§ Stupor Mundi

L'Imperatore e il suo suddito




Bruno Di Paola



In questa quinta ed ultima parte de L'Imperatore e il suo suddito, Giovanni da Procida racconta la tragica fine dei discendenti di Federico II di Svevia e come divenne lui stesso protagonista delle imprese che si conclusero con il Vespro Siciliano, avvenimento che segnò il riscatto della stirpe degli Hohenstaufen contro gli Angioini.


5 - La disfatta

26 febbraio 1266
Tetro era il giorno ed il gelo opprimeva le colline e la piana ove i due eserciti si affrontavano.
"Giovanni", mi chiese, "vedi giungere i cavalieri di Bartolomeo che schiacceranno il nemico e porranno fine a questa tenzone mortale?".
"Mio signore", risposi, "vedo, nubi di polvere oltre il ponte, ma temo siano sollevate dal gelido vento, poiché non distinguo luccichii di armature, né lampi di spade e neppure le nere aquile sulle dorate insegne che tante volte hanno atterrito i nemici e gettato scompiglio nei loro eserciti".
"Giovanni", chiese ancora, "scorgi là nella pianura le schiere di armati che si assalgono e si combattono?".
"Sì, mio signore", mormorai. " Vedo i prodi saraceni indietreggiare sotto le furibonde cariche dei cavalieri di Carlo che menano furiosi fendenti e circondano gli appiedati soldati".
"Giovanni", insistette, "vedi anche tu i nostri cavalieri cadere sotto gli assalti?".
"Sì, mio signore", gemetti, "le armature impacciano la carica ed essi sono facile preda dei Provenzali, i quali indossano solo la leggera cotta".
Rimase silenzioso, gli occhi azzurri fissi lontano sulla pianura tormentata dalle urla della violenta pugna, quasi attendesse il momento non ancora giunto. "Ormai non vi è più tempo per l'arrivo di soccorsi", disse ad un tratto. "E' giunta l'ora di mostrare il valore. Mi lancerò nella battaglia e là nella pianura infonderò coraggio ai miei soldati e muterò le sorti di questa disperata lotta. Oppure il destino avverso vedrà come muoiono i re. E allora non vi' sarà più Manfredi. Le sue fredde membra giaceranno su quella sassosa terra e immobili le pupille fisseranno il cielo. L'angoscia prenderà la disperata moglie che, come Andromaca, alla ferale notizia, abbraccerà i pargoli figlioletti e scenderanno copiose dalle sue gote lacrime a bagnare i loro biondi capelli.
Ma la pena cede il posto al furore e mi divora le viscere la rabbia. In pace conducevo la mia esistenza, ma la serena armonia del Regno era detestata dai papi, che mai perdonarono a noi di aver liberato gli uomini dai lacci delle superstizioni e di aver dato loro un novello pensiero.
Implorò allora il papa Urbano perché Luigi di Francia vendicasse i torti subiti per colpa della nostra razza di vipere e Clemente inviò messaggeri a stringere accordi con questo odioso Carlo. Si armarono gli eserciti con le decime imposte dai papi francesi, e l'angioino tracotante, forte di aiuti e di alleanze, scese nel mio Regno a spodestarmi. Ed è giunta la folle guerra, nemica dei canti, nemica della ragione, invisa alla mente. Ma oggi o si vince, e si batterà questa nefasta alleanza, o si muore, e tutto sarà finito. Andiamo!".
"Attendi, mio signore", gli gridai mentre spronava il destriero giù per la erta china, "ripieghiamo, riordiniamo le nostre forze e poi torneremo a vincere questo francese usurpatore". Ma non mi ascoltò ed allora, ad onta delle lance e delle spade che mi si paravano davanti, lo seguii e mi gettai anch'io giù per la collina verso la piana di Benevento.

23 agosto 1268
Luna, che risplendi chiara nella notte, guarda dal tuo lontano cielo questa terra che la quiete ha pervaso dopo un giorno funesto e rovinoso. Dorme la rondine nel suo morbido nido, cantano le raganelle ed i grilli nelle vallate, ed i fiori nei prati e lungo le rogge attendono impazienti il sorgere del caldo sole.
Come potrò io invece assistere ad una nuova alba? Come potrò sopportare ancora la vista dell'astro trionfante che vedrà me fuggire come un codardo dopo la fatale sconfitta? Resta qui dunque, luna pietosa, e con la tua luce spettrale consola e lenisci le mie pene, sii immota spettatrice del mio vagare.
Rivolgi lo sguardo al castello in cui ansiosa veglia mia madre. Ella attende che un messaggero le rechi notizie sulla mia sorte e nel cuore si dispera. Mi supplicava di non partire, di abbandonare quei folli propositi, che solo una volta accade, mi disse, che un giovane principe possa affrontare vittorioso la sorte che gli si oppone; solo una volta la cieca Fortuna, indifferente ai propri capricci, dirige il destino di un inerme cavaliere verso vittorie ed onori.
Premonitore era il suo lamento: vicina era la vittoria e già le armate dì Carlo paventavano la sconfitta; ma l'imprudenza dei soldati, la baldanza dei cavalieri, l'euforia degli arcieri saraceni tolsero a noi il trionfo. E le rive del Salto videro infine la rotta del mio esercito.
Parlale, o luna, allevia la sua pena e chiuda le sue palpebre il sonno ristoratore. Mi vedrà ancora a caccia con i veloci falchi; tesserà per me nel sogno preziosi mantelli e la dolce brezza notturna asciugherà le sue lacrime".
"Mio signore, affrettiamoci", lo esortai urlando, "ché i nemici ci inseguono e non avranno pietà se ci raggiungeranno, e qui finirà la nostra vita".
"Affrettiamoci, Giovanni", echeggiò la sua voce, "ma già vedo fosche ombre sul mio capo e vana è questa cavalcata per gli angusti sentieri che ci separano e ci disperdono".
"Coraggio, mio signore, ritrova il tuo ardire. Avremo presto rifugio tra mura amiche e troveremo nel castello alleati fedeli. Lì potremo ritemprare le nostre forze, e di nuovo caleremo numerosi sull'odiato nemico che non avrà scampo. Ma... che accade? Non odo più il veloce galoppo del tuo cavallo! Non vedo più, all'incerta luce della luna, lo scintillio della tua corazza! Non scorgo più il biondo colore dei tuoi capelli! Dove sei, mio signore? Oh funesta battaglia! Oh sorte avversa! Oh destino infausto che mi priva di vivere con il mio signore o di morire con lui!".

29 ottobre 1268
Rividi Corradino sulla piazza ove era stato portato a morire. Pallido il viso, fiera ed alta la fronte, andava incontro alla sorte, altero e bello. Piangevano le donne, ché loro figlio poteva essere quel ragazzo dalla mente piena di sogni, condotto a por fine ai suoi verdi anni; ammutolivano gli uomini, ricordando i sogni della loro infanzia per i quali non avevano osato, e con rispetto ammiravano quel principe. Fremevo io, che avevo seguito Corradino, sperando invano di farlo fuggire dalla impenetrabile prigione. E con un gemito disperato vidi la bionda testa rotolare sulla terra a Napoli.

La rivelazione
Come navicella nel grande mare procelloso lotta contro i flutti imperiosi ed a ogni ondata pare che debba non più risollevare la stia devastata prua dagli spunieggianti marosi e rovinata dall'ultimo squasso rabbioso debba scomparire per sempre negli oscuri abissi, tale era il mio animo dopo quelle sciagure. Fuggii per terre fino ti poco prima ospitali, non sapendo più ove nascondermi, ove parare quella furia devastatrice, (la chi ottenere protezione. Non da Enzo, il coraggioso figlio di Federico, che languiva nella dorata prigione a Bologna; non dai figli di Manfredi, imprigionati nel castello di Napoli ove, accecati ed evirati, morivano. Tutti gli altri, dispersi, erano come scomparsi nel nulla.
Andai allora in Germania da Federico di Turingia, nipote dell'Imperatore. Lo incontrai nel suo castello e gli parlai, ma mi accorgevo mentre lo esortavo ad ardite imprese che vano era il mio sforzo, ed un tormentato diniego fu la risposta alle mie accorate parole. "Dovrei anch'io venire in Italia a morire?", esclamò, "non è già stato sufficiente il sacrificio di due arditi guerrieri sconfitti nonostante il loro valore? Non hai visto scorrere il sangue di Manfredi? Non hai provato orrore quando Corradino salì sul patibolo e non sei rabbrividito alla vista della sua fine?".
Mentre lo ascoltavo un lampo improvviso balenò nella mia mente e le parole dell'Imperatore mi furono chiare, che erano state scritte per esser capite al momento opportuno. Coglievo finalmente il recondito significato del suo manoscritto, era comprensibile anche a me la visione di Federico nella sala dagli affreschi meravigliosi a Gaeta. Sapevo ora chi erano i due biondi cavalieri sconfitti uno dopo l'altro dallo stesso esercito invasore. Ricordai la disperata carica di Manfredi giù per la collina e rabbrividii nuovamente alla decapitazione di Corradino. Sapevo anche come salvare il salvabile: la bionda Regina e il suddito fedele avrebbero nuovamente riunito le schiere disperse dopo la tremenda distruzione e vendicato la stirpe Sveva; avrebbero avuto la forza e la determinazione che prima non possedevano, e a loro si sarebbero rivolte le rinate speranze ghibelline. Ora sapevo che il suddito ero io.

6 - Il suddito

Come chiara stella guida e conduce la nave,
il bene guida colui che è valente, sincero e fido.

Oberto di Biandrate

Andai ove comandava l'Imperatore. Ad Occidente, ove il sole al tramonto rende il cielo luminoso anche nei foschi pomeriggi d'inverno. Ad Occidente: da lì sarebbe giunta la salvezza.
Andai a Barcellona, da Costanza, figlia di Manfredi e sposa di Pietro d'Aragona. Mi inchinai commosso innanzi alla regina, e nei giorni di malinconia che seguirono le narrai i ricordi degli anni vissuti con gli Svevi e le mostrai il manoscritto dell'Imperatore. Leggeva Costanza quelle pagine con stupore; impallidiva sulle parole del suo grande avo, mi chiedeva di spiegarle gli impenetrabili passi. Mi confortava per non averne io mai fatto cenno né a Manfredi, né a Corradino, così come aveva voluto l'Imperatore, che la loro sorte era già segnata ed era scritto che entrambi andassero ignari incontro al loro destino. "Di quei cavalieri si tramanderà per lungo tempo", sospirò la Regina, "per il loro coraggio e per la loro arditezza. E per il morir giovani. Nessuno avrebbe potuto mutare l'ordine delle cose".
Ma siccome si può guidare il proprio agire verso il bene, come asseriva Federico, quando divenni cancelliere del Regno iniziai ad operare perché gli angioini fossero banditi dalla Sicilia e Costanza potesse regnare su quella terra.
I due schieramenti, ché ormai fu lotta senza quartiere tra Aragona ed Angiò, erano diseguali per forze e potenza. Temibile quello di Carlo, che con l'aiuto dei papi aveva coalizzato molti intorno a sé; debole il nostro, poiché l'Aragona non possedeva eserciti possenti e flotte sufficienti. Perciò mi adoperai per creare alleanze e procurare aiuti e per persuadere il sovrano che quell'azione andava intrapresa edera possibile portarla a felice compimento.
Mi assicurai l'appoggio dei nobili in Sicilia, che tante volte avevo visto cambiar bandiera e Federico, e Manfredi e Corradino si trovarono spesso circondati da sudditi infedeli. Tali sono infatti gli uomini, che presto dimenticano l'amicizia del loro signore e i benefici da lui ricevuti. Ma questa volta senza sforzo ottenni il sostegno dei baroni siciliani, inaspriti com'erano dalla prepotenza di Carlo, che imponeva tasse e balzelli sempre più pesanti: attendevano perciò solo un segnale per schierarsi nuovamente ed accorrere uniti.
Ma non era sufficiente, ché senza l'argento e l'oro non si approntano balestre e lance; non si ottengono protezioni dietro possenti mura; non si muovono eserciti, e non si vincono le guerre.
Leggendarie erano le ricchezze dell'imperatore di Bisanzio. Si diceva di lui che ad ogni festa solenne dispensasse borse d'oro a quanti ne avevano bisogno e questo avveniva a Pasqua, alla Pentecoste, nel giorno della trasfigurazione del Nostro Signore, a Natale e in molte altre occasioni.
Portare dalla nostra parte l'imperatore del lontano Oriente fu impresa difficile e rischiosa; e lo dico senza falsa modestia, che Iddio sa quanto invece avrei preferito invecchiare in placida tranquillità nella corte Sveva, continuando i miei studi, piuttosto che girovagare per mezzo mondo a convincere, tessere alleanze e combattere, io che tutto sommato di coraggio non ne ho mai avuto molto, e l'ho dovuto comprare, come celiava quel mio zio Tommaso, priore della chiesa di San Matteo a Salerno.
E poi avevo allora settanta anni e mi meravigliavo io stesso di poter viaggiare ancora in lungo ed in largo per il Mediterraneo e di essere ovunque la situazione lo richiedesse. Ma occorreva approfittare del clima di ribellione che serpeggiava in Sicilia ed agire con risolutezza e rapidità.
Più volte incontrai l'imperatore, che mi fu grato perché quella lotta distoglieva Carlo d'Angiò dalla sua progettata invasione dell'Impero. Mi salutò con calore il papa Niccolò III, stanco delle sprezzanti maniere del rancoroso Carlo, e meno compiacente verso di lui dei papi francesi che lo avevano preceduto; mi accolsero esultanti i nobili siciliani; mi abbracciarono i ghibellini di Toscana ed i seguaci dì Federico e di Manfredi, di Puglia e Lombardia, di Calabria ed Abruzzo, e tutti giurarono di continuare la lotta o di morire. Gioirono i sovrani d'Aragona per la riuscita del mio operato.
Il momento della rivolta giunse infine. Ero a Palermo arrivato segretamente da Barcellona. Nascosto nel palazzo dei Lentini avevo trascorso la Pasqua. Il giorno seguente, il lunedì 31 marzo 1282, sembrò una sollevazione popolare quella che infiammò fulmineamente la città, sembrò la spontanea risposta del popolo alle continue vessazioni di quegli spietati conquistatori. Ma in quel giorno di festa e di animazione, propizio a favorire moti di folla, erano stati disseminati agitatori per la città, per far ribollire il sangue dei focosi palermitani, incapaci di riscattarsi da soli, senza una guida, senza un aiuto. Coraggiose donne sfidavano i soldati angioini e spavaldi giovani denunciavano le angherie degli invasori. Così sicuramente sarebbe scoccata la scintilla che avrebbe incendiato l'isola, ed i re d'Aragona sarebbero potuti intervenire perché chiamati dagli oppressi sudditi di Manfredi. Il papa, nuovamente francese, ché il buon Niccolò era morto e gli era succeduto Martino, non avrebbe potuto lanciare i suoi anatemi contro i miei sovrani.
La sollevazione ebbe luogo al tramonto, presso la chiesa del Santo Spirito, ove la presenza di donne e bambini e la rapidità con cui il clima, fino a poco prima festoso, si mutò improvvisamente in dramma, fece apparire casuale quella sommossa, nata dal gesto insolente di un soldato angioino verso una giovane donna. E sembrò la giusta risposta del popolo di Palermo, il quale assaltò le fortezze francesi e le bruciò e nessuno, fuorché il papa, si sdegnò quando la rivolta si estese a Messina e a Trapani, e travolse le guarnigioni dei provenzali a Cefalù come ad Augusta.
E vidi finalmente vinte quelle tracotanti armate francesi, e questa volta non ci fu la beffa finale, come invece era accaduto a Benevento e a Tagliacozzo, dove i vinti diventavano vincitori. Fuggivano, fuggivano ovunque quegli usurpatori e presto non ne rimase nemmeno uno sull'isola ed avrei dato la mia vita per poter assistere all'ira dell'odiato Carlo quando lo avrebbero raggiunto le infauste notizie portate dai suoi soldati, e mi immaginavo le frustate che avrebbe inflitto ai malcapitati messaggeri.
Dopo alcuni mesi giunse il re d'Aragona, che approdò a Trapani e trionfalmente fu condotto a Palermo. Alle mura della città egli scese dal cavallo e si inginocchiò davanti al grande vessillo che recava l'aquila di Federico, finalmente riapparsa sulle torri e sui palazzi di quella amata città.
E fu degno epilogo l'arrivo di Costanza, la bionda e cortese Regina, attesa con tanta impazienza che la gente non si allontanava dalla spiaggia per timore di non poter assistere a quell'evento così vagheggiato. Circondata dai barchini fin dall'orizzonte lontano e giunta alla costa, scese commossa dalla galea, abbagliata dalla miriade di bianchi fazzoletti che le dame sventolavano freneticamente e dal suono delle trombe che fragorosamente si udivano echeggiare.
Seguirono giorni di gloria ed un novello Federico tornò a regnare sul trono di Sicilia, Federico, il figlio di Costanza e di Pietro d'Aragona, così come aveva predetto l'Imperatore. Che altro potevano voler esprimere le sue ultime parole, se non la certezza che da Manfredi, da quel fanciullo che aveva i capelli biondi, il viso gaio, lo sguardo limpido, sarebbe nata la nuova stirpe degli Svevi? Questo era il suo desiderio, che i suoi discendenti potessero continuare a regnare e ad essere chiamati gloria ed onore delle genti.
Sono giunto alla fine. I ricordi dispersi di questa mia lunga vita si fondono ora in serena armonia, e tutti gli avvenimenti che mi hanno raccontato e che ho letto, e tutti quelli che ho visto e vissuto si presentano alla mia mente come frammenti di un grande affresco, tanto fantastico e prodigioso che ho voluto descriverlo. Perché, altrimenti, di Federico si sarebbero tramandate soltanto le cronache degli angioini e dei frati, poiché sono andati persi i documenti della cancelleria, ché Carlo ha pensato a farli sparire e non so se mai riappariranno. Ho voluto scriverla perché questa storia, così straordinaria, così irripetibile, mi sembra quasi una favola, e se la dovessi raccontare di nuovo ora inizierei così:


C'era una volta un grande Imperatore...

Scritto in Roma nell'anno del Signore 1298.

I discendenti di Federico II di Svevia e di Bianca Lancia regnarono dal XIII secolo continuativamente in Sicilia ed Aragona; dal XIV secolo in Castiglia-León, Sardegna, Portogallo, Napoli e Provenza, Monferrato, Baviera, Palatinato; dal XV secolo in Navarra, Brandeburgo, Borgogna, Lorena, Wurttemberg, Inghilterra, Bretagna, Austria e Regno Romano- Germanico, Modena, Scozia, Ungheria e Boemia, Francia, Savoia, Parma e Toscana. Per certi periodi essi sedettero anche sui troni di Danimarca, Norvegia, Svezia, Polonia e Lituania.

(5 - Fine)


NOTA BIBLIOGRAFICHA
A. WOLF, La discendenza di Bianca Lancia e Federico II, Asti 1990, Atti del Convegno su Bianca Lancia D'Agliano.


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