§ Tamburi lontani

Secessionisti del Sud




Ada Provenzano, Gianna Dobici
Coll.: F. Albini, A. Urbani, G. Ricciotti



Il sasso in palude lo ha lanciato Luigi Baldacci, il quale ha scritto: "Ci chiediamo [ ... ] se la letteratura del Nord (lombarda e piemontese) non abbia contribuito, con la sua visione bonaria e ottimistica della realtà, a sbarrare la strada a una visione opposta, dura, fortemente critica nei confronti dello Stato Unitario. Ci riferiamo, insomma, per i settentrionali, a tutti coloro in cui resiste la poetica della figurina e del bozzetto e, al tempo stesso, la fedeltà a un modello manzoniano mal tradotto e irrigidito, secondo il quale il romanzo appare come un genere misto di serio e di faceto, di moralità e di affidabilità". Cioè: banalizzato, quel manzonismo finiva allora per funzionare come una garanzia di conservazione, (in quanto esorcizzava ogni atto o pensiero eversivo), e dal momento che il positivismo aveva invaso il campo e non era più lecito affidarsi ad una speranza celeste, la questione si riduceva all'elevazione del popolo secondo un decalogo laico. Niente riforme: ciascuno aveva il preciso compito di riformare se stesso con la forza delle braccia e l'intelligenza sana. La lotta per la vita non avrebbe portato a una selezione, ma, al contrario di quanto accade in Verga, tutti sarebbero giunti al traguardo.
Nella coscienza del Sud, prosegue Baldacci, prevale invece la soluzione radicale di sostituire l'ottica tragica a quella comica. Chi spingeva alla scelta? Certo, fu importante che il Sud non percepisse l'ipoteca ideologica del Manzoni; e importanti furono anche le condizioni sociali oggettive. Ma determinante fu senza dubbio la sensazione che l'Unità non avesse risolto niente e fosse anzi una pietra tombale sulle attese. Mentre per gli altri, i nordisti, quell'Unità era un frutto da difendere e far crescere sull'albero appena fiorito. Gli antirisorgimentali, dunque, erano, e sono, meridionali, e massimamente Verga, De Roberto, Pirandello, Borgese, fino allo scettico Lampedusa; gli "inseriti" sono invece i settentrionali.
Questi contestano soltanto il sistema linguistico (e qualcuno obietterà che sono "inseriti" fino a un certo punto se, come scrittori, non piacciono a quegli stessi che condividono le loro idee politiche): gli altri, con I Viceré, I Malavoglia, I vecchi e i giovani, Rubè, mostrano quale disastro d'ingiustizia e di disfunzione fosse già allora l'Italia. "Malversare oggi ed eliminare domani chi si rifiutava di marciare: l'episodio del soldatino "macellato" dal superiore in Rubè".
Con una precisazione di rigore: quelli del Nord non sanno che la loro scrittura li sta portando fuori dall'assetto costituzionale; quelli del Sud, anche se un giorno diventeranno nazionalisti, sono consapevoli della loro presa di posizione politica. E' abbastanza nota la definizione che il piemontese Giovanni Faldella dette del proprio stile: "Vocaboli del '300, del '500, della parlata toscana e piemontesismi; sulle rive del patetico piantato uno sghignazzo da buffone: tormentato il dizionario come un cadavere con la disperazione di dargli vita mediante il canto, il pianoforte, l'elettricità, il reobarbaro". Ma Baldacci ammette che sarebbe grave errore pensare che il Sud restasse indietro sul piano della soluzione formale. Se rifiutava la sperimentazione, scopriva, con Verga, "una declinazione del naturalismo che fondeva, in una sintesi tecnica straordinaria, il parlato e il narrato: altro che '300!".
Ma ci furono scambi tra Nord e Sud? Il napoletano Vittorio Imbriani, principe dei reazionari, fu l'unico meridionale effettivamente assimilabile alla Scapigliatura lombarda, e fu colui che, nel tessuto, di più può somigliare a Gadda, forse anche perché ebbe un senso dello spessore e della corporeità, "insomma della terza dimensione, che molti dei settentrionali, affezionati alle due dimensioni della pittura orientale, non hanno". Può essere utile, in proposito, mettere a confronto Dio ne scampi dagli Orsenigo dell'Imbriani e la Vita di Alberto Pisani di Carlo Dossi. "Il napoletano è costantemente armato contro i propri personaggi, e questo è il sigillo della sua modernità; Dossi è un Narciso che risucchia in sé il mondo esterno e questo è il segno di una modernità diversa". Imbriani realizzò una prosa irta di latinismi e di forme dialettali, di allitterazioni e di giochi di parole; si richiamò ai modi degli scrittori del '400 e dei barocchi del '600, fra i quali predilesse il Basile; ed ebbe un estroso gusto personale, insofferente di ogni forma decadente. Dossi usò le spregiudicatezze intellettuali degli scapigliati, ma se ne distinse col dono di un misurato decadentismo ironico sospeso tra l'umorismo e i compiacimenti stilistici che finirono col prevalere sull'intenerimento della memoria.
Tanta poca fortuna ebbe Rubè di Borgese (che D'Annunzio definì frutto di una "potente tristezza", e che inquadrava la vicenda negli anni della prima guerra mondiale e in quelli immediatamente successivi, ciò che oggi ne moltiplica gli echi e i significati generali), quanta ne ebbe invece, al suo tempo, Giovanni Faldella, piemontese di Saluggio. Nel '77 Carducci gli scriveva: "Certe sue pagine paiono cataloghi di bei motti, o di eleganze classiche, o di ardiri popolareschi [ ... ], molte altre sono miniate, disegnate, scolpite, tornite, finite, come io vorrei che fosse sempre l'immaginosa e giovenil prosa italiana [ ... ]. lo credo che Ella sia il più potente rappresentatore del vero nella prosa odierna narrativa, descrittiva e di fantasia". E pensare che ciò che questo scrittore poteva offrire con le sue celebratissime Figurine era un quadro popolato da paesani amanti di un moderato progresso, da poveri ragazzi che a forza di lavorare sposavano la figlia del padrone e impegnavano i quattrini guadagnati in imprese filantropiche, da contadini pronti a provare che l'idillio sociale era la ricetta vincente. Non a caso Faldella predilesse gli argomenti campestri, dove meglio poteva esprimersi la sua vena musicale e lirica, che aveva assimilato la lezione del verismo in modo consono a un temperamento di umorista e di scrittore "senza tesi". Tant'è che nel ciclo Un serpe (i romanzi Idillio a tavola, Un consulto medico, La giustizia del mondo) i motivi naturalisti e sociologici, così diffusi nell'epoca, si intrecciarono con l'ispirazione poetico-favolistica in un bozzettismo ricco di fantasie, di estri, di correnti valori narrativi e letterari.
Sebastiano Vassalli, nell'introduzione alla cronaca di viaggio A Parigi, dichiarò di essere "innamorato cotto" della prosa del Faldella e insieme fornì citazioni seducenti (da Figurine). Ma Vassalli parlava di prosa: quando Faldella si mette a narrare, scopre una totale assenza di mondo; e il mondo, in uno scrittore, somiglia sempre un po' al mondo secondo San Giovanni: qualcosa di male che in lui, Faldella, non poteva esserci. "Si ha allora il sospetto che a questa letteratura il Nord abbia fatto, dopo averla prodotta, anche troppa festa. Non è sembrato forse, a un certo punto, che il Cagna di Alpinisti ciabattoni meritasse più attenzione di De Roberto?". Sta di fatto che a perseguitare alcuni meridionali provvide anche Croce, il quale, andando in cerca di poesia e avendola trovata nel Verga, non tollerava che la bestialità e la corruzione politica fossero argomento di romanzo nei Viceré; e, nei Vecchi e i giovani, al posto dei temi eterni della vita, tenessero il campo gli scandali della Banca Romana o la cruenta repressione dei Fasci Siciliani. "L'ottusità con la quale sono stati accolti in Italia - in certi casi anche da parte della cultura meridionale - gli epigoni di Verga (e tra questi Pirandello) appare massiccia. Al Nord, nei confronti dei conterranei, c'è stato un eccesso di amor di patria".
I casi più clamorosi, quelli di De Roberto, Pirandello e Tomasi di Lampedusa. De Roberto era il più giovane della triade (con Verga e Capuana) del cosiddetto verismo meridionale. Il verismo per lui non fu solo una forma narrativa distaccata dalla vicenda in un continuo sforzo di obiettività, e non fu solo "copia dal vero" di figure, di paesaggi, di ambienti sociali, ma anche gusto del riferimento storico preciso, dell'esatta ricostruzione di fatti e circostanze. "Sentì" le sue creature, ma di più le osservò. In questo senso, se è vero che fu influenzato dal Capuana, è altrettanto vero che tenne sempre presenti Flaubert e Bourget.
Il suo I Viceré fu concepito come il primo romanzo di un ciclo rimasto incompiuto e che si sarebbe dovuto concludere con L'Imperio. Qui l'indagine storica e psicologica si fuse con la satira di costume del periodo successivo al 1860, cioè dell'annessione della Sicilia e del Sud al nuovo Regno italiano.
Nel romanzo ricompare un motivo già operante in De Roberto, il confronto fra ciò che appare e ciò che agisce latentemente; anzi, si può dire che tutto I Viceré è rapportabile a questo metro di confronto, che vale come metro di conoscenza storica in una zona ben individualizzata, ed è insieme il suo contrario, la negazione di ogni fede storicistica.
E' uno dei paradossi che rendono tanto interessante quest'opera e ne spiega, forse, l'insuccesso al suo apparire. Per molti decenni è risultato difficile accettare questo grande romanzo dell'inattualità e della negazione (basti ricordare l'impaziente e tardiva stroncatura del Croce, nel 1939), oggettivamente estraneo ad ogni ufficialità, ad ogni progressismo, ad ogni teleologismo. Questo è il motivo per cui I Viceré non è una variazione del romanzo storico, magari nelle vesti di geniale eccentricità. E' proprio la logica del romanzo storico a venir contraddetta, poiché De Roberto non ricostruisce una fetta di storia siciliana adeguandola ad una filosofia della storia che conforti quella sua ricostruzione in vista di una interpretazione presupposta. Di fronte all'imperante risorgimentalismo, I Viceré fa valere la sua carica di estraneità così profonda da imporsi come una forma di oggettiva opposizione: che è poi la contrapposizione di lunga data fra Sicilia e continente, fra provincia e Stato, fra separatismo e accentramento. Crispi riuscirà a saldare, equivocamente e precariamente, questa opposizione; ma non a caso De Roberto non fu mai, come lo furono invece Verga e Capuana, un vero e proprio crispino.
Il paradosso di fondo del romanzo: da una parte abbiamo un procedere fitto di avvenimenti familiari e locali ai quali fanno riscontro i grandi eventi nazionali; dall'altra questo procedere che può sembrare cronachistico matura nel suo corso un implicito disegno di capovolgimento del punto di vista iniziale.
Questa storia di una grande famiglia si trasforma nel grandioso controcanto, con i suoi toni antiepici, delle celebrazioni ufficiali di una classe arrivata al potere, della sua ideologia e della sua filosofia della storia. Contro la cosiddetta "letteratura parlamentare", De Roberto, senza dubbio insieme con Verga, ma con un oltranzismo stilistico e gnoseologico che preavverte il "pessimismo umoristico" di Pirandello, segnala il destino della Sicilia, la sua separatezza, il suo isolamento, ed insieme la sua capacità di essere la controparte critica e lucida nei confronti dell'ufficialità continentale. Sia detto esplicitamente: al di là di Tomasi di Lampedusa, che è caso tutto a parte, la sicilianità "critica", da Brancati a Sciascia, non per nulla grandi estimatori de I Viceré, testimonia la continuità di tale impegno.
In ultima analisi, I Viceré è il romanzo dell'opposizione meridionale, cioè di un'opposizione di lungo periodo. Di contro alla letteratura maggioritaria, tutta tesa a rivendicare la grandezza delle lotte risorgimentali, e le novità della giovane politica dello Stato sabaudo, De Roberto scrive un'opera di intonazione schiettamente antirisorgimentale, nel senso che non solo ogni tono apologetico viene respinto, ma vi si insinua uno spirito di corrosiva demistificazione.
La delusione storica, seguita nel Sud agli entusiasmi e agli ideali risorgimentali, l'irrequieta e confusa situazione sociale di una borghesia tormentata da crisi e da scandali, i costumi dell'isola dominati da un'antiquata convenzionalità, influirono moltissimo, anche a distanza di anni, sulla visione amara, quasi acre, che a poco a poco si precisò nella parabola dell'opera di Pirandello. Il quale, richiamandosi alla lezione verghiana, polemicamente e criticamente contrappose il verismo all'estetismo dilagato verso la fine del XIX secolo con gli entusiasmi per la poesia e la narrativa del D'Annunzio.
Nelle novelle e nei romanzi pirandelliani non manca, almeno sullo sfondo, l'elemento sociologico. Gli eroi di Pirandello sono determinati storicamente e scelti in prevalenza nella piccola borghesia dell'Italia meridionale, sottoposti a leggi contraddittorie, quelle del conformismo e dei vari trasformismi che si manifestavano nella vita di una nazione unita di recente. La sua concezione dell'umorismo gli servirà per mettere a nudo le ipocrisie, gli schemi morali, le formule vuote del senso comune che imprigionano gli esseri umani e producono fra loro rapporti crudeli. Sin da allora, egli si orienta sulla strada di una ricerca artistica che poi fu detta "realisino critico", e che all'ottimismo degli estetizzanti oppone una visione già drammatica della crisi insorta nel mondo borghese dopo il tramonto delle illusioni ottocentesche di progresso. Secondo alcuni critici, proprio nelle novelle sarebbero da ricercare i momenti più alti della ricerca poetica e umana che poi scopriremo nel suo teatro. Ma è in un romanzo che, programmaticamente, egli affronta il problema della "diversità" del Sud rispetto al resto del Paese.
E' vasto il disegno de I vecchi e i giovani, ambientato in Sicilia e a Roma nel periodo delle prime lotte dei Fasci Siciliani e del clamoroso scandalo della Banca Romana. Per la vastità dell'affresco storico, il romanzo è un'analisi della società contemporanea in rapporto ai fenomeni storici: il Risorgimento che si risolve in "bancarotta del patriottismo", la corruzione e l'ottimismo finanziario dell'epoca giolittiana, il socialismo. Il contrasto fra ideale e reale appare esasperato, sia nella vecchia generazione che nella nuova; dell'una si denuncia l'incapacità nell'azione, dell'altra l'impossibilità di affermarsi e di manifestarsi in una società cristallizzata e chiusa. "Ecco come l'opera dei vecchi, qua, ora, nel bel mezzo d'Italia, a Roma, sprofondava in una cloaca; mentre su nel Settentrione s'irretiva in una coalizione spudorata di loschi interessi; e giù nella bassa Italia, nelle Isole, vaneggiava apposta sospesa, perché vi durassero l'inerzia, la miseria e l'ignoranza".
Il crollo degli ideali del Risorgimento s'intreccia alla ribellione meridionalistica, che, spesso, di fronte alla sopraffazione e alla violenza con cui vengono repressi i moti popolari, provoca l'unità di tutti i ceti sociali, compresi quelli che hanno le loro ragioni per temere ogni forma di disordine: "La nativa fierezza comune a tutti gli isolani si ribellava a questa nuova onta che il governo italiano infliggeva alla Sicilia, invece di un tardo riparo dei vecchi mali". Ma s'intreccia ugualmente alle delusioni in cui si scontrano i giovani intellettuali orientati verso il socialismo, quando la loro azione fallisce e non riesce a rompere "quella dura scorza secolare di stupidità e d'astuzia animalesche", che immobilizzava il mondo contadino. Anche questa visione, priva di speranza, resta impostata sul conflitto fra illusione e realtà, entro i limiti di una dialettica di carattere positivistico che porta Pirandello a un assoluto pessimismo storico. Del resto, di analoga natura sarà la dialettica del suo teatro, dominato in prevalenza dal dualismo tra forma e vita.
Lampedusa, infine. Leopardianamente lontano da ogni retorica celebrativa delle innovazioni e del progresso, eppure liberale per esigenza e conservatore per convinzione e abitudine, e appassionato per le problematiche della storia e del mondo moderno. Nel Gattopardo in se stesso, l'impalcatura da romanzo storico può forse essere considerata un elemento fra tanti, così come le qualità narrative di Tomasi non si affidano restrittivamente agli aspetti formali della sua prosa. Indubbia è la capacità di questo autore di cristallizzare nelle immagini e nei personaggi una molteplicità dì motivi per sviluppare un segreto dibattito sul mondo odierno e sui problemi della vita umana, visti attraverso la storia. I motivi attraverso i quali si svolge la sua visione critica del Risorgimento, risolto in plebisciti per burla, e la denuncia del fallimento dell'Unità, considerata come un "compromesso" fra classi dirigenti settentrionali e meridionali per evitare la rivoluzione, e magari una seconda "riconquista del Sud" attraverso una guerra civile quale era stata quella alimentata dal cosiddetto "brigantaggio", in fondo non presentano novità eccezionali rispetto alle conclusioni della vasta saggistica storica, compresa quella non revisionistica. Essi offrono a Lampedusa il pretesto per interrogare se stesso e il lettore sulle vere possibilità di impegno dell'uomo, e in questo senso adombrano un'esperienza autobiografica. Ma il dibattito viene esteso nel romanzo ad altri motivi, intorno a quella che fu definita una "visione tragica" della vita. Bisogna aggiungere, per capire un elemento della sua straordinaria fortuna, che esso non riporta solo all'esperienza di un uomo o di un gruppo determinato, ma anche alla più vasta "mentalità" d'una generazione passata, in Italia, attraverso molteplici contrasti di libertà apparenti, di regimi autoritari, di occupazioni straniere, e sottoposta a retorici appelli, a contrastanti affermazioni di libertà, di democrazia, e, viceversa, di esaltato ed astratto amor di patria.
Qualche anno fa, discutendo di Tozzi sull'Indice, Mengaldo osservava quanto sia difficile per uno scrittore "integralmente tragico" penetrare nella coscienza degli italiani: un discorso che tocca da vicino la contrapposizione Nord-Sud. Dice Baldacci: "Ma la tragedia palesava la crisi di un intero sistema nazionale, appena nato e già sull'orlo del collasso: era un allarme valido per tutti, che se fosse stato assimilato ad un livello diverso da quello letterario, anziché essere liquidato da qualche barzelletta idealistica, avrebbe esorcizzato molti dei mali che abbiamo sotto gli occhi. La commedia, al contrario, sigillata nella sua stessa buona educazione, ostentava, anche per esigenze di genere, un ottimismo fiducioso e poneva l'esigenza del lieto fine".
Resta il fatto che coloro che hanno dato voce ai veri colonizzati, gli obiettori che hanno denunciato una fittizia Unità agganciata ai brogli, ai furti, alla violenza, all'impostura sono stati gli scrittori del Sud: "La letteratura non può né deve intervenire nella sfera politica; tuttavia può seminare sospetti, far dormire sonni meno tranquilli. Ma abbiamo preferito credere, appunto, che si trattasse di una commedia. Oggi, spenti i lumi, è forse un po' tardi per chiedere i conti". Perché il Nord, quello dei politici, degli scrittori, delle case editrici, continua a presentarli quasi sempre truccati.


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