene, la Chiesa e la sua espressione di potere temporale, che avevano tagliato in due la penisola, che avrebbero visto di buon occhio solo una federazione di Stati sottoposti all'autorità non solo morale del Papa, che ancora oggi, almeno in certe componenti minoritarie ma pervicacemente anti-risorgimentali, ricordano col sangue agli occhi l'unificazione della penisola, questa stessa Chiesa, dicevo, è stata l'unica istituzione a condannare senza appello il rito dell'acqua "misticamente" raccolta a Pian del Re e sigillata nell'ampolla poi trasferita sul delta, in una specie di viaggio a ritroso (da Ovest ad Est) rispetto al "cammino" che gli Annunciatori del Vangelo cristiano avevano effettuato (da Est fino a Roma; e poi oltre ogni confine), affrontando anche il martirio. La Chiesa e le sue gerarchie (si badi: dopo il Vaticano Il) hanno difeso l'integrità della penisola, i valori della lingua e della bandiera italiane, la responsabilità solidale di tutti i cittadini. Perché mai?
Risponde Scalfari: "La Chiesa non si è posta il problema se i seguaci del Bossi secessionista siano pochi o tanti, se la Padania abbia o non abbia concrete possibilità di nascere come Stato e che cosa possa accadere dopo. Queste sono questioni che riguardano Cesare. Ma se si predicala divinizzazione del fiume e se si disconosce la Preghiera fondamentale della cristianità rivolta al "Padre che sta nei cieli" [ ... ], questo non riguarda più Cesare, ma Dio, perché ferisce al cuore la dottrina e la cristianità storicamente realizzata. Ecco perché la Chiesa è intervenuta e interverrà. E' molto grave che [ ... ] non vi sia stato finora un messaggio di equivalente forza morale da parte del pensiero laico. Eppure il liberalismo laico possiede tutti gli strumenti intellettuali e dispone di tutti i lasciti d'una grande tradizione che sta alla base del pensiero moderno per giudicare moralmente prima ancora che politicamente quanto si sta svolgendo sotto gli occhi forse troppo distratti della nazione".
La Chiesa, nella sua millenaria esperienza, teme e condanna il progetto leghista di scrivere una pagina nuova, sulla quale inaugurare una nuova Storia di Salvezza, una nuova Fuga dal Faraone col quale pure a lungo si è convissuto e si è patteggiato: un'abrasione del passato in nome della, anch'essa nuova, Terra Promessa.
Dice Barbara Spinelli: "Le ideologie dei Mondi Nuovi sono di ritorno, e con esse le speciali metafisiche utopiche, gli integralismi etnico-religiosi che sistematicamente aboliscono la storia e il divenire". I neopagani non si sentono parte della storia italiana e non si curano della propria storia: se non li concerne l'infezione morale di Roma e del Sud, non li preoccupa neanche la sterminata curruzione del Nord, né le mortali ferite ecologiche inflitte da loro stessi al Dio Po. Non si assumono responsabilità o colpe, perché hanno alzato una cortina di ferro sul passato e una di bambù sul presente.
Sono immersi solo nel futuro, in un futuro che si apparenta alle monadi di Leibniz:
"Sprovviste di finestre". Sbarazzatisi di ogni ingombrante memoria, vivono in un mondo ellittico, Eletti, Illibati, Incontaminati dal peccato di Adamo: tutti chiusi nel Puro Alone di un wagneriano Oro del Po. De-costruttori dello Stato-Nazione e Profeti dell'appartenenza a post-moderne identità etniche.
Ma anche Disobbedienti al sovrano nazionale e pronti all'obbedienza nei riguardi di uno sovranazionale. Essi conciliano, fino a renderli complici, mondialismo e comunitarismo locale nel nome del Dio-Mercato che si consustanzia nella profana eucarestia dell'Oro del Po.
Solo da qui, il separatismo? Esso è forte - dice Spinelli - perché riempie un vuoto italiano non tanto di identità, ma di azione politica. Perché disvela l'incapacità degli Stati-Nazione moderni di esercitare nei fatti la sovranità che pretendono di possedere. "Non è solo l'insufficiente senso della Nazione che debilita lo Stato nostro. E' l'insufficienza d'un Sovrano che non dice la verità ai cittadini circa il proprio collasso: collasso di sovranità nell'economia, nelle decisioni di guerra, nella cultura. Che lamenta giustamente la perdita della memoria nazionale, ma non inventa nulla - nessuna etica, nessuna politica, nessun senso storico applicato al presente - per fronteggiare sia i neonazionalismi dell'esclusione che traslocano nelle periferiche comunità, sia i centri mondiali che amministrano - anch'essi -poteri senza responsabilità".
Dunque, il secessionismo altro non è che la decisione di privatizzare non solo o non tanto l'economia, quanto gli attributi dello Stato classico: l'identità etnica, l'area geografica, la sovranità, la storia stessa; non a vantaggio dell'individuo o della società di cittadini, ma di categorie etnico-biologiche insulari, che non hanno nulla a che fare con le tradizionali "classi", e che vanno chiamate invece tribù comunitariste. Queste si sentono a proprio agio nella mondializzazione, perché in essa possono proliferare Muri e Cortine. Non si sentono a proprio agio quando alle loro dottrine politeiste si contrappongono quelle dell'universalismo delle libertà-responsabilità, dei diritti-e-doveri, delle solidarietà, dei valori cui le Nazioni a democrazia matura non possono non credere.
Ma proprio questo ci insegna l'esperienza storica del nostro secolo: non siamo ancora Nazione, e non abbiamo ancora una democrazia matura. Ci presentiamo alla fine del secolo-millennio nella forma di una Crisi Subliminale. Che, nel bene o nel male, da qui a poco più di tre anni, visto che "crisi" altro non vuol dire che transizione, passaggio, gli italiani erratici - ed erranti - abbiano finalmente deciso se andare al di là o restare al di qua delle acque del Po-Mar Rosso?


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