"In
particolare direi così: che non ci sono opere veramente formative,
ma piuttosto uomini, scrittori che uno si prende come modelli di ispirazione
spirituale.
Cambiano anche nello spirito le stagioni [
] ma io sento e cerco
qualche cosa di più schietto: il valore umano".
R. Serra
"[ ...
] d'un popol di formiche i dolci alberghi".
G. Leopardi
Leggendo l'opera
di Vittore Fiore, in particolare il poemetto Ti scrivo da Bruxelles
o da Strasburgo (1), mi tornava alla memoria un passo di Leonida Andreiev
che mi sembra particolarmente adatto ad offrire una iniziale chiave
di lettura circa il carattere di Fiore e la sua fedeltà a un
ideale di poesia mai rinnegato. Il drammaturgo russo così scriveva:
"Qui io sono superfluo, inutile. Tutti hanno un posto determinato,
io solo non ne ho [ ... ]. Ho udito una volta l'aneddoto di una sentinella:
l'imperatrice Caterina l'aveva fatta mettere di piantone ad un fiore
di primavera, una viola mammola, perché le facesse da guardia,
e s'era poi dimenticata di far ritirare il soldato. Ebbene, la violetta
era morta da un pezzo e la sentinella era ancora al suo posto, fucile
in ispalla, a far da guardia al luogo deserto e non osava allontanarsi.
Quella sentinella, vedi, sono io" (Il vecchio studente).
La lettura critica dei testi di Fiore solleva, infatti, fin dal primo
approccio, una questione prioritaria o, se vogliamo, di ordine generale.
La questione è quella posta, fra Otto e Novecento, da Gide:
se la funzione della poesia consiste nel "nutrire" o nell'"inebriare",
essendo essa collegata a un tempo "metaforico" eppure reale,
poiché il poeta, scrive Gide, "entra in scena dopo il
pranzo". Assumendo l'aut-aut di cui sopra, Carlo Bo non aveva
dubbi nel chiamare in causa la responsabilità dello scrittore,
sintagma eponimo del capitolo che apre il suo volume La religione
di Serra. Egli affermava che il poeta "deve essere nutrito"
e, più che "inebriare", deve "nutrire: responsabilità
e impegno devono presupporre un processo interiore", posto in
relazione "con i frutti stessi del [suo] lavoro" (2).
Aggiungeva, inoltre, (lui che era stato il padre del neosimbolismo
italiano nella sua facies più elitaria, mistica, agostiniana
e che aveva invocato il "golfo d'attesa metafisica" come
il luogo deputato a sublimare l'"assenza") che "l'arte
[ ... ] deve rispondere inequivocabilmente alla ricerca della verità,
deve sollecitare [ ... ] senza possibilità di malintesi"
(3). Bo riconosceva, dunque, al poeta, circa trent'anni dopo Letteratura
come vita, non una responsabilità sociale e politica tout-court,
ma una "responsabilità morale", coerente col portato
dell'opera poetica.
Rivendicava alla poesia una funzione di paideia in servizio permanente
effettivo, avvertendo che il "rigore ideologico o politico"
ha "lo stesso peso del puro piacere egoistico" (4), ove
non sorretto da una profonda coscienza civile, quella chiamata da
Renato Serra "valore umano".
La religione delle lettere si precisa, allora, come religione dell'uomo,
nel cui perimetro la scelta formale poco importa: simbolismo o realismo
sono due facce della stessa medaglia. Se si tien conto, poi, che "da
qualche tempo la letteratura cerca di nascondere ogni stimolo [alla]
responsabilità sotto la rete delle compiacenze formali"
(5), si può ben comprendere con quanta ragione la poesia di
Fiore oggi si separi dal convenzionale per occupare distintissimo
e solitario seggio, fedele a se stessa o, meglio, alla consegna ricevuta
dai Padri all'alba della liberazione e della storia repubblicana d'Italia.
Ho voluto iniziare questa mia nota con la riflessione di Bo e, indirettamente,
di Serra, per sgombrare subito il terreno da una ipotesi di lettura
"estetica" dei testi, ché non è consentito
dai tempi distinguere fra "poesia e non poesia", ma solo
"comprendere" il testo poetico, fermo restando il presupposto
che alla base di esso ci siano il "valore umano", la "responsabilità
dello scrittore", ossia l'uomo, la sua società, la sua
storia.
Come tutti sanno, simbolismo naturalismo orfismo neorealismo sono
soltanto categorie che storicizzano il fatto poetico, non lo qualificano
in positivo o in negativo, ne aiutano, invece, la comprensione. Al
di là di tutto, resta e si esalta la "responsabilità"
del poeta, ossia la sua funzione di interprete e voce del suo tempo,
di "accompagnatore e persuasore", come scrive Bo, insomma
uomo vivo fra i vivi, capace di "tenere vivo il discorso col
mondo che gli sta intorno" (Sainte-Beuve). A questa funzione
assolve compiutamente Fiore, poeta della responsabilità e della
parenesi, aedo di una Resistenza la quale non si è estinta
con la conquista della libertà nella lotta di liberazione,
ma continua (in quanto condizione permanente dell'anima) contro quel
"male che è dentro di noi" (6), racchiuso, come egli
stesso scrive, "in una storia di dominazioni, di feudalesimo
baronale, di insufficienze politiche culturali", di assenze e
distrazioni, quelle che il poeta denuncia nel convocare la responsabilità
di alcuni "intellettuali legati da una nobile concezione illuministica"
della cultura che "nel Mezzogiorno è stata sempre sconfitta"
(7).
Riconoscendosi nelle posizioni di Vittorini, egli rifiuta sia le astrazioni
ideologiche, sia il mito di una prassi inalveata nella logica del
Partito, per coinvolgere ed inchiodare ciascuno (donde il frequente
ricorso alla nominazione) alle sue responsabilità.
Da qui il tono profetico, illocutorio, apodittico, conativo dei suoi
versi destinati al compagno, all'amico, al loro esserci come presenza
nel concreto dell'ora quotidiana. In Ti scrivo da Bruxelles o da Strasburgo,
apostrofata è, perfino, la coscienza del poeta. Tramite: l'escamotage
dell'eteronimo, già assunto da altri nella letteratura europea,
per distanziare l'io da se stesso, non per esorcizzarlo, ma per raddoppiarlo
in un gioco funzionale, nel caso di Fiore, ad una chiamata di correità,
se mai colpa c'è stata, certamente organico all'assunzione
di responsabilità di fronte alla storia collettiva.
Bruxelles o Strasburgo diventano, così, l'alibi, l'altrove,
il luogo dell'esilio, cronotopo di prossimità e distanza, da
cui si guarda a quel Sud (la Puglia) che nei versi di Vittore è
archetipo di ogni Sud, di ogni terra irredenta e sconfitta. Il luogo
delle memorie, delle brigate amicali (Valli, Panareo, Bodini, De Rosa,
Bonea, Spizzico, Massa, Pagano sono solo alcuni dei nomi che il poemetto
esibisce) si universalizza incrociando l'Europa e i luoghi della centralità
decisionale dove il verbo rivoluzionario ha perduto la sua carica
di autenticità per farsi puro stereotipo. Ed ecco il deittico
incipit del poemetto firmato da un Anonimo Pugliese: Salvatore Cristiano,
non molto dissimile dal Cristiano Friulano di Pasolini:
Ti scrivo da
Bruxelles o da Strasburgo.
Interi Stati parlano europeo
[ ... ]. L'esilio è più dolce se lascio
a te i miei versi; i piccoli paesi,
dove passeggia Rholphs,
seguiteranno a dire Kalimèra
Kalispèra. Qui i cieli sono vuoti.
Io non rispondo se non all'idea,
con spietato amore servii la Classe.
(vv. 1-9)
Fin dall'esordio
si definisce una condizione di esilio e, apparentemente, di rinuncia.
Con coerenza figurale, attraverso il processo di sdoppiamento di sé,
il poeta inverte i ruoli canonici dell'emittente e del destinatario.
Salvatore Cristiano è eteronimo, assunto a connotare una specifica
situazione psicologica, esistenziale, storica. E' l'archetipo dell'uomo
comune, dell'emigrato al bivio fra fuga e ritorno, i due poli entro
i quali mi sembra che si consumi l'intera esperienza biografica e
poetica di Fiore. Egli è Salvatore in quanto flamine nella
lotta di emancipazione dei ceti subalterni ed è, insieme, Cristiano:
nell'accezione gergale, uomo comune e anonimo, partecipe della sofferenza
collettiva, vittima del male storico sperimentato quotidianamente
dalla classe.
A fronte della sua fede ("Io non rispondo se non all'idea"),
si staglia il tradimento perpetrato da altri; a fronte del suo slancio
profetico si situa e contrasta la sedentarietà burocratica
dell'intellettuale di partito "apprendista stregone, piccolo
satrapo, sensale" (8). Al ruolo rivoluzionario e soteriologico
del suo verbo poetico corrisponde l'evasione di una cultura anodina
e, dal punto di vista della classe, asettica. Salvatore Cristiano
rassegna le dimissioni al suo doppio (Vittore Fiore) ancora partecipe
di una realtà che l'Anonimo pugliese non può condividere.
Fissione dell'anima del poeta, combattuta fra ribellismo anarchico,
(possibile solo nella sfera dell'arte), sulle orme dell'Ideale, e
prigionia metafisica nello spazio reale di una provincia "addormentata
/ futurista, surrealista, ermetica, afascista", dove "Cesare
Massa [il fondatore del periodico Libera Voce, 1943-'47] è
già dimenticato". Sdoppiamento mimetico e metaforico,
ma speculare ad una concreta e sofferta condizione dell'animo, il
quale si tormenta evocando il magistero dei Padri:
Ti saluto.
Lascio a te i compagni,
i nostri morti vivi. Il vuoto si riempie:
don Carlo (9) fra contadini [ ... ]
sempre vivi, anzi più forti,
Tommaso nostro padre e Rocco (10)
morente, i due Vittorio (11) della tragica
provincia addormentata,
futurista, surrealista, ermetica, afascista (12) [ ... ]
già dimenticata. Ricomincia se vuoi.
(vv. 146-154)
Accanto alla parentesi
di una poesia civile che evangelizza il verbo rivoluzionario, vibra
una forte corda autobiografica, qui come in altri versi di Fiore.
A scrivere codesta sua autobiografia intellettuale è una parola
poetica antimelica, antilirica, antiretorica, antinovecentesca. E
linguaggio è epico, discorsivo, proprio di una Musa che lascia
il Parnaso e scende fra gli uomini. Linguaggio ossificato, ,,metallurgico".
Quello delle cose e della storia. Anche quando indulge a rivisitazioni
memoriali sempre inserite e contestualizzate in un discorso eziologico
della condizione meridionale alla fine di un cielo storico. Non va
dimenticato, infatti, l'anno di stesura: il 1979, anno successivo
alla fine del "compromesso" cattolico-marxista (Moro è
ucciso nel 1978) e foriero dell'avvento del craxismo al potere. Donde
la nostalgia dei tempi eroici, quelli dell'immediato dopoguerra:
Ecco, la rivista
(13) si faceva così:
Corni incontra in un bar, a Lecce,
De Rosa e Bodini.
Non siamo morti, gli fanno, e lui
volta loro le spalle e scompare.
Fu la cospirazione provinciale [ ... ].
La verità sta anche dall'altra parte,
nelle unghie del Turco,
nella scimitarra musulmana,
nella cronaca del Laggetto [ ... ]
Il nell'editto solenne, negli stemmi.
"Li martiri d'Otràntu" (14), preziose
fonti mai fino ad oggi
individuate come tali, di Moro Donato (15).
(vv. 103-119)
Come si potrà
agevolmente osservare, questo segmento del poemetto, qui scelto ad
esemplare la tecnica compositiva di Fiore, pullula di indici extratestuali,
i quali rimandano a precisi riscontri storico-culturali: la poesia
di Corni, fedele ai timbri mistico-simbolisti in pieno neorealismo;
l'antiermetismo del "convertito" Bodini e di De Rosa che
fondavano nel '54 L'esperienza poetica; le problematiche letterarie
che attraversavano la cultura salentina negli anni Cinquanta (qui
indicate da un abbozzo di dialogo interrotto: "Non siamo morti,
gli fanno, e lui gli volta loro le spalle e scompare"); la rivisitazione,
in chiave turca, dell'eccidio idruntino (1480) compiuta da Maria Corti
in un suo saggio apparso sull'Albero nel 1971 e recentemente ripubblicato
col titolo Otranto allo specchio (16); la citazione della cinquecentesca
Cronica di Michele Laggetto sul medesimo eccidio, fino agli studi
di Donato Moro (in ordine allo stesso argomento) qui anagraficamente
e impersonalmente convocato col cognome preposto al nome per esaltare
la funzione civile (e documentale) della sua ricerca della verità
fondata sulle certezze delle fonti.
Pertutto, è un lampeggiare di memorie collettive e personali
analogicamente accostate. Intermittenti eppure coese dalla continuità
diacronica della cultura salentina. Espressive dell'urgenza di trovare
nell'intimo di quelle pagine i segni di un legame profondo con le
radici della propria terra. Donde quella "religione delle lettere"
di cui parlavo prima, la quale diventa, come in Serra, "norma
etica" che giustifica ed esalta le ragioni della poesia.
Fiore non concepisce la sua esistenza storica al di fuori dello spazio
concreto e vitale della terra di appartenenza che è la Puglia,
il Mezzogiorno, l'Italia, l'Europa. Larismo (il padre Tommaso, il
fratello Graziano) e cosmopolitismo si saldano anch'essi in un'unica
sfera ("Tra Bari e Coblenza non c'è differenza").
Diametri: la memoria, l'impegno. Mi sembra che possa valere anche
per Fiore quanto Renato Serra scriveva riferendosi alla sua Romagna:
"Se non lego le mie [riflessioni) a qualche cosa nel cielo o
nella terra vera, mi par che mi sfuggano nel vuoto". Atteggiamento
esistenziale, quello del Nostro, perfettamente in linea con le istanze
della cultura europea più progressista. Rifiuto dell'idealismo,
non dell'Idea né della missione dell'individuo nell'hic et
nunc della realtà sociale, politica, economica.
Anche la tecnica compositiva di Fiore mi pare sintonizzata con le
più avanzate conquiste del Novecento. Osserveremo, ad esempio,
il ricorso al flasch back e al flusso di coscienza che, in un altro
luogo del poemetto, resuscita tutto un passato - fra asistematicità
e discronie - di lotte, di attese, di delusioni, di speranze nelle
terre... di Carlo V che vive e dura fra noi:
Sono diverse
le nostre ragioni;
le storiche delusioni, il tramonto
dell'età giolittiana nel Salento,
il socialismo. Chiedi a Fabio Grassi.
Ha origini profonde il male (17).
Ho servito la Repubblica,
la sinistra matura, tutto accade.
L'imperatore non è arrivato
e l'arco lo stesso gli hanno innalzato (18).
(vv. 74-82)
Per meglio comprendere
certe analogiche associazioni di nomi e di eventi, esibite nel testo
con tecnica parasurrealista, le riporto sciolte, in accostamento asindetico
lineare: età giolittiana - Salento - socialismo -Fabio Grassi
- Repubblica - sinistra matura - imperatore - arco di trionfo. Non
c'è nulla di più utile, per l'esegesi di questo passaggio,
che rispolverare una ormai lontana prosa di Fiore, premessa, a mo'
di prologo, a Il male è dentro di noi, che, lo ricordiamo,
è del 1974. Vi si potrà rilevare con chiarezza l'avantesto
dei versi testé citati con la loro apparentemente sommaria
e, di fatto, analogica associazione di situazioni storiche, di luoghi,
di formule, di nomi. Si potrà verificare che essi rappresentano
la superficie poetica di un pensiero profondo e anteriore, lucidamente
esposto, nella prosa in parola, con procedimento analitico, anamnestico,
eziologico. L'analisi sociale di Fiore si è, dunque, risolta
nel linguaggio acrobatico, analogico, paratattico, impressionistico
proprio di una tecnica compositiva assoggettata, nei versi, al flusso
di coscienza o, se si vuole, alle pulsioni del cuore. Quali che siano
esse, rimandano tutte al pensiero e all'azione dei Maestri di Fiore
(il padre Tommaso, Cesare Teofilato, Antonio Lucarelli, lo storico
socialista studioso del Brigantaggio e del Risorgimento meridionale,
Antonio De Viti De Marco, Gaetano Salvemini, Giuseppe Di Vittorio,
Carlo Cafiero, Ernesto De Martino, Pantaleo Ingusci, Carlo Mauro e
poi Dorso, Gramsci, Rosselli, Gobetti), tutti collocati, all'interno
di quella prosa, "in loco aperto, luminoso et alto", in
una sorta di dantesco castello di Spiriti magni. Sono Prometei e Sisifi,
a fronte dei quali Fiore intravede sbiadite larve di burocrati di
partito, "cinici tetrarchi" che balbettano il sinistrese,
luoghi comuni, slogans multimediali, donde l'uso strumentale delle
frasi nominali presenti nel testo, al quale ritorniamo prima di esaminare
la premessa al Male:
Nel gabinetto
Caligaris di via del Corso,
nella centralità democratica
delle Botteghe Oscure, vecchie lotte!
Il gruppo di lavoro ha affrontato il piano,
il manifesto, lo slogan collettivo,
il simbolo è lombardo o mitteleuropeo.
Compagni, sono caduti
i fascisti e gli antifascisti, l'ordine aperto.
L'arma più sofisticata, ripetere
per la salvezza del paese, sempre
le stesse parole, significato
zero [ ... ]. Sull'orlo dell'abisso
"alziamo il livello del confronto",
o roba del genere. Va' a spiegare
a Craxi o a Berlinguer che si può
fare politica a Lecce soltanto
passando e ripassando sotto l'arco
di Carlo quinto.
(vv. 22-43)
Ed ecco l'avantesto
nella riflessione che Fiore affida alla citata prosa (19) del '74:
Giorno dopo giorno
abbiamo imparato, studiando l'anarchismo e riscontrandone i residui
esiti nei movimenti contadini del dopoguerra, a non sognare utopistiche
adesioni dei "cafoni" a strategie moderne meridionalistiche,
prima di esserci legati [ ... ] con vigilanza critica, ma senza opportunismi
alla logica del mondo subalterno [ ... ]. Bisogna ricominciare da
quelle analisi e poi capire perché il Salento è ancora
un'area emarginata da quello sviluppo. Ma basta leggere Il tramonto
dell'età Giolittiana [di] Fabio Grassi per rendersi conto della
debolezza complessiva dei socialisti di fronte al giolittismo prima
e al fascismo dopo.
Poi Fiore aggiunge:
Da allora ho visto
ancora più chiaro dentro di me. Ho fatto un secondo esame di
coscienza. Il primo lo feci con Scotellaro e Bodini negli anni '50
[ ... ]. Credo che lo stesso discorso si possa fare per la poesia
meridionale [quella, per così dire, nuova rispetto alla precedente
poesia del Quasimodo, del Gatto, del Sinisgalli, del De Libero]. Per
capire [la poesia meridionale] bisogna avere un'idea chiara della
reale situazione spirituale, politica e sociale del Mezzogiorno in
questo dopoguerra [ ... ]. Scotellaro ed io [ ... ] come poeti abbiamo
cercato di rappresentare uno stato d'animo reale che non corrispondeva
alle schematizzazioni politiche, alle vuote parole d'ordine.
E Fiore corrispondeva
alle "vuote parole d'ordine" con una "operazione culturale
di scavo" che era anche epopea del paesaggio, dei "piccoli
paesi sperduti" (Cocumola di Bodini) e, insieme, dell'Europa.
Questa direttrice (Salento ® Europa) ritorna in Ti scrivo da Bruxelles
dove, accanto a "interi Stati che parlano europeo", vivono
nell'anima del poeta i "piccoli paesi dove passeggia Rholfs",
da Calimera, a Cursi, a Parabita "dei giovani ardenti".
E nella consapevolezza che la poesia deve essere autocritica, eziologica,
autocoscienza, si pone la rivisitazione della storia e della cultura
del Salento che egli compie con lucida analisi. Ed ecco alcuni referenti
extratestuali presenti nel poemetto (Carlo V, l'arco di trionfo, ecc.)
collegati a essa analisi, ma anche a un enunciato di poetica:
Siamo nel Salento,
in una terra depressa, dove si erigono, come a Lecce, archi di trionfo
a Carlo V che dovrebbero indurre ad una retorica fastosità,
ma che, invece, accrescono il senso di una solitudine (sono i simboli
mitologici e mistificatori di una falsa grandezza) [ ... ]. Alla poetica
simbolista dell'oggetto [ ... ] ho cercato di sostituire quella dell'oggetto
concreto. (20)
In una sua lettera
(21) agli studenti di Pordenone, Fiore meglio precisa il senso di
quest'ultima affermazione:
Il male è
Carlo V, ma un po' di Carlo V sta dentro di noi, nelle cattedrali
barocche, nell'abitudine a servire.
Ma il Salento
è archetipo di ogni Sud, è villaggio della memoria che
si metabolizza nella memoria del villaggio. A meglio chiarire questo
assunto soccorre una riflessione di Ernesto De Martino ripresa, poi,
da Fiore (22):
Coloro che non
hanno radici si avviano alla morte della passione e dell'umano: per
non essere provinciali occorre possedere un villaggio vivente nella
memoria.
Ti scrivo da Bruxelles
o da Strasburgo rappresenta l'epos di questo villaggio, sicché
l'impegno civile della poesia di Vittore si configura come atto religioso,
voglio dire legato a un senso che racchiude in sé le ragioni
della vita. Legato alle memorie, legato a un modo di essere uomini
fra gli uomini, fratello fra i fratelli, libero fra i liberi, oppresso
fra gli oppressi. "Religione meno alta, meno nobile, ma senza
dubbio più legata alle nostre radici e alla nostra storia"
(23): così Carlo Bo a proposito della religione delle lettere
di Serra che, come Fiore, "sentiva nel passato e in grembo alla
terra le sue radici e il suo destino in mezzo agli uomini" (24).
Da qui il profetismo, il vatismo tirtaico del Nostro. Da qui le costanti
timbriche del suo stile, il frequente ricorso all'apostrofe, alla
frase nominale, alla struttura enumerativa dei suoi versi. Da qui
l'iconostasi dei suoi "Maggiori" nonché il canto
degli uomini vivi (anche quando sono morti) non dei fantasmi; da qui
la concezione di una poesia eteronoma che veicoli le ragioni dell'impegno.
Ma la vocazione resistenziale di Fiore come militanza permanente al
servizio della Causa (la libertà, la giustizia, la dignità
della persona umana) o, se si vuole, del suo cristianesimo laico,
ha saputo sempre modellarsi sul tempo e sulla realtà sociale
per trovare un nesso fra passato, presente, futuro. Al poeta della
"grande speranza", emersa dalla "malinconia del Sud"
(direbbe Luciano De Rosa), assai vicino ai timbri bodiniani al displuvio
fra ermetismo e neorealismo, al poeta di quella "speranza"
che attraversò gli anni della sua giovinezza (dal '40 al '60)
è subentrato il poeta della crisi degli ideali che attraversa
il ventennio fra il '60 e l'80. Ecco, infine, il poeta dell'identità,
il quale rifiuta, in Ti scrivo da Bruxelles o da Strasburgo, i "balletti
intellettuali" e si fa apostolo dell'Utopia. Egli, cacciati i
mercanti dal tempio ("i falsi novatori"), evangelizza in
Qualcosa di nuovo intorno (1993) e in Compagni, chi siete? (6 aprile
1993) nuove lotte e nuovi destini. Questa la consegna:
Compagni, chi
siete? Non perdete la speranza,
parlate alle coscienze. Ricominciate da capo.
NOTE
1) "L'Espresso", Il novembre 1979 (poi in "Quotidiano"
del 12 febbraio 1980). L'opera è firmata con lo pseudonimo
Anonimo pugliese, variato, nella seconda edizione, in Salvatore Cristiano.
2) C. Bo, La religione di Serra, Firenze, Vallecchi, 1967, p. 19.
3) Ibidem, p. 20.
4) Ibidem.
5) Ibidem.
6) La formula è eponima del poemetto di V. Fiore, Il male è
dentro di noi, Bari, 1974, ora in Io non avevo la tua fresca guancia,
Bari, Palomar, 1996.
7) Premessa a Il male cit., p. 148.
8) ID., Qualcosa di nuovo intorno, postfazione di L. Scorrano, Parabita,
"Il laboratorio", 1993, p. 17 s.
9) Carlo Levi.
10) Rocco Scotellaro.
11) Vittorio Bodini e Vittorio Pagano.
12) Il riferimento è al carattere della cultura salentina negli
anni Trenta del Novecento.
13) E' "L'esperienza poetica" di Bodini e De Rosa, attiva
fra il 1954 e il 1956.
14) Il riferimento è all'opera dialettale di Giuseppe De Dominicis,
il capitano Black, Cavallino, (1896-1905). Sull'argomento cfr. D.
Valli, (a cura di) Letteratura dialettale salentina dall'Otto al Novecento,
I, Galatina, Congedo, 1995, pp. 19-36 e 117-152.
15) Donato Moro, ispettore del Ministero P.I., poeta, storico, filologo.
Aveva pubblicato, l'anno prima che Fiore scrivesse questo poemetto,
una sua ricerca sui fatti idruntini: Otranto nel 1480-81. Due preziose
fonti fra le più antiche mai fino ad oggi individuate come
tali, Maglie, "Società di storia patria per la Puglia",
1978, pp. 99-160.
16) Milano Scheiwiller 1990.
17) Qui una chiara allusione a Il male cit. (1974).
18) L'imperatore è Carlo V d'Asburgo (1516-1556); l'arco trionfale
è la leccese Porta Napoli. Il sovrano assurge, qui, ad emblema
di tutto il male storico del Mezzogiorno, si fa fantasma del negativo
implicito alla storia di "lunga durata", enunciato, questo,
della metodologia annalistica di M. Bloch e F. Braudel.
19) Premessa cit., p. 139 ss.
20) Ibidem, p. 145.
21) Lettera inedita, s. d.
22) Premessa cit., p. 147.
23) C. Bo, La religione cit., p. 39.
24) Ibidem.